Translate

mercoledì 22 maggio 2019

JUGOSLAVIA, UNA FINE ANNUNCIATA E PROGRAMMATA

1 marzo 2014,
di Massimo Iacopi -
Creato artificialmente all’indomani della Prima guerra mondiale, lo Stato jugoslavo non è sopravvissuto alla fine della guerra fredda. La sua dissoluzione, abilmente gestita dall’esterno, ha generato nuove e vacillanti organizzazioni statali che promettono nuove instabilità per il futuro.
Il secondo smembramento della Jugoslavia è stato la conclusione di un processo di disintegrazione iniziato nel corso degli anni ’80 del XX secolo. Oggi sappiamo che la Cia aveva preparato fin dal 1988 un piano di frazionamento del Paese, considerato un attore troppo importante nel momento in cui la scomparsa dell’Urss sembrava aprire nuove prospettive per il progresso della globalizzazione liberale. Fattori interni quali il desiderio di autonomia delle minoranze nazionali, le rivendicazioni irredentiste e un sistema economico “autogestito” e ormai in debito di ossigeno, possono spiegare il crollo della federazione jugoslava. Ma, sulla base di recenti ricerche, ci si può legittimamente interrogare anche sul ruolo importante rivestito dalle potenze straniere.
L’appoggio dell’Iran e dell’Arabia Saudita ai mussulmani di Bosnia e del Kosovo, il sostegno della Germania alle indipendenze croate e slovena o le proiezioni della Russia verso le popolazioni di fede ortodossa sono altrettanti fattori che hanno influito pesantemente sullo spazio ex jugoslavo a partire dagli anni ’90.
Di fatto, intervenendo direttamente in Bosnia (accordi di Dayton del 1995) e in Kosovo (1999), o indirettamente per il controllo delle rotte del gas e del petrolio, l’impero americano ha accelerato il crollo di un Paese che solo un decennio prima era stato sul punto di firmare un accordo di pre-adesione alla Comunità Economica Europea.
Tito con Nixon alla Casa Bianca, 1971
Tito con Nixon alla Casa Bianca, 1971
All’indomani della Seconda guerra mondiale, Josip Broz, detto Tito, edificò – sulle rovine del regno fondato nel 1918 e invaso nel 1941 da Tedeschi e Italiani – una nuova Jugoslavia comunista. La federazione delle sei repubbliche, create nel 1946, basava il suo collante sulla Lega dei Comunisti di Jugoslavia e sulla statura internazionale del suo leader, creatore del Movimento dei Paesi non allineati. Ma il croato Tito temeva le ambizioni e il peso politico della componente serba (8 milioni sui 26 milioni di abitanti nel 1953) e suddivise la Serbia in tre entità, fra cui la Voivodina e il Kosovo-Metochie. Eliminò anche le opposizioni stalinista e monarchica, inviando i loro capi nel campo di “rieducazione” e prigionia di Goli Otok (1948-1956).
In realtà, Tito non riuscì a risolvere la questione nazionale. A partire dal 1964 commise l’errore di creare una nazione caratterizzata dall’adesione a una religione, la “nazione musulmana” di Bosnia-Erzegovina. I musulmani, sostenuti dall’Arabia Saudita, approfittarono di questo sostegno costruendo più moschee di quante ne erano state costruite sotto il dominio ottomano.
Nel 1968, nel vicino Kosovo-Metochie, la popolazione albanese chiese, nel corso di alcune manifestazioni, la creazione di una settima repubblica. Ottenuta una parziale autonomia, il Kosovo potrà così accedere alla presidenza federale nella Costituzione del 1974. I Serbi, in minoranza e respinti dal governo provinciale, cominciano a lasciare il Kossovo.
Nel 1971 anche le gerarchie del partito comunista croato reclamano una maggiore autonomia rispetto al governo centrale, ma la loro iniziativa viene stroncata da Belgrado.
Alla sua morte, nel 1980, Tito lascia un paese diviso e disarmato di fronte alla crisi economica. Il sistema di autogestione non funziona più; durante gli anni ’70 la crescita della disoccupazione aveva spinto molti jugoslavi all’emigrazione. Questa situazione economica contribuì ad aumentare le frustrazioni e a incoraggiare le spinte nazionaliste.
