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venerdì 22 dicembre 2017

“Crisi umanitaria” in Birmania: è sempre questione di petrolio e infrastrutture



Nella ex-Birmania, oggi Myanmar, è riesplosa la tensione tra la minoranza mussulmana e la maggioranza buddista. Washington e Londra hanno istallato ai vertici dello Stato il premio Nobel Aung San Suu Kyi, perché avvallasse la secessione della strategica regione mussulmana dell’Arkan. La giunta militare birmana, però, non intende cedere ed ha rafforzato i legami con la Cina: in palio ci sono i giacimenti di idrocarburi e la strategica via di comunicazione che unirebbe Pechino all’Oceano Indiano, senza passare dallo Stretto di Malacca. Si ripropone lo stesso schema sperimentato durante l’occupazione del Giappone, durante cui buddisti e mussulmani combatterono rispettivamente contro e a favore degli inglesi.

I mussulmani Rohingya, una vecchia conoscenza dell’impero britannico

Trascorrono gli anni, i decenni ed i secoli, ma la geopolitica non cambia e con lei restano immutati gli elementi basilari del contesto umano-geofrafico: divisioni religiose, minoranze etniche, catene montuose, stretti marittimi, vie di comunicazione, etc. etc. Certo, gli attori che si contendono l’egemonia non sono sempre gli stessi, ma il teatro dove si sfidano subisce pochissimi cambiamenti: è quindi sufficienti studiare cosa accade in passato, per capire il presente ed anticipare il futuro.
Corre l’anno 1942: l’impero nipponico è al suo apogeo, estendendosi dalla Manciuria alle isole Salomone, passando per la strategica Singapore che presidia lo Stretto di Malacca e separa l’Oceano Pacifico da quello Indiano. La Cina, schierata a fianco degli Alleati, riceve armi e mezzi attraverso una via di comunicazione costruita ad hoc: è la “Burma road” che consente ai rifornimenti angloamericani di passare dall’Oceano Indiano alla Cina continentale, attraverso la Birmania sotto controllo britannico. La volontà di tagliare questa strategica via di comunicazione, unita alla sete di materie prime, spinge Tokyo ad invadere la Birmania, partendo dalla Thailandia occupata.
Nel marzo 1942 cade la capitale Rangoon, obbligando gli inglesi a ritirarsi nella vicina India. I giapponesi possono avvalersi nella loro avanzata del sostegno di alcuni strati della popolazione birmana: i giovani nazionalisti ed i buddisti salutano con favore l’ingresso dell’occupante asiatico, che promette la liberazione dal giogo inglese. Al contrario, la minoranza mussulmana rimane fedele alla corona inglese e riceve armi ed equipaggiamenti da Londra per frenare la marcia dei giapponesi e dei loro alleati locali. La regione di Arkan, oggi Rakhine, è teatro di sanguinosi scontri etnici tra i buddisti-filogiapponesi ed i mussulmani-anglofili. Questi ultimi, concentrati nel litorale settentrionale, vicino al moderno Bangladesh, si chiamano Rohingya.
Una strategica via di comunicazione che unisce la Cina all’Oceano Indiano raggirando Singapore, la presenza di idrocarburi, una maggioranza buddista schierata su posizioni nazionaliste-militariste, una minoranza mussulmana su posizioni anglofile: sono questi gli elementi che, rimasti immutati a distanza di 75 anni, permettono di capire quanto sta avvenendo in Birmania.
Oggetto di un colpo di Stato di ispirazione socialista nel 1962, la Birmania rimane ai margini della Guerra Fredda. Fomentate nel 1988 alcune rivolte studentesche che anticipano la tentata rivoluzione colorata di Piazza Tienanmen, crollato il Muro di Berlino nel novembre 1989, anche Rangoon è sospinta dagli angloamericani verso “la democrazia”.
