Ad inizio agosto il presidente Barack
Obama ha lanciato una nuova campagna di bombardamenti aerei sulla Libia:
30 giorni di durata e le roccaforti dell’ISIS a Sirte come obbiettivo.
Colpire il Califfato, quando l’amministrazione statunitense ne ha
coperto per mesi il radicamento nell’ex-colonia italiana, è sintomo che
qualche novità è sopravvenuta: si tratta della prima visita a Mosca del
generale Khalifa Haftar, capo delle forze armate del governo di Tobruk.
Con il sostegno russo, egiziano e delle tribù fedeli al defunto
Colonnello Gheddafi, sono alte le probabilità che Haftar riesca a
riconquistare l’intero Paese, deponendo l’esecutivo americano-islamista
di Faiez Al-Serraj: Sirte è un nodo strategico per bloccarne l’avanzata.
Concedendo le basi siciliane agli USA, il governo Renzi si incammina a
cuor leggere verso l’ennesimo disastro mediterraneo.
Bombarda ché arrivano i russi!
Mancano solo pochi mesi all’addio di Barack Hussein Obama alla
Casa Bianca, pochi mesi prima che il presidente che ha gettato nel caos
il Medio Oriente e l’Europa (coadiuvato dal suo Segretario di Stato,
Hillary Clinton) termini il mandato, prima di essere velocemente risucchiato dal cesso della storia.
Ci deve essere qualche impellente motivo perché Obama, quasi
dimissionario, torni a distanza di quasi cinque anni sul luogo del suo
primo delitto, la Libia.
Correva, infatti, l’anno 2011 quando Washington diede il suo decisivo sostegno all’asse franco-inglese (talmente temibile, da esaurire in poche settimane l’intero arsenale di bombe aeree e missili a disposizione) per rovesciare il Colonnello Gheddafi.
Ne seguì la brutale uccisione del rais e la rapida, inesorabile, caduta
nel caos di quello che un tempo era stato il più ricco Paese africano.
Si dice che mancò l’interesse ad assistere i libici nel post-Gheddafi;
si dice che alcuni alleati della coalizione se ne lavarono le mani (vedi
la recente accusa di Obama a Cameron e Sarkozy di aver trascurato il
post-conflitto), favorendo così l’esplosione dell’anarchia: menzogne.
Il caos in Libia è stato scientemente coltivato dagli angloamericani sin dal 2011, così da provocare la frattura del Paese in tre regioni sfruttabili secondo criteri coloniali (Cirenaica, Tripolitania e Fezzani) ed impiegarlo come trampolino di lancio per esportare il terrorismo in tutta la regione (Egitto, Tunisia ed Algeria).
Almeno due sono le tappe salienti del processo di destabilizzazione della Libia post-2011:
- il golpe islasmista dell’estate 2014 che obbliga il legittimo governo laico a riparare a Tobruk;
- l’inoculazione dell’ISIS nei primi mesi del 2015, di cui qualcuno ricorderà ancora il video (falso) che immortala l’esecuzione dei copti sulla spiaggia di Sirte.
In entrambi i casi è facilmente
individuabile la responsabilità atlantica: l’accozzaglia di sigle che
occupa Tripoli nel 2014 (Fratellanza Mussulmana, Libyan Islamic Fighting
Group, etc.), presentandosi come “Alba della Libia”, è il solito islam politico sponsorizzato da Washington e Londra, usando la Turchia ed il Qatar
come intermediari. Nessuna azione è intrapresa, infatti, per
reinsediare il governo laico regolarmente eletto che fugge nell’est del
Paese e, al contrario, si assisterà ad un subdolo processo di legittimazione del governo islamista di Tripoli, culminato
con il vertice marocchino del 17 dicembre 2015 a Skhirat, dove i
rappresentanti dell’esecutivo di Tobruk siedono allo stesso tavolo dei
golpisti di Alba della Libia.