Carro armato distrutto a Vukovar, 1991 - Peter Denton
Carro armato distrutto a Vukovar, 1991 – Peter Denton
L’accesso al potere di Slobodan Milosevic (1941-2006) accelera la disintegrazione del Paese. Milosevic, pervenuto alla testa della Lega dei comunisti di Serbia nel 1987, procede all’epurazione dei quadri giudicati troppo “unitaristi”, prima di annullare, nel 1988, le autonomie della Voivodina e del Kosovo-Metochie. Le altre repubbliche iniziano a preoccuparsi per la loro sorte. Nel gennaio 1990 il 14° Congresso della Lega dei Comunisti della Jugoslavia abolisce il ruolo dirigente del partito e consente l’indizione di elezioni pluraliste. Milosevic si impone e viene eletto, nello stesso anno, primo Presidente della Serbia postcomunista. Le indipendenze slovene e croate del giugno 1991 precipitano la disintegrazione dell’insieme federale. La Serbia di Milosevic propugna il mantenimento della struttura statale, soprattutto a motivo del fatto che i Serbi risultano sparsi su tutto il territorio jugoslavo. Germania e Stati Uniti approfittano invece dell’indebolimento della Russia per sostenere l’esercito croato.
Dopo quattro anni di guerra, Franjo Tudjman (1922-1999) può ricostituire uno stato croato entro le frontiere definite da Tito nel 1945. Le autorità musulmane di Sarajevo proclamano a loro volta l’indipendenza nell’aprile 1992, avviando di fatto un conflitto con i Serbi e i Croati, che la rifiutano. Il conflitto bosniaco si concluderà con gli Accordi di Dayton: il 51% del territorio spetta ai Mussulmani e ai Croati, il 49% ai Serbi. Questi accordi consentono il ritorno alla pace e alla ricostruzione economica, ma non hanno, fino ad oggi, regolato il problema del ritorno dei rifugiati alle loro case.
Dopo il 1989, gli Albanesi del Kosovo rifiutano di partecipare alle elezioni jugoslave. Nel 1992 eleggono Ibrahim Rugova (1944-2006) come Presidente dell’autoproclamata repubblica del Kosovo. Il Movimento indipendentista più radicale, l’UCK (Esercito di Liberazione del Kosovo), apparso nel 1993, inizia la lotta armata nel 1996. La polizia serba risponde con l’uso della forza alle azioni kosovare. Dopo il fallimento dei negoziati di Rambouillet, viene lanciata una campagna di bombardamenti da parte della NATO su obiettivi serbi, dal 24 marzo all’8 giugno 1999. L’Alleanza Atlantica, su mandato dell’ONU, interviene fuori della zona prevista dall’articolo 5 della sua Carta. Il movimento separatista albanese, invece di essere arginato, si espande alla Macedonia l’anno seguente ed alla Serbia meridionale nel 2002.
Nel giugno 1999 il Kosovo viene sottoposto ad amministrazione ONU e il suo primo Alto commissario è il francese Bernard Kouchner, che istituisce una frontiera doganale con la Serbia. Il potere di Milosevic, ormai esangue, non può più impedire la “rivoluzione” dell’ottobre 2000. La Serbia-Montenegro si federa nel 2003, ma, di fronte alle crescenti divisioni fra le due repubbliche, il Montenegro sceglie l’indipendenza nel giugno 2006. L’autoproclamazione, nel febbraio 2008, dell’indipendenza del Kosovo, completa lo smantellamento della Jugoslavia. Il Kosovo diventa uno stato a rischio, diretto da clan mafiosi, in preda a traffici di ogni generi e dove 135.000 Serbi vivono ancora all’interno di enclaves isolate.
Un blindato dell'ONU a Sarajevo, 1995 - Paalso
Un blindato dell’ONU a Sarajevo, 1995 – Paalso
La disintegrazione della Jugoslavia deve essere ricondotta nel contesto del nuovo ordine mondiale disegnato dagli Stati Uniti agli inizi degli anni ’90. Nel 1997 Zbigniew Brzezinski (politologo e già consigliere del presidente americano Carter) aveva scritto che l’Europa costituiva una “testa di ponte degli Stati Uniti”. La Jugoslavia rappresentava, in questa prospettiva, un insieme che era opportuno dividere. Gli americani e i loro alleati cercheranno di favorire i movimenti separatisti e secessionisti.
