Lapresse
Novantamila
barili di produzione petrolifera in meno al giorno. Chiunque abbia
colpito il terminale petrolifero di Sidra, nella Cirenaica libica e non
lontano dall'altro hub strategico di Ras Lanuf, sapeva cosa stava
facendo. E cosa voleva ottenere. Non a caso, non appena diffusi i primi
particolari sull'attacco, nel pomeriggio di martedì, i futures a Wall
Street sono schizzati, portando le valutazioni del greggio ai massimi
dal 2015, sfiorando quota 60 dollari al barile. Ma c'è di più e di più
grave dietro quell'attacco così estemporaneo e devastante. In primis,
nella dinamica.
Chiunque abbia
un'infarinatura minima di preparazione militare - basta il servizio di
leva - sa che poche attività belliche sono strategiche come la posa di
mine, atto che sembra alla base dell'attentato in Libia. Un assalto si
può condurre in vari modi, un attentato ancora di più, ma per minare
servono strategia, preparazione, uomini e, soprattutto, tempo. Perché
devi agire in loco, ovvero dove vuoi attaccare e non è certo facile: non
a caso, l'uso di mine è prevalentemente difensivo, ovvero strategia
attiva a difesa di un asset che non vuoi che finisca in mano nemica. In
nessun modo. Quindi, se si prospetta la malaparata, sei pronto a far
saltare tutto. Ma se la tua caserma o la tua raffineria sono facili da
minare, quella del nemico meno: per il semplice fatto che, a meno di
un'operazione di infiltrazione di primissimo livello, i rischi di essere
scoperti sono quantomai elevati.
Insomma, se
davvero è andata come dicono i testimoni e le prime ricostruzioni, si
tratta di opera da professionisti di altissimo livello, non di miliziani
da deserto. E qui subentra la seconda variabile, ovvero il fatto che
quanto accaduto non è successo in un posto a caso, ma in un terminal
petrolifero strategico sito nell'area sotto il controllo del generale
Khalifa Haftar, l'uomo forte di Tobruk, alleato con Egitto e Russia.
Quindi, probabilmente chi ha colpito non voleva solo creare danni
strutturali all'industria petrolifera, ma mandare un segnale chiaro: non
solo possiamo colpire, ma possiamo farlo al cuore. Pressoché
indisturbati.
E questo è
inquietante. Per la terza ragione: perché qualcuno è in grado di operare
in quel modo in un contesto da puzzle tribale e da tutti contro tutti
come quello libico attuale. Chi, però? L'Isis, come molti si affrettano a
sottolineare? E come avrebbero fatto le armate in rotta da Siria e
Iraq, già ridotte a ranghi minimi dalle offensive nemiche, a radicarsi e
diventare operative in questo modo, in questo contesto e in così poco
tempo? L'unica è aver stretto un patto con alcune tribù, in cambio di
contropartita economica: se così fosse, avremmo un quadro generale del
Paese tripartito ancora più inquietante. Una parte con Al-Sarraj e
l'Occidente (leggi Nato), una parte con il generale Haftar (Egitto e
Russia in primis) e una terza parte gestita autonomamente da clan
tribali che hanno sottoscritto un patto con lo Stato islamico. Miglior
descrizione geopolitica di una polveriera non esiste in natura.
La Libia è
fuori controllo? Sì, da tempo, ma tutti hanno fatto finta di non vedere,
per almeno un paio di ragioni. Convenienza tattica, visto che il tempo
andava speso per tessere alleanze strategiche. E, soprattutto, assenza
di combattimenti eccessivamente cruenti e, soprattutto, atti di
terrorismo. Bene, quanto accaduto martedì pomeriggio potrebbe cambiare
definitivamente le carte in tavola e aprire la fase due dell'instabilità
libica post-Gheddafi: se infatti anche il generale Haftar, il duro
della situazione, quello che minacciò di bombardare le nostre vedette se
fossero entrate in acque territoriali libiche e per tenere buono il
quale abbiamo dovuto chiedere i buoni uffici egiziani (vedi il ritorno
del nostro ambasciatore al Cairo, al netto dell'impasse sul caso
Regeni), non è in grado di gestire i territori sotto il suo controllo,
allora si rischia davvero uno scenario siriano. E questo implica anche
la discesa in campo, per ora solo a livello diplomatico o coperto, delle
forze occidentali che si sono schierate nel tempo con le varie fazioni.