Nel maggio del 1990, si svolgono le prime elezioni libere dall’avvento dei militari, dominate dalla figura di Aung San Suu Kyi: figlia del “padre della patria” che contrattò con gli inglesi l’indipendenza del 1947, educata in Inghilterra, trascorsi alle Nazioni Unite, sposata con un cittadino britannico, Aung San ha tutte la carte in regola per traghettare la Birmania dall’economia pianificata al libero mercato. La giunta militare, conscia delle spinte centrifughe che attraversano il Paese, non ha però nessuna intenzione di abdicare: rifiutato l’esito delle elezioni, l’altisonante “Consiglio di Stato per la Pace e lo Sviluppo” scioglie l’assemblea ed arresta i leader politici d’opposizione. Lo smacco, per Washington e Londra, è cocente: assegnare il Premio Nobel per la Pace a Aung San Suu Kyi (1991) è una contromisura d’effetto, sebbene di scarsa efficacia. Gli anni ‘90 ed i primi dieci anni del XXI secolo trascorrono, infatti, senza che Rangoon mostri segni di ravvedimento, lasciando Aung San relegata agli arresti domiciliari.
D’altronde, le priorità degli Stati Uniti sono altre in quel momento: Bill Clinton deve espandere la NATO ad Est e ridisegnare i Balcani, George W. Bush sogna di ridisegnare il Medio Oriente e piantare la bandierina in Afghanistan, cuore dell’Eurasia. Mentre gli angloamericani dilapidano migliaia di miliardi di dollari in Iraq, la Cina cresce però vorticosamente: l’establishment liberal realizza che lo stesso Paese dove le aziende americane hanno delocalizzato sarà anche la maggior minaccia all’egemonia statunitense. Barack Hussein Obama lascia il Medio Oriente, dopo aver scientificamente appiccato l’incendio (Primavere Arabe del 2011), per focalizzarsi sull’Oceano Pacifico e su Pechino: è il “pivot to Asia”, che mira a contenere l’avanzata cinese con una serie di accordi politici-militari-economici (in primis, il TTP).
La Birmania, quindi, torna prioritaria. Il Segretario di Stato Hillary Clinton incontra Aung San Suu Kyi nel 2011, durante la sua visita ufficiale nel Paese asiatico1, ribadendo la predilezione di Washington per il Nobel della Pace, Nel 2015 si svolgono le elezioni legislative cui può partecipare anche la formazione della Aung San Suu Kyi, Lega Nazionale per la Democrazia: la vittoria arride, ovviamente, al “nuovo”. Alla Suu Kyi toccherebbe la presidenza, ma il passaporto britannico del defunto marito e dei figli le impediscono di assumere formalmente la carica, obbligandola ad assumere funzione equipollente di “Consigliera dello Myanmar”: con grande soddisfazione, Barack Obama riceve il premio Nobel alla Casa Bianca nel novembre 2016, affermando che è finalmente giunto il momento di revocare le sanzioni economiche alla Birmania2.
Il progetto di “democratizzazione” della Birmania contempla però, qui come in molte altre realtà (Russia, Iraq, Libia, Siria, etc. etc.), anche la frantumazione della Birmania, attraverso la secessione di importanti zone del Paese, dove vivono minoranze etniche e linguistiche. L’installazione ai vertici della Birmania di Aung San Suu Kyi dovrebbe infatti facilitare la secessione del mussulmano Arkan: la quasi concomitante comparsa nel 2016 dell’Arakan Rohingya Salvation Army, formazione militare con forti legami con l’Arabia Saudita3, scatena la violenza nella regione e l’immediata reazione dello Stato centrale. Le tensioni riesplodono e, come ai tempi dell’occupazione giapponese, il Paese si polarizza: la giunta militare, espressione della maggioranza buddista-nazionalista, cerca appoggio presso la potenza asiatica emergente, la minoranza mussulmana, i celebri rohingya, è adoperata dagli angloamericani per i propri scopi.
