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martedì 26 novembre 2013

LIBIA: L’oscura storia dei tre mercenari(?) italiani

13 settembre 2011
Tre italiani. Sequestrati dai gheddafiani al confine tra Libia e Tunisia. Liberati lo scorso 21 agosto, dopo quasi un mese di prigionia. Una storia piena di incongruenze e assurde ambiguità. Una storia che ricorda la triste (e quanto mai oscura) vicenda di Fabrizio Quattrocchi. Dietro la parola contractor spesso si nasconde un mondo su cui persino lo Stato ha più interesse a tacere. Spie, agenti segreti o guardie del corpo? Oppure semplici mercenari? Nessuno ne parla, eccetto la giornalista del Corsera Erika Dellacasa. Impressioni? Tutte in un flashback. Tutte in due parole: Nuova Gladio.


Un mercenario serbo in Libia

Stiamo parlando della vicenda – poco nota e della quale il “Corriere della Sera” sta svelando importanti retroscena – che ha visto come protagonisti Luca Boero, Vittorio Carella e Antonio Cataldo. I tre, il 23 luglio, sono stati sequestrati dai lealisti di Gheddafi al confine tra Libia e Tunisia, ma – a detta loro – si sarebbe trattato semplicemente di sorte avversa. I tre italiani, infatti, sarebbero stati diretti non in Libia, bensì in Tunisia per presentare “un progetto di sicurezza al ministero dello Sport di Tunisi”, scrive il Corsera. La domanda è scontata a questo punto: che ci facevano i tre nella zona di confine dove poi sono stati arrestati? Pura casualità, hanno detto i tre: sarebbero stati portati lì a loro insaputa. Una tesi che – è evidente – lascia spazio a molti interrogativi. Anche perché, pur ammettendo che la posizione degli italiani sia nel vero, resta comunque difficile credere che abbiano deciso di recarsi in Tunisia in un periodo così turbolento per l’area nordafricana.

Ma continuiamo con il racconto. Il 23 luglio, come detto, Boero, Cataldo e Carella si trovano nella zona di confine, dove i lealisti li prendono prigionieri e li trasferiscono nel carcere di Abu Salim a Tripoli. Qui, a detta loro torturati, legati e picchiati, restano fino al 21 agosto, giorno in cui sono liberati dai ribelli del regime. E, finalmente, il 29 agosto il rientro in patria. Ma ad attenderli la procura della Repubblica di Roma: è stata infatti aperta immediatamente un’inchiesta, coordinata dal pm Pietro Saviotti, per comprendere come mai i tre italiani si trovassero lì in un periodo così tumultuoso.

Un idraulico, un buttafuori e un metronotte: ecco chi sono i tre contractors. E in paese nessuno sa nulla

Come detto, però, gli interrogativi sono più che profondi. Innanzitutto perché i tre hanno sì un passato militare alle proprie spalle, ma decisamente sui generis.

Vittorio Carella, ad esempio, è un metronotte di Peschiera Borromeo, “persona rispettata e rispettabile – dichiarano nel paese in provincia di Milano – anche se nell’ultimo periodo era accaduto un fatto insolito per lui: si era fatto crescere una barba folta”. Abbiamo chiesto ad un militare se ci sia un legame possibile tra tale circostanza e la partenza per la Libia: “questo non si può dire. È nei fatti, però, che un lavoro sotto copertura in Paesi come la Libia o l’Afghanistan, o da infiltrati, prevede anche che ci si faccia crescere la barba”. Soltanto un’ipotesi, si capisce. La famiglia è molto conosciuta in città: papà Virgilio ha lavorato per anni come dipendente comunale. È anche per questo che in città girano diverse voci, acuite dal fatto – ci dicono – che i familiari sono diventati evasivi, si sono barricati in casa ed è difficile avere un contatto con loro.

Antonio Cataldo, affermano a Chiusano San Domenico, paese in provincia di Avellino, di poco più di duemila abitanti dove – si presuppone – tutti conoscono tutti, “fa lavoretti vari: l’idraulico, il meccanico, cose così”. E allora cosa ci faceva in Libia? “Non lo sappiamo. Probabilmente nessuno lo sapeva. Nessuno l’ha visto in quel periodo, ma non era una novità: spesso spariva per parecchio tempo”. Fatto decisamente strano, soprattutto se si considera che Cataldo, prima di partire, ha frequentato un campo militare sulle colline di Scandicci, vicino Firenze. Stiamo parlando del VII R.A.I. (Reparto Assalto Interdizione), campo che tiene corsi, come si legge sul sito, di “Softair (gioco militare riconosciuto anche da enti sportivi, ndr), avventura” ma – attenzione – anche di “difesa personale e addestramento militare”. Qui gli spazi oscuri della vicenda cominciano ad addensarsi: perché un campo tiene corsi di Softair, ma anche di addestramento militare vero e proprio? Non è affatto un caso, allora, che la procura di Firenze abbia aperto un fascicolo sulla struttura. Se, infatti, sul sito si legge che “il Softair è uno sport di squadra riconosciuto da enti di promozione sportiva a loro volta riconosciuti dal CONI […] Il gioco è assolutamente innocuo e non violento (vietatissimo qualunque contatto fisico con l’avversario)”, il fatto stesso che si pratichi “addestramento militare” e che le voci secondo cui Cataldo abbia frequentato il campo prima di partire si facciano sempre più insistenti, lascia adito a interrogativi a cui certamente bisogna dare risposte. Dalla procura per lo meno e non dal centro militare, dato che, contattati per tutto il pomeriggio, nessuno ci ha risposto.