Ma implica anche altro: il terrorismo, infatti, porta con sé non solo
la necessità di armarsi e difendersi - warfare -, ma anche la necessità
di difendere le proprie infrastrutture e territori: e se la situazione
libica precipitasse a tal punto da arrivare a un 2011 in versione 2.0,
ovvero con la necessità/volontà di un intervento militare occidentale?
Chi sarebbe in campo e al fianco di chi?
Di fatto, un
altro proxy fra Occidente e Russia, perché ricomporre la frattura fra
Al-Sarraj e Haftar, al netto della photo-opportunity all'Eliseo tentata
da Emmanuel Macron, appare impossibile al momento e soltanto un nemico
comune potrebbe dar vita al miracolo. Ma uno davvero forte, grande e
pericoloso: come un Califfato, ad esempio. E un Califfato talmente
potente da poter colpire al cuore un hub petrolifero strategico a
controllo nazionale, oltretutto con modalità di attacco che appaiono da
esercito in piena regola. Qualcuno ha interesse a "forzare" la crescita
di radicamento e influenza dello Stato islamico in Libia per sbloccare
paradossalmente l'ambivalente impasse fra i due governi di Tripoli e
Tobruk, forzando la pacificazione in nome della lotta all'Isis? Certo,
fino al momento in cui sto scrivendo, a suffragio di questa tesi
mancherebbe l'elemento più importante per un gruppo "mediatico" e social
come l'Isis, ovvero la rivendicazione. Ma, paradossalmente, questo
potrebbe tramutarsi in un'indiretta conferma della serietà di quanto si
starebbe sviluppando sottotraccia: le ultime chiamate di responsabilità
dell'Isis tramite il proprio sito o Site di Rita Katz risultano infatti
così generiche e grossolane da averne eroso la credibilità.
Attenzione,
poi, al proxy statunitense situato in Libia, ovvero alla guerra tutta
intestina al Deep State fra Cia e Fbi. Ovvero ancora, fra Casa Bianca e
fronte anti-Trump, finora combattuta quasi esclusivamente attraverso il
Russiagate. In Libia, più esattamente al consolato di Bengasi, l'11
settembre 2012 (notare la data), si verificò un attentato nel quale
perse la vita l'ambasciatore Usa, Christopher Stevens, oltre a un
funzionario e due marines di guardia. L'atto oltraggiò il mondo intero e
il presidente Barack Obama parlò di «attacco scellerato a cui reagiremo
garantendo maggiore sicurezza agli americani nel mondo», ma soltanto
grazie a WikiLeaks, anni dopo, abbiamo scoperto che da alcune pertinenze
della sede diplomatica Usa in Libia transitarono armi destinate ai
"ribelli moderati" siriani, come scritto da Sidney Bluementhal,
diplomatico e uomo dei Clinton, nel carteggio via mail con l'allora capo
del Dipartimento di Stato, la futura candidata alla Casa Bianca,
Hillary Clinton. Mail processate attraverso un server privato,
fattispecie che avrebbe potuto costare alla ex First Lady non solo la
candidatura ma anche un soggiorno in una galera federale, se l'Fbi non
fosse intervenuta a insabbiare tutto.
Oltre agli
oleodotti, potrebbero saltare in aria anche altarini e scheletri
nell'armadio, se la Libia si infiammasse? Chissà. Strano timing, però,
quello in base al quale Emmanuel Macron avrà uomini addestrati, pronti e
già in zona da mandare a presidiare assets petroliferi strategici, se
la cosa si rendesse necessaria. Tanto, in Niger al posto loro ci andremo
noi. La Total ringrazia in anticipo, chiedere invece ad Eni riguardo la
strategicità dell'ultima scelta di Gentiloni.
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