6 agosto 2016, Fulvio Scaglione
A che servono, davvero, questi bombardamenti sulla Libia? O forse dovremmo dire: a chi? Per rispondere
bisogna prima tirare qualche linea di confine. Intanto, le bombe Usa
cadono su Sirte, la città della costa da più di un anno occupata dalle
milizie dell’Isis. I terroristi sono asserragliati in alcuni quartieri
ben identificati presso il mare. Mantengono però il controllo della
città, in cui sono rimasti almeno 30 mila civili. Ovviamente,
trattandosi di bombe “nostre”, non si parla di vittime civili o “danni
collaterali”, che comunque ci sono. I bombardamenti dureranno almeno un
mese, fanno sapere gli alti comandi americani, con l’obiettivo di
liberare la città e disperdere le milizie islamiste. Liberare la città? È
possibile, nel senso che i miliziani, quando la pressione dal cielo
supererà una certa soglia, se ne andranno e proveranno a ricompattarsi
altrove. Sbandare le milizie islamiste? Difficile. Perché dovrebbe
succedere in Libia ciò che non è successo, dopo oltre due anni di bombe,
né in Siria né in Iraq?
Altro confine da definire: chi ha voluto queste bombe? Secondo gli
americani, l’intervento è stato richiesto dal Fayez al-Sarraj, premier
del cosiddetto Governo di unità nazionale libico. In realtà Al Sarraj
governa assai poco e richiede quel che gli viene detto di richiedere dai
partner occidentali che hanno fatto nascere il suo Governo. Gli si può
attribuire, al massimo, l’intenzione di sventare i piani del generale
Khalifa Haftar, che cerca un ruolo per sé e per le proprie milizie e da
un’eventuale conquista di Sirte trarrebbe autorevolezza e benefici
politici.
Gli Usa, a prime bombe lanciate, hanno ottenuto il solito via libera
dell’Onu (che ha definito i raid “in linea con le risoluzioni delle
Nazioni Unite”). Ma soprattutto si sono mossi sulla scorta della
Authorization for Use of Military Force (Aumf) che fu approvata subito
dopo gli attentati dell’11 settembre, ovvero quindici anni fa. Concepita
per colpire Al Qeda (e l’Isis, in teoria, sarebbe persino nemico di Al
Qaeda), l’Aumf è una specie di chiave universale che consente alla Casa
Bianca di impiegare le forze armate senza dover chiedere il benestare
del Congresso. Siamo insomma nel solito quadro: gli Usa vanno,
l’intendenza (Onu, Paesi alleati come l’Italia e Paesi satelliti) segue e
approva.
In sintesi, che cosa abbiamo? Un presidente, Obama, che pochi mesi fa
ha definito “il mio più grande errore” la conduzione della campagna in
Libia contro Muhammar Gheddafi nel 2011 e che ora, nel crepuscolo
politico, replica pari pari la strategia di allora. Un comando, quello
americano, che da lungo tempo andava considerando l’ipotesi dei
bombardamenti, tanto che già in gennaio il generale Joseph Dunford, capo
di stato maggiore, ammetteva che “gli Stati Uniti si stanno preparando a
un’azione decisiva in Libia contro l’Isis”. Una comunità internazionale
a cui viene l’eritema al solo sentir parlare di spedizione via terra,
anche se tutti i generali avvertono che di sole bombe non si campa e
nemmeno si vince. E un nemico, le famose milizie dell’Isis annidate a
Sirte, formato da poche migliaia di uomini (la cifra massima finora
fatta è 6 mila, ma in tutta la Libia) che, sia rispetto al problema Isis
in generale, sia rispetto ai problemi della Libia in particolare, sono
di fatto una variabile secondaria.
Di colpo, però, non si può stare senza bombardare Sirte. In Italia,
per preparare l’opinione pubblica al fatto che i caccia e i droni Usa
dovranno usare le nostre basi e che forse ci verrà chiesto anche altro,
il Governo rivela che l’Isis lucra sui flussi dei migranti. Storia
vecchia: diverse settimane, per dire, fa il procuratore nazionale
antimafia Franco Roberti ne aveva parlato all’Est Forum 2016 sulle
migrazioni svoltosi a Roma. Però fa sempre effetto, e alla gente qualche
bomba in più fa sempre piacere.
Viene allora il dubbio che questi raid debbano fare effetto più in
America che in Libia e servano a mettere un po’ di adrenalina nella
campagna elettorale di Hillary Clinton, che stenta più del previsto. Fu
Hillary la grande artefice dell’intervento del 2011, su questo non c’è
dubbio. Quella campagna divenne una sua sfida personale, tanto da
coinvolgerla nello scandalo delle mail fatte girare sui server privati
della Fondazione Clinton invece che su quelli del Dipartimento di Stato.
Tra le tante, anche centinaia di mail in cui la Clinton discuteva del
presente (la guerra) e del futuro (il nuovo Governo da costruire) della
Libia con il consigliere privato Sidney Blumenthal, l’avvocato che aveva
difeso suo marito Bill nello scandalo Levinski e che con la politica
estera americana non aveva nulla a che fare.
Che c’è di meglio, per una candidata con questi scheletri
nell’armadio, di una nuova campagna militare in Libia? Servirà a
dimostrare che quella strada, anche se finita male, era però necessaria,
inevitabile. E che la Clinton è la candidata con il resolve, la
determinazione giusta per affrontare i problemi e prendere le decisioni
sgradevoli ma necessarie. Tanto più che ora si tratta di attaccare
l’Isis, il famoso nemico di tutti. E poco importa che da anni si
traccheggi nel colpirlo laddove è forte, cioè in Siria e in Iraq:
basterà colpirlo dove è debole, cioè in Libia, per sventolare sotto il
naso degli elettori un risultato positivo, anzi onorevole.
Tanto più che il rivale Donald Trump non potrà dire nulla. Nel 2011
si era espresso contro l’avventura anti-Gheddafi, finita nel disastro
che sappiamo. Ma chi se ne ricorda, ora? Qualche mese fa, invece, Trump
aveva detto che non vedeva altra soluzione se non bombardare l’Isis in
Libia. Oggi, mentre Obama fa proprio quel che lui chiedeva, Trump non
può tirarsi indietro. Sono gli svantaggi dello sfidante e il palazzinaro
coi capelli rossi deve pagar pegno. Lo ha capito subito il Cremlino,
che non sopporta la Clinton e quindi cerca di ostacolarla. Il ministro
degli Esteri Lavrov ha subito definito “illegali” i nuovi bombardamenti e
ha chiesto una riunione del Consiglio di Sicurezza.
Ma la mossa giusta, questa volta, è quella di Obama e della Clinton.
Quando calerà la polvere, Sirte sarà “liberata”, i miliziani dell’Isis
si saranno trasferiti altrove e la Libia sarà nel caos come sempre dal
2011, gli Usa avranno già un nuovo Presidente. E nessuno ricorderà
questi giorni.
Preso da: http://www.occhidellaguerra.it/libia-inizia-la-campagna-della-clinton/
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