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lunedì 27 gennaio 2020

Libia, a Sirte tra i nostalgici di Gheddafi (e tifosi di Haftar: «Ci ha liberato»)

Viaggio nella roccaforte del clan del Colonnello, che vorrebbe al governo il figlio Saif al Islam. E che è controllata dalle truppe dell’uomo forte della Cirenaica, ma è ancora divisa fra tre tribù

Libia, a Sirte tra i nostalgici di Gheddafi (e tifosi di Haftar: «Ci ha liberato»)
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«Grazie Khalifa Haftar, che ci hai liberato dalle milizie di Misurata. Ma adesso aspettiamo Saif al Islam Gheddafi al governo». Non c’è voluto molto tempo prima che tanti tra gli abitanti di Sirte cominciassero a dire ad alta voce ciò che per otto lunghi anni aveva covato nel loro cuore, alimentato dal desiderio faticosamente represso di liberarsi.
Sono trascorsi solo pochi giorni dal 6 gennaio, data d’arrivo delle truppe dell’autoproclamato Esercito Nazionale Libico capitanato dall’uomo forte della Cirenaica. E già Sirte torna a rivelare con rinnovata energia ciò che in realtà è sempre stata: la roccaforte del clan Gheddafi, nostalgica del quarantennio del Colonnello contro le ingerenze straniere e desiderosa di riprendersi quel ruolo di motore primo dell’unificazione nazionale libica che l’anarchia armata dagli ultimi anni le aveva brutalmente tolto. «Ancora non sappiamo se Saif al Islam, il figlio più politico di Muammar, sarà davvero in grado di ricostruire la Libia. Dal 2011 è stato a lungo in prigione a Zintan, rischia di essere assassinato in ogni momento se esce allo scoperto. Ma certo ci proverà. E noi saremo con lui», dicono giovani e anziani nei caffé, nei ristoranti, sulla spiaggia, al mercato del venerdì.
Ci siamo arrivati dopo aver percorso gli oltre 500 chilometri di deserto piatto e ricco di impianti petroliferi (oggi chiusi) da Bengasi, la cui autostrada costruita dalle ditte italiane negli anni d’oro di Gheddafi segue il tracciato della vecchia via Balbia di epoca fascista. I posti di blocco sono tenuti dagli uomini di Haftar. Il traffico appare regolare. Un viaggio che è anche la biografia delle battaglie e dei mutamenti dei rapporti di forza susseguitisi dallo scoppio della rivoluzione del 17 febbraio 2011: prima l’avanzata delle brigate della rivolta, poi le controffensive delle tribù fedeli a Gheddafi, quindi i trionfi delle milizie di Misurata sostenute dalla Nato, seguiti dall’arrivo di Isis e le battaglie per debellarlo nel 2016.
Il racconto della recente vittoria di Haftar ci viene fatto da Ahmad Milud, un imprenditore tripolino 36enne che ai primi di gennaio si era trasferito dalla capitale a Sirte: «La decisione di venire è stata repentina, dettata dalla paura. Il 2 gennaio alle otto di mattina sono uscito in auto dalla mia casa nel quartiere di Hadba a Tripoli per comprare il pane. Ma sono rimasto stupefatto nell’incontrare due miliziani siriani appena inviati dalla Turchia a presidiare da soli un posto di blocco. È stato insopportabile. Non possiamo venire governati da truppe straniere e per giunta mercenari jihadisti. Prima di sera ero già in viaggio per Sirte con mia moglie e le nostre tre bambine». Tre giorni dopo essersi insediato nell’appartamento di un amico, ecco l’arrivo in città delle truppe di Haftar. «È stato del tutto indolore, pacifico, senza alcuno spargimento di sangue in tutta Sirte. Neppure un colpo di fucile, se non quelli di gioia sparati in aria dalla popolazione per essere stata liberata. Alle cinque del pomeriggio Tv218, l’emittente di Bengasi, avvisava che le loro colonne stavano entrando dalla zona orientale. Altre erano in procinto di tagliare la strada costiera a ovest. Evidentemente le milizie di Misurata circondate da una popolazione ostile hanno scelto la ritirata veloce per evitare di rimanere accerchiate senza scampo», ricorda.
Qui nessuno può dimenticare l’ondata di saccheggi che accompagnò il linciaggio di Muammar Gheddafi con i suoi fedelissimi alle porte di Sirte il 20 ottobre 2011. «Certo che poi le milizie di Misurata con l’aiuto americano ci hanno liberati da Isis nel 2016. Però, in seguito, la loro presenza fu caratterizzata da ingiustizie e vessazioni di ogni tipo. Ci furono tanti furti d’auto ai posti di blocco. I miliziani prendevano con la forza tutto ciò che volevano. Ci consideravano mucche da mungere», racconta il 46enne Al-Halef Khalifa, proprietario di un supermercato più volte rapinato dalle milizie. Tre suoi nipoti morirono tra le fila di Isis.  Sono lo specchio delle divisioni tribali imperanti, dramma e ragione prima dell’impasse libica.
La stessa Sirte è contesa da almeno tre tribù maggiori: i Gheddafi e i Ma’adani legati al vecchio regime, oltre ai Farjani, i quali invece favoriscono Haftar per il semplice fatto che è dei loro. La città mostra evidentissimi i segni dei conflitti. Almeno due mesi durò l’assedio contro Gheddafi nel 2011. Ma il più grave fu quello contro Isis cinque anni dopo. I crateri delle bombe americane sono ora pozzanghere piene d’acqua marcia. Da allora non c’è stata alcuna ricostruzione pubblica o privata su larga scala. La gente vive nelle abitazioni ancora pesantemente danneggiate e riparate dai singoli alla bell’e meglio. Interi quartieri sono ridotti in macerie. Lo Ouaga-dougou, il lussuoso centro congressi voluto da Gheddafi per favorire il dialogo con i Paesi africani, resta danneggiato dai proiettili e bruciato all’interno. Lungo il mare e presso l’ospedale Ibn Sina le case sono quasi tutte abbandonate.
«Nel 2010 questa città aveva oltre 800.000 residenti, adesso sono meno di mezzo milione. Tanti ancora non possono tornare a causa delle carenze abitative. Però qui acqua ed energia elettrica sono più garantite che a Tripoli o Bengasi. I negozi sono ricchi di prodotti, le scuole funzionano regolarmente. Inoltre sono del tutto spariti furti e abusi. Sirte è finalmente sicura», ricorda il colonnello Kamal, vice comandante dei servizi di sicurezza arrivati con le truppe di Haftar. La ventina di civili con cui parliamo lo confermano senza incertezze: il monopolio della forza imposto dai militari di Haftar è platealmente accolto con soddisfazione. Il fronte si è ora spostato 100 chilometri più a ovest verso Misurata, dove però il consenso resta con le milizie.

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