Scegliendo i musulmani come punto di appoggio della sua strategia jugoslava, Washington rimodellato il paese secondo i propri interessi politici, militari ed economici. Nel corso degli anni ’90 per formare l’esercito bosniaco, gli Americani allestiscono organizzazioni semi-private (MPRI) e votano dei programmi (Equip and train) favorevoli ai loro interessi militari industriali. Con la Conferenza di Dayton del 1995, che riporta la pace nell’area, il dipartimento di Stato americano impone alla Bosnia uno statuto che la rende di fatto ingovernabile, ma che consente loro di installare un laboratorio del nuovo ordine mondiale: moneta basata sul marco, occupazione militare continua dal 1995, Alto commissario che può destituire qualsiasi personalità politica legalmente eletta e congelare i beni dei leaders locali troppo indipendenti.
La realpolitik americana va incontro alla sua ora di gloria con l’affare del Kosovo. Dalla sua creazione nel 1993, l’UCK è considerato un movimento terrorista dal dipartimento di Stato. Ma nel giro di poco tempo il Segretario di Stato, Madelene Albright, intravvede l’interesse di spingere alla secessione gli Albanesi del Kosovo. In occasione della Conferenza di Rambouillet, la signora “simpatizza” con il giovane Hashim Tachi, esponente dell’UCK coinvolto in attività criminali e traffico di droga, e rovescia i negoziati in favore degli Albanesi: due settimane più tardi, il Kosovo viene bombardato in nome della giustizia e dei diritti dell’uomo. Si sa ora che, per l’occasione, sono state montate le peggiori menzogne, come ad esempio il falso massacro di Racak, o la cifra di 10.000 mila vittime inventata da Kouchner.
Sepolture per le vittime di Srebrenica, 1995 - Paul Katzenberger
Sepolture per le vittime di Srebrenica, 1995 – Paul Katzenberger
Ci si può stupire dell’improvviso interesse degli Americani, e degli Europei che li hanno seguiti, per questo territorio enclave dei Balcani. Di fatto, nel 1999, i trattori di Hulliburton, una multinazionale legata al complesso militar-industriale americano, iniziano a scavare le fondamenta di quella che deve essere la più grande base americana in Europa: Camp Bondsteel, una vera e propria città fortificata, che ospita 7.000 soldati. Quando gli Americani lasceranno l’Europa dell’Ovest, i Balcani rappresenteranno la testa di ponte avanzata verso i teatri d’operazioni del “Grande Medio Oriente”. Per di più il Kosovo si trova all’intersezione dei progetti di diversi oleodotti e gasdotti.
Altre ingerenze esterne spiegano, a partire dal 1991, la disintegrazione della Jugoslavia. La Germania ha sostenuto le indipendenze slovena e croata, finanziando attraverso i servizi segreti il movimento nazionale croato. Con la scusa di aiuti umanitari, le potenze musulmane sono intervenute anch’esse nell’area, anche in campo militare. Dal 1991 al 1995 l’Iran ha inviato armi alla Croazia mentre dei “Guardiani della Rivoluzione” hanno addestrato la 7a Brigata musulmana in Bosnia; l’Arabia Saudita ha, da parte sua, concesso un aiuto militare di 35 milioni di dollari all’esercito bosniaco.
Dal 1992, la “trasversale islamica”, che raggruppa albanesi, musulmani di Bosnia, del Kossovo, del Sangiaccato di Novi Pazar serbo (una regione montagnosa sulla frontiera fra la Serbia ed il Montenegro) e della Bulgaria, è stata oggetto di interesse di associazioni caritative islamiche, che impongono la sharia in enclaves come Tuzla, oppure riescono a creare temporaneamente piccoli emirati wahhabiti sul suolo bosniaco (è accaduto alla fine degli anni ’90). Con il nuovo millennio si assiste a una re-islamizzazione delle società bosniache o kosovare: l’Arabia Saudita invia predicatori, imam e insegnanti di arabo a predicare la jihad; ONG come l’Organizzazione Islamica Attiva provvedono alla costruzione di moschee, i cui imam provengono dal wahabismo saudita. Di conseguenza, anche il terrorismo islamista trova basi di appoggio: campi di addestramento di gruppi come Al Quaeda, El Mudzahid o Abu Bedir Sidik si trovano nel Sangiaccato e nel Kosovo (alcuni dei quali sono serviti da base arretrata per gli attentati di Londra e di Madrid). La politica condotta dagli Stati Uniti nei Balcani ha creato così le condizioni per l’attecchimento del terrorismo islamista e di quello dell’UCK nel Kosovo.
