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sabato 18 giugno 2016

ONG non tutte trasparenti, da Sarajevo alla «guerra umanitaria»

La Bosnia, caposaldo difensivo dei Balcani centrali da sempre. Roccaforte con arsenali e caserme per far bene la guerra. E così accadde con la disgregazione della Jugoslavia. Sarajevo era una delle città più militarizzate d’Europa nel 1992, quando iniziò l’assedio che riuscì a trovare armi per 4 anni di massacro. Terminati gli scontri, Sarajevo, per la presenza di migliaia di operatori delle centinaia di Ong accorsi da ogni paese, divenne la città più ‘umanitarizzata’ d’Europa. Fase da rileggere oggi. Da lì nacque la “Guerra umanitaria” decisa da Clinton contro la Serbia di Milosevic in nome del Kosovo
Sarajevo copertinas
Sarajevo fine assedio, 1995, per la presenza di migliaia di operatori delle centinaia di Ong accorsi da ogni paese, era divenuta la città più ‘umanitarizzata’ d’Europa. Questa amara e ironica osservazione era spesso ricorrente nelle conversazioni tra operatori umanitari che non potevano nemmeno ignorare però quanto era accaduto in quegli anni nel mondo e in Bosnia in particolare.
L’euforia seguita alla fine della guerra fredda aveva illuso sull’impossibilità di conflitti in Europa, ma la disillusione era stata cocente e drammatica: fallita la diplomazia e respinta l’ipotesi di un intervento militare la sola opzione possibile era stata quella del contenimento della crisi, a costo di tacere quanto accadeva realmente.

Sebbene le critiche sull’operato delle Nazioni Unite siano state comprensibilmente taglienti, lo sforzo effettuato fu tuttavia enorme: su una popolazione di circa quattro milioni e mezzo di abitanti, due milioni e settecentomila persone ricevettero una forma di aiuto. Probabilmente la maggiore contraddizione sull’intervento umanitario ufficiale risiede proprio in queste cifre.
Ben presto però, quando la presenza di Ong divenne diffusa e numerosa, in Bosnia l’UNHCR da arbitro divenne amministratore, ad esempio concedendo la ‘carta blu’ (una carta d’identità dell’operatore umanitario) solo a chi partecipasse alle riunioni di coordinamento o fosse comunque registrato ufficialmente: in tal modo, oltre a conferire un carattere formale non del tutto necessario all’azione umanitaria in sé, di fatto decideva chi potesse operare e chi no.
Vero che, in rapporto alle dimensioni dello sforzo praticato, un minimo di organizzazione fosse necessario, ma molti per questo lamentarono un sistema conformista, poco flessibile di fronte alle reali esigenze. E poiché molte agenzie od Ong, prive di fonti di finanziamento proprie, erano dipendenti in tutto e per tutto dal sostegno internazionale (cioè dal finanziamento dei progetti da parte di UNHCR), le critiche divennero in breve polemiche roventi.
Altra questione molto grave fu l’interpretazione delle norme internazionali sui profughi che sono tali solo se attraversano un confine nazionale. Se da una parte era già difficile riconoscere come ufficiali i confini che erano fissati arbitrariamente dai diversi signori della guerra, dall’altra la categoria degli IDP. l’Internally Displaced People, ovvero profughi interni o sfollati, aumentò a dismisura, tanto più che ogni forma di esodo dalle zone ritenute in pericolo era esclusa.
Sentimento comune cominciò a diventare allora un misto tra l’orgoglio per quello che era comunque fatto e la nevrosi per non poter impedire i massacri. Fu a questo punto che molti funzionari, lacerati tra impotenza e orgoglio, cominciarono a pensarla come Bernard Kouchner e a richiedere un intervento militare in difesa dei diritti calpestati: principio etico finché si vuole, ma che non poteva più mantenere nella stretta neutralità l’intervento umanitario.

Preso da: http://www.remocontro.it/2016/06/11/ong-non-tutte-trasparenti-da-sarajevo-alla-guerra-umanitaria/

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