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mercoledì 15 febbraio 2017

Breve storia di un disastro chiamato Obama


 


26 gennaio 2017

Barack Obama sarà ricordato come il peggiore presidente degli Stati Uniti d’America. La storia è un giudice severo, senza pietà alcuna e che – a differenza di questa società globalizzata in cui la capacità di pensiero è stata completamente inibita – non guarda in faccia a nessuno.
Per la storia, che vive d’oggettività e non di sensazionalismo, che non si lascia turlupinare dai dogmi del nostro tempo, dalla distopia rappresentata dalla globalizzazione, dal multiculturalismo e da tutti quei falsi ideali che abbraccia il mondo “radical chic”, non basta essere il primo presidente afro-americano degli Stati Uniti per essere meritevole di lode, o più semplicemente per aggiudicarsi automaticamente un premio Nobel per la pace, ma c’è bisogno di fatti concreti, di risultati conclamati.

Evidentemente non dovevano pensarla così ad Oslo, dove già nel 2009, dopo pochi mesi di mandato, il comitato per il Nobel aveva deciso di assegnare il prestigioso premio proprio ad Obama “per i suoi straordinari sforzi per rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli”.
Sono passati otto anni e due mandati presidenziali, praticamente un decennio di vita politica americana e mondiale marchiata “Obama”, che può essere riassunta in un’unica parola: disastro. Un disastro “in toto”, nella politica interna – mai come in questi otto anni si sono così accentuati i contrasti economici, sociali e razziali negli USA – ma soprattutto un disastro fallimentare in politica estera.
La sua amministrazione – di cui la candidata democratica e sfidante di Trump, Hillary Clinton, è stata Segretario di Stato nei primi 4 anni – ha fallito ovunque, riuscendo a realizzare un’unica cosa: la più grande destabilizzazione geopolitica dal secondo dopoguerra in avanti. Parliamo di un’area enorme, che parte dall’Ucraina, passa per la in Siria, attraversa tutto il Medio Oriente – dall’Afghanistan all’Iraq – s’incrocia con i perenni e mai sanati contrasti con l’Iran e  giunge fino in Libia, lasciandosi scappare, nel frattempo, qualche bomba anche sulla Somalia e sullo Yemen.
Dall’amministrazione Obama sono stati bombardati sette Paesi, sono state sganciate ventiseimila bombe solo nel 2016, si sono vendute armi per un totale di quasi 300 miliardi di dollari (la maggior parte delle quali a Paesi simpatizzati nonché finanziatori dello Stato Islamico) e, ciliegina sulla torta, si è seriamente interferito nella politica interna di uno Stato sovrano, ovvero l’Ucraina, fomentando le rivolte contro il governo democraticamente eletto di Yanukovich, affinché fosse rovesciato e sostituito da un governo filo-occidentale che avvicinasse il Paese all’Europa, con lo scopo finale – ormai tanto abituale quanto scontato – di trascinarlo prima nell’UE e poi nella Nato, contribuendo alla creazione di una nuova “cortina di ferro” con il Cremlino.
In tal senso le sanzioni commerciali a Mosca, dopo il suo intervento in Crimea, rappresentano solo un ulteriore atto finalizzato a tenere lontana l’Europa dalla Russia, ovvero dal suo partner commerciale naturale.
Così il vecchio continente si è visto costretto a stringere un rapporto sempre più vincolato agli Stati Uniti, sia in termini militari – proprio in virtù della destabilizzazione e dei nuovi contrasti con Mosca – e sia in termini economici, proprio in ragione dell’embargo.
Tutto ciò ha evidenziato la necessità di guardare sempre più ad Ovest con tutto ciò che ne consegue: aumento dell’importazione di materie prime d’oltreoceano – gas e petrolio in testa – e la proposta di sottoscrizione di accordi commerciali bilaterali, come il TTIP riguardante il mercato unico USA-UE.
Ma l’attenzione non può che focalizzarsi sulle cosiddette “primavere arabe”: il “capolavoro”, la “grande intuizione”, l’evidenza della “lungimirante visione geopolitica” di Obama, della Clinton, del Partito Democratico, di tutti i mostri dell’alta finanza che elargiscono denaro ai suddetti e – ultimi, ma non meno importati – di tutti i mass media che fanno loro da “megafono” per disinformare le masse, deviare il loro pensiero e portare così consenso politico; un sistema di alterazione della realtà che farebbe arrossire il “ministero delle verità” raccontato da Orwell nel libro “1984”, la realtà che supera la fantasia: basti pensare a come hanno raccontato il conflitto siriano quasi tutti i media occidentali.
“Primavere arabe” ampiamente finanziate, armate e appoggiate militarmente dagli Stati Uniti che alla fine si sono rivelate per quello che erano, ossia “primavere di jihad”. La scelleratezza della politica estera di Obama e i bombardamenti in favore dei cosiddetti “Fratelli Musulmani” – i quali avrebbero dovuto democratizzare il mondo arabo nell’arco di una estate – ha avuto un’unica e drammatica conseguenza: guerre civili come quella siriana e la dissoluzione di quegli ultimi baluardi di stabilità politica esistenti in Paesi come la Libia: la prova definitiva che la storia recente dell’Iraq e dell’Afghanistan, a questi signori, non ha insegnato proprio nulla.
Se c’è un successo del Premio Nobel per la pace Barack Obama è quello di essere riuscito a spianare a suon di bombe “un’autostrada” che, partendo dall’Afghanistan e passando per la Siria, arriva fino in Libia: ciò ha permesso all’Isis di diffondersi praticamente ovunque, espandendosi a macchia d’olio nel fragile Iraq, provocando morte e distruzione in Siria e radicalizzadosi nelle ferite della dilaniata Libia.
Chi ha pagato le conseguenze di tutto ciò? In primis i siriani, i libici e – in seconda analisi – noi. Mezzo milione di “rifugiati” sono sbarcati sulle nostre coste, migliaia di terroristi si sono infiltrati tra di essi, decine di attentati Isis in Europa, come mai era avvenuto in precedenza, specie in Francia e Germania.
Cosa abbiamo fatto, mentre tutto questo accadeva davanti ai nostri occhi? A parte allinearci ciecamente alla scelleratezza e la irresponsabilità americane, abbiamo sopperito al tratto mancante di quella che ribattezzeremmo “l’autostrada del Califfo” che – come detto – è vero che parte dall’Iraq ed arriva in Libia, ma non ha un ponte abbastanza lungo per arrivare fino in Europa: a costruirlo abbiamo pensato noi, con le navi della nostra Marina, offrendo vitto e alloggio.
In conclusione, finalmente si è voltato pagina: Donald Trump ha assunto la presidenza degli Stati Uniti d’America. Tante sono le aspettative su di lui, sulle politiche che intenderà mettere in atto nei prossimi anni e che si pongono in forte discontinuità rispetto al passato. Già nel suo discorso inaugurale ha lasciato intendere che molte cose cambieranno, specie in politica estera. Ma chi crede che la storia degli Obama finisca qui, sbaglia.
Nelle scorse elezioni i politici del “sistema” hanno tentato di sconfiggere chi si proponeva di lottare contro l’establishment, candidando una donna, Hillary Clinton, e facendo leva sul solito sensazionalismo irrazionale “radical chic”, al grido di “vote for me because I am a woman” (votate per me perché sono una donna), ma l’impresa non è riuscita.
È ipotizzabile che la prossima volta rincareranno la dose, magari candidando un’altra donna, stavolta afro-americana: cominciate a pensare a Michelle Obama candidata alla Casa Bianca, con Barack sul palco con lei, come Bill era con Hillary il 20 gennaio.

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