Da ultimo, i Russi hanno fatto pagare ai comunisti serbi, nel corso degli anni ’90, la loro volontà di emancipazione nei confronti della defunta URSS. Nonostante l’invio di diversi emissari a Mosca, fra i quali anche il fratello di Milosevic, a quel tempo Ministro degli Affari Esteri, Eltsin oppose sempre un diniego agli appelli del “fratello serbo”. Con Vladimir Putin la Russia sembra orientarsi nuovamente verso i suoi fedeli amici ortodossi, in una visione strategica secondo la quale i Balcani sono disposti nel “secondo cerchio” di fronte all’Impero americano. Attraverso una politica energetica molto attiva (troncone principale del gasdotto Southstream e acquisto della compagnia petrolifera NIS) e un appoggio indefettibile al non riconoscimento del Kossovo-Metochie, la Serbia è diventata un elemento fondamentale nel dispositivo strategico russo.
Stato fragile e destabilizzato dal dinamismo demografico della sua minoranza albanese, la Macedonia rischia di scoppiare in più pezzi, la parte occidentale albanofona, orientata verso il Kosovo, la parte orientale verso la Bulgaria. Il Montenegro sembra ancora più minacciato, in quanto l’etnia montenegrina era minoritaria già dalla sua nascita nel 2006. Esiste il rischio che la minoranza albanese, delusa dal rifiuto della legge sui diritti delle minoranze, si orienti progressivamente verso il partito albanese d’opposizione, incoraggiata dalla concessione dell’indipendenza al vicino Kossovo, mentre la minoranza bosniaca del nord si trova attirata dalla Bosnia-Erzegovina dove l’islam ha ritrovato tutto il suo vigore. Quanto all’importanza della minoranza serba (32%), essa non si riconosce nell’identità montenegrina e si augura il sostegno della Serbia limitrofa. Questo giovane stato potrebbe vedere ridisegnate le sue frontiere per poter tener conto delle diverse componenti etniche e ritornare, in tal modo, ai limiti etnici del principato di prima del 1878.
Moschea a Prizren, Kosozo - Shkelzen Rexha
Moschea a Prizren, in Kosovo – Rexha
La Repubblica di Bosnia-Erzegovina, creazione artificiale degli Accordi di Dayton, e anch’essa divisa in due entità, vive una esistenza precaria da quasi un decennio. Sebbene la Comunità Europea cerchi di far avanzare le due entità verso un’unificazione forzata, la Bosnia-Erzegovina potrebbe diventare, secondo l’espressione di un leader mussulmano “solo un’unione molle di due entità costrette a vivere insieme”. Inoltre, l’entità artificiale croato-musulmana potrebbe essa stessa scoppiare: la minoranza croata d’Erzegovina, che beneficia già del diritto di voto in Croazia, non aspetta che l’occasione per associarsi allo stato croato. In definitiva il sogno o l’illusione di una Bosnia multietnica si è risolto in un fallimento.
Al contrario, il Kosovo potrebbe beneficiare, per l’avvenire, del possibile crollo della Macedonia e del Montenegro. In effetti, si può prevedere che le minoranze albanofone di questi due stati possano aggiungersi allo stesso Kosovo-Metochie per formare, con lo stesso processo che ha trasformato la provincia serba in uno stato autoproclamato, un insieme albanofono di circa 3 milioni di abitanti. Questo Grande Kosovo sarebbe più o meno legato all’Albania propriamente detta sotto la forma di una confederazione.
La Repubblica di Serbia, dopo essere stata amputata del Kosovo (che era tuttavia storicamente la sua culla), potrebbe perdere il Sangiaccato di Novi Pazar, a maggioranza mussulmana, attirato dall’entità mussulmana della Bosnia. A nord le tendenze centrifughe in Voivodina potrebbero comportare la messa in opera di una federazione Serbia-Voivodina, nella quale la seconda entità beneficerebbe di una autonomia interna, lasciando a Belgrado solo la difesa e la politica estera. La Serbia ristretta, ridotta ad una popolazione di appena 6 milioni di abitanti, ritornerebbe in tal modo alle frontiere anteriori alle guerre balcaniche del 1912-1913. Da parte loro, gli ungheresi della Voivodina, Transilvania e Slovacchia potrebbero chiedere a Bruxelles la formazione di tre euroregioni transfrontaliere, che potrebbero beneficiare di investimenti massicci dell’Austria e della Germania, e ricostituire così l’Ungheria dei 15 milioni di abitanti, promessa dal suo presidente Gyula Horn nel 1993.
