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mercoledì 3 gennaio 2018

SPY FINANZA/ Le manovre dietro l'oleodotto esploso in Libia

L'esplosione dell'oleodotto in Libia è un segnale importante. Il Paese mediterraneo è al centro di grandi interessi per i paesi occidentali. MAURO BOTTARELLI
Lapresse 
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Novantamila barili di produzione petrolifera in meno al giorno. Chiunque abbia colpito il terminale petrolifero di Sidra, nella Cirenaica libica e non lontano dall'altro hub strategico di Ras Lanuf, sapeva cosa stava facendo. E cosa voleva ottenere. Non a caso, non appena diffusi i primi particolari sull'attacco, nel pomeriggio di martedì, i futures a Wall Street sono schizzati, portando le valutazioni del greggio ai massimi dal 2015, sfiorando quota 60 dollari al barile. Ma c'è di più e di più grave dietro quell'attacco così estemporaneo e devastante. In primis, nella dinamica. 
Chiunque abbia un'infarinatura minima di preparazione militare - basta il servizio di leva - sa che poche attività belliche sono strategiche come la posa di mine, atto che sembra alla base dell'attentato in Libia. Un assalto si può condurre in vari modi, un attentato ancora di più, ma per minare servono strategia, preparazione, uomini e, soprattutto, tempo. Perché devi agire in loco, ovvero dove vuoi attaccare e non è certo facile: non a caso, l'uso di mine è prevalentemente difensivo, ovvero strategia attiva a difesa di un asset che non vuoi che finisca in mano nemica. In nessun modo. Quindi, se si prospetta la malaparata, sei pronto a far saltare tutto. Ma se la tua caserma o la tua raffineria sono facili da minare, quella del nemico meno: per il semplice fatto che, a meno di un'operazione di infiltrazione di primissimo livello, i rischi di essere scoperti sono quantomai elevati. 