Ma arriviamo al terzo uomo fermato in Libia: Luca Boero, caporalmaggiore, esperto di arti marziali, investigatore privato che si occupa della sicurezza dei locali notturni a Genova. Boero abita sì nel capoluogo ligure, come riportato da diversi organi di informazione, ma soprattutto a Garbagna, in provincia di Alessandria, nella centralissima piazza Doria. Anche qui, però, nessuno si era accorto della sua assenza perché, dichiarano alcuni suoi compaesani, “spesso capitava che si allontanava da Garbagna anche per lunghi periodi”, tant’è che la notizia della prigionia è caduta come un fulmine a ciel sereno: la famiglia, sebbene sapesse, non ha fatto trapelare nulla. In paese, però, nessuno vuole entrare in merito alla questione: “sono fatti privati”, dicono.

Boero certamente era il più esperto tra i tre: lo ritroviamo, infatti, anche nel 2002, in Kosovo in divisa Kfor (Kosovo Force), ma dopo il congedo pare si sia “messo in proprio”. E lui, come gli altri, sono stati contattati – a detta loro – dall’agenzia di sicurezza con sede a Dubai 2Steam, tramite Facebook. Ma anche qui i conti non tornano: è impossibile ritrovare un sito di tale agenzia. Com’è possibile, ci si chiede allora, che i tre siano stati contattati tramite un social network se sulla rete stessa non c’è nulla che parli di tale fantomatica 2Steam? “Senza contare – ci dice il militare che abbiamo contattato – che è difficile se non impensabile che si recluti gente tramite Facebook per questioni così drammatiche e delicate”.

Le questioni aperte e quanto mai intricate non finiscono qui. Un’altra circostanza decisamente da tenere in conto è che prima di partire, rivela Erika Dellacasa, Boero “aveva contattato Paolo Simeone, già caposquadra di Fabrizio Quattrocchi, il contractor della compagnia di sicurezza Presidium ucciso nel 2004 in Iraq”.

Paolo Simeone, reclutatore di professione

Il contatto con Simeone è uno di quei fili da non perdere per cercare di ritrovare la matassa. Una matassa che, se fosse confermata l’indiscrezione della giornalista del Corriere della Sera, porterebbe molto lontano, a fatti drammatici degli ultimi anni della storia militare italiana. Stiamo parlando del sequestro e poi dell’uccisione di Quattrocchi, ma anche del sequestro della giornalista Giuliana Sgrena (2005) e delle due volontarie Simona Pari e Simona Torretta. Tutto ruoterebbe intorno alla figura, appunto, di Paolo Simeone.

Ex incursore del Battaglione San Marco, poi nella legione straniera in Paesi africani e in missione in Kosovo, Afghanistan e Iraq, nel 2002 Simeone decide di entrare nelle Ong. Perché un militare con cotanta esperienza entra nelle organizzazioni umanitarie? Ufficialmente per le sue qualità di sminatore, ma ben presto gli obiettivi di Simeone diventano altri: conoscendo bene le logiche dei Paesi in guerra non si lascia sfuggire quanto sia redditizia l’attività di fornitura di militari alle truppe in difficoltà. In Iraq, quando ancora era in una Ong – casualità: era nell’organizzazione “Il ponte per …”, la stessa in cui, un anno dopo, militeranno le due Simone quando verranno arrestate – conosce quella che poi diventerà la sua fida compagna, Valeria Castellani. Insieme fondano Naf Security, sede in Iraq, amministrata dalla stessa Castellani.

Ma la nuova azienda non riesce a vincere neanche un appalto per la sicurezza privata. Sono tutte vinte da aziende con sede in Usa. Ed ecco allora la svolta: i due, con la stessa struttura e la stessa dirigenza, fondano una nuova compagnia, la Dts Security, questa volta con sede in America, Nevada. Ed ora sì che gli appalti cominciano ad essere vinti: vengono così chiamati dall’Italia amici di Simeone, tra cui anche Fabrizio Quattrocchi, uno dei quattro contractors che verranno sequestrati il 13 aprile 2004. Gli altri, circa un mese dopo, verranno rilasciati. Quattrocchi, un giorno dopo il sequestro, verrà brutalmente ucciso.