Dalla fine della guerra fredda, gli americani si sono sforzati, con successo, di mantenere l’egemonia in Europa, mentre, nello stesso momento, la scomparsa dell’URSS non giustificava più la loro presenza sul suolo europeo. La volontà di ridurre la nuova Russia verso uno spazio continentale euroasiatico ha guidato gli interventi di Washington nei Balcani. L’Europa di Bruxelles, indebolita dalla crisi economica e dal rigetto che essa sta suscitando nell’opinione pubblica, non fa altro che accettare ed assumere, quasi supinamente, le volontà americane.
Di fatto, è stato rallentato il processo di integrazione dei paesi balcanici. Dopo la Croazia, entrata nell’Unione Europea nel luglio 2013, gli altri stati dell’ex Jugoslavia dovranno aspettare. Nello stesso tempo gli Europei mettono in opera, localmente, le decisioni assunte a Washington: l’Alto rappresentante in Bosnia, o la missione Eulex in Kosovo (per aiutare le autorità a costruire uno Stato di diritto) avallano di fatto la politica statunitense.
In definitiva, l’impresa che, dall’esterno, ha operato per una nuova ricomposizione dei Balcani dopo la disintegrazione jugoslava, non ha risolto nulla. L’operazione statunitense, basata su principi “democratici”, sul diritto di ingerenza e sul “dovere di proteggere”, spesso invocati a geometria variabile, è miseramente fallita. Creando, inoltre, nuovi focolai di instabilità, come lo stato Bosniaco e quello del Kossovo. L’Europa, nell’attuale versione di Bruxelles, sembra incapace di dire la sua e soprattutto è ben lontana dal portare un contributo significativo alla pace nell’area.
Ma vale la pena sottolineare, prima di chiudere, un altro aspetto che dovrebbe costituire fonte di legittima preoccupazione per gli Europei. Al di là dei semplici episodi che potranno determinare gli sviluppi futuri, le forze che comandano oggi la “tettonica” storica hanno ridato alla Turchia – potenza emergente ambiziosa e dinamica – un posto di primo piano nella regione. Il presidente turco Tayyip Erdogan ha dichiarato a Prizen, in occasione di un recente viaggio nel Kossovo, che “la Turchia è il Kosovo ed il Kosovo è la Turchia. Noi siamo tutti figli della stessa nazione, forti ed uniti come dei fratelli”. Affermazioni che hanno fatto eco a frasi già pronunciate nel corso degli anni ’90 dal presidente turco Suleyman Demirel, secondo il quale lo spazio naturale della Turchia si estendeva dall’Adriatico all’Asia centrale.
Si può constatare, in tutto questo, come la storia nei tempi lunghi è di nuovo all’opera. In effetti, quello che sotto le vestigia ottomane era un tempo il “malato d’Europa”, sembra aver ritrovato oggi una nuova volontà di potenza. Argomenti che devono far riflettere i pur diminuiti fautori dell’adesione all’Unione Europea di uno Stato, che si inscrive in modo naturale, per effetto del suo sviluppo economico e del caos del vicino Oriente, nelle visioni dottrinali “neo-ottomane” del suo ministro più in vista, quello degli affari esteri, Ahmet Davutoglu.
Per saperne di più
N. Mirkovic, Le Martyre du Kosovo – Edition Jean Picollec, Parigi 2013
P. Pean, Kosovo: une guerre juste pour creer un etat mafieux – Fayard, Parigi 2013
A. Troude, Balkans, un eclatement programmé – Xenia, 2012
A. Troude, Géopolitique de la Serbie – Ellipses, 2006
J. Pirjvec, Le guerre jugoslave 1991-1999 - Einaudi, Torino 2002

Preso da: http://www.storiain.net/storia/jugoslavia-una-disintegrazione-annunciata-e-programmata/

Nessun commento:

Posta un commento