Insomma, se davvero è andata come dicono i testimoni e le prime ricostruzioni, si tratta di opera da professionisti di altissimo livello, non di miliziani da deserto. E qui subentra la seconda variabile, ovvero il fatto che quanto accaduto non è successo in un posto a caso, ma in un terminal petrolifero strategico sito nell'area sotto il controllo del generale Khalifa Haftar, l'uomo forte di Tobruk, alleato con Egitto e Russia. Quindi, probabilmente chi ha colpito non voleva solo creare danni strutturali all'industria petrolifera, ma mandare un segnale chiaro: non solo possiamo colpire, ma possiamo farlo al cuore. Pressoché indisturbati. 
E questo è inquietante. Per la terza ragione: perché qualcuno è in grado di operare in quel modo in un contesto da puzzle tribale e da tutti contro tutti come quello libico attuale. Chi, però? L'Isis, come molti si affrettano a sottolineare? E come avrebbero fatto le armate in rotta da Siria e Iraq, già ridotte a ranghi minimi dalle offensive nemiche, a radicarsi e diventare operative in questo modo, in questo contesto e in così poco tempo? L'unica è aver stretto un patto con alcune tribù, in cambio di contropartita economica: se così fosse, avremmo un quadro generale del Paese tripartito ancora più inquietante. Una parte con Al-Sarraj e l'Occidente (leggi Nato), una parte con il generale Haftar (Egitto e Russia in primis) e una terza parte gestita autonomamente da clan tribali che hanno sottoscritto un patto con lo Stato islamico. Miglior descrizione geopolitica di una polveriera non esiste in natura. 
La Libia è fuori controllo? Sì, da tempo, ma tutti hanno fatto finta di non vedere, per almeno un paio di ragioni. Convenienza tattica, visto che il tempo andava speso per tessere alleanze strategiche. E, soprattutto, assenza di combattimenti eccessivamente cruenti e, soprattutto, atti di terrorismo. Bene, quanto accaduto martedì pomeriggio potrebbe cambiare definitivamente le carte in tavola e aprire la fase due dell'instabilità libica post-Gheddafi: se infatti anche il generale Haftar, il duro della situazione, quello che minacciò di bombardare le nostre vedette se fossero entrate in acque territoriali libiche e per tenere buono il quale abbiamo dovuto chiedere i buoni uffici egiziani (vedi il ritorno del nostro ambasciatore al Cairo, al netto dell'impasse sul caso Regeni), non è in grado di gestire i territori sotto il suo controllo, allora si rischia davvero uno scenario siriano. E questo implica anche la discesa in campo, per ora solo a livello diplomatico o coperto, delle forze occidentali che si sono schierate nel tempo con le varie fazioni. Ma implica anche altro: il terrorismo, infatti, porta con sé non solo la necessità di armarsi e difendersi - warfare -, ma anche la necessità di difendere le proprie infrastrutture e territori: e se la situazione libica precipitasse a tal punto da arrivare a un 2011 in versione 2.0, ovvero con la necessità/volontà di un intervento militare occidentale? Chi sarebbe in campo e al fianco di chi? 
Di fatto, un altro proxy fra Occidente e Russia, perché ricomporre la frattura fra Al-Sarraj e Haftar, al netto della photo-opportunity all'Eliseo tentata da Emmanuel Macron, appare impossibile al momento e soltanto un nemico comune potrebbe dar vita al miracolo. Ma uno davvero forte, grande e pericoloso: come un Califfato, ad esempio. E un Califfato talmente potente da poter colpire al cuore un hub petrolifero strategico a controllo nazionale, oltretutto con modalità di attacco che appaiono da esercito in piena regola. Qualcuno ha interesse a "forzare" la crescita di radicamento e influenza dello Stato islamico in Libia per sbloccare paradossalmente l'ambivalente impasse fra i due governi di Tripoli e Tobruk, forzando la pacificazione in nome della lotta all'Isis? Certo, fino al momento in cui sto scrivendo, a suffragio di questa tesi mancherebbe l'elemento più importante per un gruppo "mediatico" e social come l'Isis, ovvero la rivendicazione. Ma, paradossalmente, questo potrebbe tramutarsi in un'indiretta conferma della serietà di quanto si starebbe sviluppando sottotraccia: le ultime chiamate di responsabilità dell'Isis tramite il proprio sito o Site di Rita Katz risultano infatti così generiche e grossolane da averne eroso la credibilità. 
Attenzione, poi, al proxy statunitense situato in Libia, ovvero alla guerra tutta intestina al Deep State fra Cia e Fbi. Ovvero ancora, fra Casa Bianca e fronte anti-Trump, finora combattuta quasi esclusivamente attraverso il Russiagate. In Libia, più esattamente al consolato di Bengasi, l'11 settembre 2012 (notare la data), si verificò un attentato nel quale perse la vita l'ambasciatore Usa, Christopher Stevens, oltre a un funzionario e due marines di guardia. L'atto oltraggiò il mondo intero e il presidente Barack Obama parlò di «attacco scellerato a cui reagiremo garantendo maggiore sicurezza agli americani nel mondo», ma soltanto grazie a WikiLeaks, anni dopo, abbiamo scoperto che da alcune pertinenze della sede diplomatica Usa in Libia transitarono armi destinate ai "ribelli moderati" siriani, come scritto da Sidney Bluementhal, diplomatico e uomo dei Clinton, nel carteggio via mail con l'allora capo del Dipartimento di Stato, la futura candidata alla Casa Bianca, Hillary Clinton. Mail processate attraverso un server privato, fattispecie che avrebbe potuto costare alla ex First Lady non solo la candidatura ma anche un soggiorno in una galera federale, se l'Fbi non fosse intervenuta a insabbiare tutto. 
Oltre agli oleodotti, potrebbero saltare in aria anche altarini e scheletri nell'armadio, se la Libia si infiammasse? Chissà. Strano timing, però, quello in base al quale Emmanuel Macron avrà uomini addestrati, pronti e già in zona da mandare a presidiare assets petroliferi strategici, se la cosa si rendesse necessaria. Tanto, in Niger al posto loro ci andremo noi. La Total ringrazia in anticipo, chiedere invece ad Eni riguardo la strategicità dell'ultima scelta di Gentiloni.
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Preso da:  http://www.ilsussidiario.net/News/Economia-e-Finanza/2017/12/28/SPY-FINANZA-Le-manovre-dietro-l-oleodotto-esploso-in-Libia/799094/#.WkUIeLBRgWQ.facebook

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