Anche nel caso della comparsa dell’ISIS è palese la supervisione angloamericana: i ripetuti attacchi dell’aviazione di Tobruk contro le navi turche
che sbarcano i miliziani del Califfato nelle città costiere di Sirte e
Derna e la crescente tensione tra il governo di Tobruk ed Ankara (che
culminerà nel febbraio del 2015 con il divieto alle imprese turche di
operare in Cirenaica1), dimostra che, come nel caso della Siria, Washington e Londra si servono della Turchia per esportare l’ISIS. Lo sbarco “ufficiale” dell’ISIS in Libia è poi curato dal solito SITE Intelligent Group,
attraverso una campagna mediatica talmente martellante da far sembrare
quasi imminente un intervento militare italiano nei primi mesi del 2015.
C’è quindi da sorridere quando Barack
Obama afferma oggi che la campagna di bombardamenti a Sirte, avviata il
primo d’agosto e destinata a proseguire per tutto il mese, sia mirata a debellare l’ISIS . Ma come, Washington vuole distruggere il Califfato che ha sinora coltivato, equipaggiato e protetto?
Ci deve essere un altro motivo se Barack Obama torna a dispiegare droni e caccia sopra la Libia, per di più in piena campagna elettorale, fornendo così un facile assist a Donald Trump che non perde occasione per rinfacciare ad Hillary Clinton
la propagaizone del terrorismo islamico durante il suo incarico alla
Segreteria di Stato (“In 2009, pre-Hillary, ISIS was not even on the
map. Libya was stable. Egypt was peaceful. Iraq was seeing, really a big
big reduction in violence. (…). After four years of Hillary Clinton,
what do we have? ISIS has spread across the region, and the entire
world.” ha affermato il 21 luglio alla convention dei repubblicani).
Quale può essere questo motivo?
Facciamo un passo indietro. Progressivamente si afferma come “uomo forte” del governo nazionalista-laico di Tobruk il generale Khalifa Haftar, sponsorizzato dall’Egitto, dalla Francia e, per un lungo periodo, dall’Italia. Alcuni analisti e commentatori, non si sa se per superficialità o per malizia, definiscono Haftar come “uomo della CIA”, dato il suo ventennale esilio negli Stati Uniti durato sino alla caduta di Gheddafi: in realtà, come già evidenziammo in un’analisi dell’autunno 2014,
le dinamiche in atto lavoravano incessantemente per allontanare
l’ex-generale di Gheddafi dagli angloamericani. Era scontato che il
governo laico-nazionalista di Tobruk andasse presto in rotta con chi
sosteneva la Fratellanza Mussulmana e le formazioni islamiste di
Tripoli, avvicinandosi, al contrario, alle potenze schierate contro la
deriva islamista-terroristica della regione, ossia la Russia.
Le prime manifestazioni anti-americane si tengono a Tobruk già nel febbraio del 2015; nel successivo aprile il premier di Tobruk, Abdullah al Thani, vola a Mosca in cerca di quelle armi necessarie per sconfiggere l’ISIS (il
Regno Unito, che sostiene gli islamisti della Tripolitania ed in
particolare le milizie di Misurata, è, secondo Al Thani, il più fermo
oppositore alla revoca dell’embargo sulle armi in vigore dal 2011); a
dicembre, mentre gli USA stanno imbastendo la sceneggiata del “governo
d’unità nazionale” coll’unico obiettivo di sancire la definitiva
secessione di Tripoli, Al Thani lancia un appello affinché la Russia intervenga militarmente contro l’ISIS.
I rapporti tra Tobruk e Mosca, insomma,
si infittiscono, sebbene non si abbia ancora un incontro che formalizzi
l’intesa tra il Cremlino ed il generale Haftar, nominato nel frattempo
capo delle Forze armate libiche: è chiara, in questa fase, la diffidenza
russa verso un ufficiale che, sebbene sia stato formato nelle accademie
sovietiche, ha trascorso vent’anni negli USA e le cui possibilità di
emergere come “salvatore della patria” sono tutto fuorché scontate.
