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mercoledì 3 dicembre 2014

Libia, una poltrona per due. Lite tra RATTI «ministri» del Petrolio

di Roberto Bongiorni 27 novembre 2014
«Siamo noi il governo legittimo della Libia. E noi vogliamo rappresentare la Libia a questo vertice. Non abbiamo ricevuto alcun invito ma ho sentito che l'altra parte lo ha invece ricevuto». La protesta di Mashallah Zwai, ministro del Petrolio del Governo ombra di Tripoli – quello proclamato dalla coalizione islamica che ha conquistato la capitale - , mostra con efficacia come la Libia sia ormai un Paese spaccato in due (semplificando le cose). Una parte occidentale. La Tripolitania, in mano a alle milizie islamiche e politicamente guidati dalla Fratellanza musulmana. E la regione orientale della Cirenaica – ma solo una parte – controllata dalle forze laiche sostenute dall'Occidente.

Poco importata che che la Comunità internazionale abbia riconosciuto in Libia un unico e legittimo rappresentante: vale a dire l'Esecutivo del primo ministro Abdullah Al-Thinni , peraltro confinato per ragioni di sicurezza nella cittadina di Tobruk, vicino alla frontiera con l'Egitto . "Le Istituzioni" della Libia si sono sdoppiate. Due sono i Governi, due i parlamenti, di fatto due gli uomini - il governatore e il vicegovernatore – che rivendicano la leadership della sempre più strategica banca centrale, la custode delle ricche riserve in valuta pregiata. In questo caotico scenario, il vertice Opec è così divenuto l'ultimo terreno di scontro tra le due maggiori anime della Libia. D'altronde per la libia il petrolio è tutto: il 98% dell'export in valore e il 96% delle entrate governative. Chi controlla il settore energetico controlla quindi il Paese.
Le parole del ministro del Petrolio del Governo ombra stanziato a Tripoli non vanno dunque prese alla leggera. L'Opec sembra orientata a mantenere la produzione invariata. Ma anche se decidesse vigorosi tagli produttivi, la Libia non ne risentirebbe. Oggi produce solo poco più della metà dei livelli precedenti la rivoluzione scoppiata nel 2011, quando dai rubinetti dell'ex colonia italiana uscivano 1,6 milioni di barili al giorni. Di cui una buona parte finiva in Italia (fino al giungo 2013 la Libia rappresentava il 24% del nostro import di greggio) . Oggi la libia produce ben sotto la sua quota, circa 700mila barili/giorno. Ma nei momenti peggiori, nell'autunno dello scorso anno, è arrivata a non estrarre più di 150mila barili. .
A gettare benzina sul fuoco è arrivata, lo scorso sei novembre, una sentenza schock della Corte suprema. A soli quattro mesi dalle elezioni parlamentari, il massimo organo supremo della Libia ha dichiarato illegittimo il voto, e quindi tutto ciò che ne è seguito, inclusi la Camera dei rappresentanti, il nuovo Parlamento libico riconosciuto dalla comunità internazionale e il successivo Governo.
Una decisione che ha messo in imbarazzo la Comunità internazionale. il cui silenzio è in merito a questa spinosa vicenda parla da sé. Sconfessare il verdetto, sarebbe un'ingerenza nei confronti di un'istituzione cardine di uno Stato sovrano. Accoglierla significherebbe fare un affronta a una coalizione laica, più vicina agli interessi occidentali e comunque influente. E ricominciare da capo il difficilissimo processo di transizione. Un bel rompicapo.
Ma di questo passo la Libia, dove l'estremismo islamico sta già facendo proseliti, si avvia verso una guerra civile aperta . Sarebbe un disastro per l'Europa, e ancor di più per l'Italia. Su tutti i fronti: immigrazione clandestina, energia, terrorismo. La disponibilità dell'Italia per un intervento di peacekeeping sotto l'egida Onu, ipotizzata martedì dal ministro degli esteri Gentiloni, è un'iniziativa utile. Ma prima di tutto, come ha ricordato Gentiloni, occorre impegnarsi per la riconciliazione e il dialogo. E farlo in modo serio e credibile, investendo tempo e fondi, con tutti le parti del Paese. È la sola via percorribile. Prima che sia troppo tardi.

Preso da:http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-11-26/libia-poltrona-due-lite-ministri-petrolio-215638.shtml

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