In pratica, Paolo Simeone e Valeria Castellani, giunti da volontari, hanno ben presto deciso di metter su un’azienda di scorta e servizio militare, decisamente redditizia in un Paese di guerra, se pensiamo alla necessità di difesa per tutti coloro, imprese e politici, che ne hanno bisogno. Come disse Roberto Saviano in un articolo di allora: “diviene in molti territori dell’Iraq un esercito parallelo a tutela del flusso di capitali che giunge in Iraq sottoforma di macchinari, politici o trivelle”.

Il legame, accertato dal Corriere della Sera, tra Simeone e Boero potrebbe dimostrarsi, ora, un punto nevralgico della questione: perché tutti questi segreti? Perché tutte le persone contattate da Infiltrato.it non sapevano nulla dei loro concittadini partiti per la Libia? Perché tanto mistero? Si potrebbe prospettare – il condizionale è d’obbligo – una vicenda nella quale a tirar le fila ci sia un’organizzazione paramilitare di questo tipo?

Ipotesi mercenariato. Ma intanto lo Stato italiano si disinteressa del problema

Soltanto un’ipotesi, sia chiaro. Ma è evidente come, per molti aspetti, quanto sta emergendo in questi giorni sia la fotocopia di quello che accadde nel 2004. E, se la procura di Firenze dovesse appurare che in quel campo militare vicino Firenze non vengono tenuti solo corsi di Softair, ma veri e propri addestramenti per soldati, allora la questione si farebbe decisamente più scottante. Ad oggi i tre si definiscono semplici “addetti alla sicurezza privata”, ma i dubbi restano. Come disse tempo fa il compianto Giuseppe D’Avanzo parlando della vicenda Quattrocchi: “nessuno è in grado dire che cosa davvero i nostri connazionali facessero in Iraq e per conto di chi. Operatori della sicurezza o BG/CP, come sono definiti, bodyguard/close protection. Senza dubbio, ma la formula è troppo vaga. Quel mestiere lì si può fare in molti modi”. Ecco perché c’è chi avalla, ieri come oggi, la pista del mercenariato.

Non è un caso, allora, che, alla morte di Quattrocchi, si aprì un processo per il reato di “arruolamento o armamenti non autorizzati al servizio di uno Stato estero” (art.288 c.p.). Mercenariato, in pratica. L’ordinanza del Gip di Bari del 2004, ad esempio, dichiarava senza mezzi termini che le indagini fino a quel punto esperite avevano “consentito […] di accertare che era effettivamente vero quanto ipotizzato, subito dopo il sequestro dei quattro italiani in Iraq, che essi erano sul territorio di quel paese in veste di mercenari, o, perlomeno, di gorilla”. I reclutatori, alla fine, riuscirono a ottenere il pieno proscioglimento perché “il fatto non sussiste”, ma quanto detto sinora, questo evidente parallelismo tra quanto accaduto in questi giorni e quello che accadde in Iraq, lascia facilmente intendere che è più di un’impressione, più di un’ipotesi quella secondo la quale i tre italiani stiano perlomeno nascondendo qualcosa.

Per inciso. Anche la legge italiana, a tal proposito, agevola tali meccanismi piuttosto che contrastarli. Non siamo noi a dirlo, ma il Cemiss (Centro Militare di Studi Strategici) nel dossier “PRIVATE MILITARY COMPANIES: difficoltà di inquadramento giuridico e considerazioni sull’opportunità del ricorso al loro utilizzo” (2010). La fonte, certamente autorevole a riguardo, osserva che, sebbene l’Italia abbia ratificato la Convenzione Internazionale contro il mercenariato con la legge 210 del 12 maggio 1995 (“Ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale contro il reclutamento, l’utilizzazione, il finanziamento e l’istruzione di mercenari, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York il 4 dicembre 1989”), “ad oggi non esiste in Italia una disciplina specifica relativa al settore delle PMSCs (Private military security company, ndr)”.

Osserva il Cemiss, inoltre, che nemmeno è attivo nel nostro Paese un dibattito a riguardo, segno che “la problematicità del vuoto giuridico che concretamente circonda l’operato di queste realtà societarie legate al business della sicurezza e dei servizi militari non venga percepita come una priorità da parte delle Istituzioni”. E qual è il “vuoto giuridico” di cui si parla? Presto detto: l’articolo 288 del nostro Codice Penale, incredibile ma vero, prevede la pena soltanto per i reclutatori (“Chiunque, nel territorio dello Stato e senza approvazione del Governo arruola o arma cittadini, perchè militino al servizio o a favore dello straniero, è punito con la reclusione da tre a sei anni”), non per i mercenari stessi. Conclude il Cemiss: “è una grave lacuna che contribuisce ad aumentare la possibilità di pratiche discutibili all’interno di una zona grigia della legalità”.

di Carmine Gazzanni

Fonte: www.linfiltrato.it

http://www.maioproject.org/maio-project/libia-loscura-storia-dei-tre-mercenari-italiani/

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