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mercoledì 30 ottobre 2013

In Libia regna il caos, la guerra civile non è finita

22/10/2013
Valentina Saini .Petrolio. Bande armate e clan. Tentazioni di secessione. Tutto a pochi chilometri dall’Italia


A poche centinaia di chilometri dalle coste italiane, c’è uno stato sull’orlo dell’abisso. Questo stato si chiama Libia. E ciò che succede lì ha conseguenze anche per l’Italia. Perché è il nostro principale fornitore di petrolio. E perché da lì partono barconi carichi di disperati.
La situazione libica è così precaria che neanche il rapimento in piena notte del primo ministro Ali Zeidan ha scosso particolarmente gli osservatori più informati. Che, confermano a Linkiesta, è stato sequestrato e poi rilasciato dalla Camera dei rivoluzionari di Libia, una delle tante milizie che spadroneggiano nel Paese dopo la caduta di Gheddafi.


È a causa delle milizie se la Libia rischia di diventare uno stato fallito. Ma proprio qui sta il paradosso: per garantire la sicurezza, il debole governo centrale libico non può che contare su quelle. Lo conferma a Linkiesta Charles Gurdon, managing director di Menas Associates. «La Libia non ha ancora un esercito né una forza di polizia. Gheddafi ha sempre mantenuto l’esercito molto debole, perciò l’attuale governo deve affidarsi ad alcune grosse milizie. Il problema è che queste bande non rappresentano altri che sé stesse e la zona da cui provengono. Quindi la loro lealtà è quantomeno discutibile».
La comunità internazionale sta aiutando il governo libico a formare la polizia nazionale, proprio per offrire una valida alternativa alle milizie che, dopo essere insorte contro Gheddafi nella guerra civile del 2011, non hanno ancora deposto le armi. Per ora, tuttavia, la polizia sembra avere funzioni più che altro ornamentali. «Se sente degli spari nelle vicinanze la polizia si gira e se ne va» confida a Linkiesta una fonte assai ben informata. Tant’è che le guardie del corpo del premier Zeidan non sono state in grado di sventare il suo rapimento.





Se ai tempi di Gheddafi «nessuno si sarebbe mai sognato di possedere neanche una fionda», ora ciò che abbonda in Libia, oltre al petrolio, sono proprio le armi. Nelle mani di milizie che non hanno alcuna intenzione di farsi disarmare, sottolinea a Linkiesta Massimiliano Cricco, docente di Storia delle Relazioni internazionali all’Università di Urbino “Carlo Bo”: «Il governo Letta ha mandato una missione dei carabinieri per aiutare la polizia locale a disarmare le milizie. Ma si tratta di un compito a dir poco arduo».
Fiere di aver liberato la Libia dalla tirannia di Gheddafi le milizie vogliono essere determinanti nel plasmare il futuro del Paese. Particolarmente potente è la milizia della città costiera di Misurata, che pretende molto dalla nuova Libia. Perché Misurata è stata la Stalingrado libica, la città che ha subito le perdite maggiori durante la rivoluzione.

Ma anche quella di Misurata, per quanto forte, non è che una fra le tante milizie, armate fino ai denti, che proliferano in una terra da secoli mosaico di lingue e tribù. E a questo punto la domanda sorge spontanea: chi le sostiene, anche finanziariamente? «L’opinione, piuttosto diffusa, è che il Qatar stia armando determinate milizie» spiega Gurdon a Linkiesta. E in Libia, come anche in Siria, la superpotenza tascabile del Golfo predilige i gruppi islamisti. «Le milizie legate agli islamisti, in certi casi ad Al Qaeda – continua Gurdon – stanno cercando di rendere alcune zone della Libia ingovernabili. La maggior parte di queste si trova nell’est del Paese ».
Cioè in Cirenaica. Dove c’è anche l’80% del petrolio libico. Pur non avendo il totale controllo degli impianti petroliferi dell’est, le milizie sono comunque in grado di influire pesantemente sulle esportazioni, e azzerare così gli introiti provenienti dalla vendita del petrolio, essenziali per la sopravvivenza del governo centrale di Tripoli. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, infatti, nel 2012 il settore degli idrocarburi ha rappresentato il 96% delle entrate del governo e il 98% del guadagno proveniente dall’export del Paese.

Ed è proprio l’oro nero ad alimentare le aspirazioni di autonomia della Cirenaica. D’altronde, ci spiega Cricco, basta guardare alla storia per capire che non è certo una novità. «La Libia del 1951, l’anno dell’indipendenza., era qualcosa di unico al mondo. Una monarchia federale, basata sulla grande autonomia di tre regioni: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. Quest’ultima è la zona desertica confinante con Algeria, Niger e Ciad, al momento il maggior focolaio di rivolte tribali, traffico d’armi e terrorismo».
La situazione del Fezzan è senz’altro inquietante. Ma neanche in Cirenaica regna la tranquillità. Risale all’anno scorso la creazione del Consiglio di transizione cirenaico (CTC), in contrapposizione al Consiglio nazionale di transizione (CNT) alla temporanea guida della Libia. Il CTC reclama una Libia federale come quella precedente al golpe di Gheddafi del 1969. Secondo Gurdon, sarebbe proprio il CTC a bloccare i porti libici. Ostacolando l’export di petrolio e tenendo così sotto scacco l’economia nazionale.