Nel 2017, la potenza asiatica emergente non è ovviamente il Giappone, bensì la Cina: eppure l’interesse di Pechino per la Birmania è dettato dalle stesse ragioni che spinsero Tokyo ad allargare la propria sfera di influenza fino a Rangoon. Materie prime (la Birmania è un importante produttore di gas naturale e petrolio) e vie di comunicazioni. Come gli inglesi costruirono la “Burma Road” per raggiungere la Cina dall’Oceano Indiano, senza passare dallo Stretto di Malacca, oggi i cinesi progettano di sboccare sull’Oceano Indiano attraverso la Birmania, raggirando così Singapore ed un eventuale blocco angloamericano dello Stretto. La moderna “Burma Road” scorre, ovviamente, sui binari dei treni ad alta velocità/capacità ed è parte integrante della “Nuova Via della Seta”, il grande piano di infrastrutture ferroviarie/marittime/aeroportuali con cui la Cina vuole coprire l’intera Eurasia4.
La minoranza mussulmana dei rohingya è invece utile agli angloamericani come, e forse più, del 1942. Oltre ad essere in ottimi e storici con Londra e Washington, quest’etnia di fede islamica, da sempre ostile ai buddisti-nazionalisti, è concentrata nella regione dell’Arkan (oggi Rakhine) dove le ferrovie e gli oleodotti cinesi dovrebbero sfociare nell’Oceano Indiano5. La secessione della regione mussulmana, oltre a seppellire l’attuale Stato birmano, servirebbe quindi a vanificare la strategia di Pechino per raggirare lo Stretto di Malacca.
Gli angloamericani si sarebbero attesi dal premio Nobel una pubblica presa di posizione a favore dell’insurrezione mussulmana, primo passo verso l’indipendenza: la Aung San Suu Kyi, però, consapevole che tale mossa comporterebbe la sua immediata deposizione da parte della giunta militare che controlla ancora de facto il Paese, ha sinora taciuto, attirandosi pesantissime critiche dagli ambienti anglofoni che ne hanno curato l’ascesa.
La difesa dei rohingya è sinora toccato alla solita Amnesty International, basata a Londra, ed all’americana Human Rights Watch: Burma: Military Massacres Dozens in Rohingya Village6, “Myanmar: contro i rohingya è pulizia etnica7”, etc. etc. Gli USA, attraverso il nuovo Segretario di Stato, Rex Tillerson, hanno avvalorato la tesi della “pulizia etnica” ai danni dei mussulmani, ma si sono sinora astenuti dall’imposizione di nuove sanzioni: per aumentare la pressione mediatica su Rangoon si sono limitati ad inviare in viaggio apostolico Jorge Mario Bergoglio, che in Asia come in Medio Oriente, dimostra così di seguire pedissequamente l’agenda dei poteri che l’hanno portato al soglio petrino.
Di fronte all’aumentare della violenza interna e degli assalti mediatico-diplomatici, la giunta militare ha reagito rafforzando ulteriormente il dialogo con la Cina: il comandante in capo delle forze armate birmane, il generale Min Aung Hlaing, si è recentemente intrattenuto sei giorni a Pechino, incontrando il Presidente Xi Jinping ed il suo omologo cinese8. Un’analoga visita dovrebbe prossimamente essere svolta anche dalla Aung San Suu Kyi9, testimoniando che il Nobel per la Pace, di fronte al rischio di balcanizzazione del suo Paese, si sta allontanando dai vecchi mentori.
La dinamica di fondo, lo spostamento del potere da Washington a Pechino, gioca a favore della giunta militare e dell’integrità della Birmania. Qualche pericoloso colpo di coda da parte dell’impero angloamericano è però inevitabile: l’imposizione di nuove sanzioni o, più probabilmente, la comparsa anche a Rangoon e dintorni dell’ISIS e dei “mujaheddin stranieri”.

1http://www.bbc.com/news/av/world-asia-15992030/clinton-meets-aung-san-suu-kyi-on-myanmar-visit
2https://www.reuters.com/article/us-usa-myanmar/obama-meeting-with-suu-kyi-says-u-s-ready-to-lift-myanmar-sanctions-idUSKCN11K0B4
3http://www.bbc.com/news/world-asia-41160679
4https://www.ft.com/content/ed033dae-6c69-11e7-b9c7-15af748b60d0
5http://www.ramree.com/2014/07/31/china-says-abandoned-kunming-kyaukpyu-railway/
6https://www.hrw.org/news/2017/10/03/burma-military-massacres-dozens-rohingya-village
7https://www.amnesty.it/myanmar-rohingya-pulizia-etnica/
8http://www.chinadaily.com.cn/world/2017-11/24/content_34945712.htm
9https://www.ft.com/content/265168ca-d361-11e7-8c9a-d9c0a5c8d5c9#comments


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