La svolta, e ci avviciniamo alla
decisione di Barack Obama di avviare una campagna aerea di 30 giorni
contro l’ISIS, cade a fine giugno: il generale Haftar, dopo una tappa di un giorno al Cairo, vola a Mosca, per un colloquio col segretario del Consiglio di sicurezza russo, Nikolai Patrushev, e il ministro della Difesa, Sergei Shoigu: un
incontro ai massimi vertici, incentrato sulla fornitura di
quell’equipaggiamento indispensabile a garantire la superiorità
dell’esercito nazionale libico.
La visita di Haftar, nell’attuale
contesto da nuova Guerra Fredda, fa di lui ufficialmente “l’uomo di
Mosca” in Libia, da ostacolare a qualsiasi costo. Anche perché il
generale, consapevole della natura tribale del Paese, ha attuato un
intelligente politica inclusiva: aprendo le sua fila agli ufficiali dell’ex-regime e riabilitando Saif Gheddafi il figlio del defunto Colonnello a lungo detenuto in carcere, Haftar ha esteso le sue alleanze ben oltre la Cirenaica.
Si ricordi che Muammur Gheddafi era
proprio nativo di Sirte, la città attualmente in mano all’ISIS e
bombardata dagli americani: il suo peso è modesto in termini economici,
non essendo il terminale di nessun oleodotto, ma alto in termini strategici
perché, come durante la Seconda Guerra Mondiale, consente di
lanciare/fermare le offensive da/verso la Cirenaica. Situata a metà
strada tra la Cirenaica e la Tripolitania, il controllo di Sirte è il
trampolino di lancio per la conquista di una o dell’altra regione: i
bombardamenti americani di questi giorni servono proprio a consentirne
la conquista da parte degli islamisti di Tripoli e Misurata, impedendo che l’esercito nazionale libico marci verso l’ovest del Paese e la capitale.
È infatti l’evanescente premier del
governo d’unità nazionale, Faiez Al-Serraj, che non dispone di nessuna
forza se non di quelle fornitegli dalle milizie islamiste, a “domandare”
l’intervento americano, scatenando la reazione sia del governo di
Tobruk che di Mosca. “Raid Usa in Libia, per Russia e Tobruk sono illegali. L’ Italia valuta l’uso di Sigonella” titola la Stampa il 2 agosto.
Già, l’Italia: sempre più “un’espressione geografica” coma ai tempi di Metternich.
Roma è stata a lungo sostenitrice del
generale Haftar, conscia di aver solo da perdere dal consolidamento
delle formazioni islamiste sponsorizzate da Londra e Washington. Il caso Regeni, che ha portato quasi alla rottura i rapporti italo-egiziani,
è stata la prima mossa con cui gli angloamericani hanno minato la
collaborazione tra l’Italia ed il generale Haftar, alleato di ferro del
presidente egiziano Abd Al-Sisi. Le pressioni esercitate
dall’amministrazione Obama hanno poi indotto il duo Renzi-Gentiloni ad
abbandonare Haftar (proprio quando si stava rafforzando) per abbracciare
il “governo d’unità nazionale” di Faiez Al-Serraj, un semplice maquillage della giunta islamista che controlla Tripoli.
Mettere a disposizione le basi siciliane per i raid statunitensi, significherebbe alienarsi del tutto il governo di Tobruk e legarsi mani e piedi al sempre più incerto governo americano-islamista di Al-Serraj: la probabilità, in un futuro non troppo remoto, di essere espulsi economicamente e politicamente dalla Libia, a beneficio di Russia, Francia ed Egitto, crescerebbero così vertiginosamente.
Si tratta, però, di politica estera e pretendere che un governicchio che si dibatte tra un’acutissima crisi bancaria,
alti rischi di un’ennesima recessione ed un costante calo di
popolarità, se ne preoccupi, è forse troppo. Così, concedendo a cuor
leggero le basi per i bombardamenti americani, l’Italia si incammina a
cuor leggero verso l’ennesimo disastro geopolitico nel Mediterraneo.
Il governo Renzi rivive, giorno dopo giorno, l’ultima fase dell’esecutivo Berlusconi, estate 2011.
1http://www.repubblica.it/esteri/2015/02/23/news/libia_turchia_esclusione_contratti-107996829/
2http://nena-news.it/libia-saif-gheddafi-sotto-lala-di-haftar/
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