Nulla però è bianco o nero nella Libia dei clan, delle tribù e delle milizie. Anzi, abbondano le sfumature. Neanche la Cirenaica è immune dalle divisioni, né dalla presenza di elementi storicamente vicini al regime di Gheddafi. Che, spiega Cricco a Linkiesta, era un sistema assolutamente pervasivo. «Non c’era famiglia in Libia che non avesse al suo interno almeno un lealista gheddafiano. Il controllo del regime era davvero capillare, arrivava nelle municipalità, nelle tribù, nei comitati rivoluzionari».
I lealisti gheddafiani ancora presenti nell’est non assecondano le pretese di autonomia del CTC. E le divisioni esistenti sul piano politico si riflettono anche fra le varie milizie, con il rischio costante di provocare scontri armati. O addirittura di trascinare l’intero Paese nel caos. Trasformandolo in uno stato fallito. Le fonti de Linkiesta sul terreno, però, ritengono che essere così pessimisti sia prematuro. «Chiaramente se il problema [delle milizie] non venisse risolto ma piuttosto si incancrenisse, alla fine si arriverebbe a uno stato fallito – riferiscono– Ma è ancora presto per dirlo».


La stabilizzazione della Libia dipenderà probabilmente dai futuri sviluppi politici. «Nei prossimi mesi potremo capire qualcosa di più sulle possibilità di successo della transizione democratica. – spiega a Linkiesta una fonte molto addentro alla situazione – Per questo saranno fondamentali le elezioni dell’Assemblea costituente che, se tutto va bene, si terranno nella prima metà del 2014. L’Assemblea potrebbe riuscire a incanalare le tensioni tra le forze sprigionate da quel vaso di Pandora che è stata la guerra contro Gheddafi. E questo sarebbe senza dubbio positivo».
Ma la futura Assemblea costituente riuscirà a mettere tutti d’accordo anche su questioni cruciali come la legge elettorale per le nuove elezioni parlamentari? «La legge elettorale attualmente in vigore era stata pensata dal Consiglio Nazionale di Transizione per tenere lontane le opposizioni islamiste e, al contempo, valorizzare le etnie e le comunità locali alle elezioni del luglio 2012. – sottolinea Cricco – Tant’è che, sui 200 seggi [che costituiscono il Congresso nazionale generale, cioè il parlamento], solo 80 erano stati attribuiti ai partiti: il resto era andato a candidati indipendenti. Questo non poteva che portare a un governo provvisiorio e di facciata».

Peraltro alle prossime elezioni è probabile il successo degli islamisti. «Prenderanno una percentuale rilevante dei voti perché sono molto forti, soprattutto nelle zone rurali. – spiega Cricco – Il celebre Gruppo Combattente Islamico Libico ormai si è riorganizzato in un movimento islamista che pare molto forte, pur avendo due anime. Da una parte quella “combattente”, legata al terrorismo. E dall’altra quella moderata, che vuole lasciarsi alle spalle la pesante eredità dei legami con Al Qaeda e costruire un islamismo più sociale, orientato ai bisogni della gente».
A rafforzare gli islamisti contribuisce anche la legge sull’isolamento politico, approvata lo scorso maggio. Il provvedimento vieta di ricoprire qualsiasi carica pubblica a chiunque sia accusato di aver il collaborato con il regime di Gheddafi. E poichè gli islamisti non hanno mai avuto vita facile sotto il Colonnello questa legge non può che giovargli. Tra l’altro si tratta di una normativa approvata in circostanze controverse: il Congresso nazionale l’ha infatti adottata dopo mesi di assalti alla sua sede da parte di varie milizie che ne pretendevano l’approvazione.



Tweet del premier libico ad interim datato 10 ottobre



Più che nell’Assemblea costituente o nel processo politico, bisogna però confidare nel pragmatismo dei libici. O almeno questa è l’opinione di fonti vicine all’establishment petrolifero italiano. «È vero che l’output del petrolio libico è instabile, ma le interruzioni sono dovute agli scontri fra le milizie che controllano i porti e i giacimenti. Fortunatamente non ci sono stati danni alle infrastrutture. Nessun impianto petrolifero è mai stato danneggiato». Neanche durante la guerra.
Tutto ciò la dice lunga sull’attenzione riservata da ogni parte, in Libia, al business del petrolio, l’unica grande ricchezza nazionale. «Nonostante la guerra e il caos che ne è seguito – ribadiscono le stesse fonti a Linkiesta – qualche mese fa la produzione era tornata circa al 75% del livello massimo toccato sotto il regime di Gheddafi. Siamo ottimisti, la situazione dovrebbe migliorare».

Non tutti però sono altrettanto ottimisti. Secondo un consulente straniero molto vicino al governo di Tripoli, la posta in gioco è troppo alta: la Cirenaica vuole tenersi gran parte degli introiti derivanti dal petrolio, e la Tripolitania non vuole assolutamente perderli. Nessuno si darà per vinto facilmente. Come al solito, si tratta di assicurarsi il controllo delle risorse.
«Gheddafi ha sempre derubato la Cirenaica delle sue ricchezze senza dare nulla in cambio – racconta il consulente a Linkiesta – Ora l’est pretenderà la sua autonomia, come il Kurdistan iracheno. E senza quella regione, Tripoli ha ben poco di che vivere. Sicuramente le tensioni cresceranno, ma nella capitale, lontano dai pozzi: non conviene a nessuno che i big del petrolio si spaventino e scappino».


Fonte: http://www.linkiesta.it/libia-cirenaica-post-gheddafi

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