2 febbraio 2017
Nel mondo accademico americano, e più in
generale quello occidentale, è raro trovare voci dissidenti con quella
che è stata la pratica dell’esportazione della democrazia a stelle e
strisce all’esterno del “mondo libero”. Una di queste voci è quella di
John Mearsheimer, professore dell’Università di Chicago e padre della
teoria delle relazioni internazionali del realismo offensivo, che ha
avuto il coraggio di ammettere, senza alcuna vergogna o remora, che la
politica statunitense del “regime change” (cambio di
regime) si è rivelata un fallimento su tutti i fronti, dalla
destabilizzazione di governi prima solidi, all’impossibilità di
democratizzare i paesi vittima della loro politica, fino all’aver
aggravato la minaccia terroristica dando vita allo Stato Islamico.
L’argomento è stato trattato, in
particolare, in una serie di conferenze che il professore ha tenuto a
MGIMO, l’Istituto Statale di Mosca di Relazioni Internazionali
nell’ottobre del 2016. Dal 2011, ha spiegato, la politica estera
statunitense nel Medio Oriente è stata caratterizzata da “un disastro
dopo l’altro”, fallendo praticamente ogni volta che la pratica del
regime change è stata applicata.
Mearsheimer individua tre aree
strategiche per la sicurezza e l’azione estera degli Stati Uniti sempre
tenendo ben presente che la più importante è ovviamente l’Emisfero
occidentale, ovvero le Americhe, all’interno del quale non devono
nascere altre grandi potenze o non deve esserci alcuna interferenza
esterna, in base a quanto dichiarato unilateralmente con la Dottrina Monroe
(alla quale il giurista Carl Schmitt si ispirò per spiegare il concetto
di Grande Spazio): in ordine d’importanza abbiamo l’Europa occidentale,
l’Asia nord orientale e il Golfo Persico.
Le ragioni sono presto dette: l’Europa
occidentale è il luogo in cui le grandi potenze, almeno a partire
dall’età moderna, si sono sempre concentrate; l’Asia nord orientale è
dove grandi potenze in grado di competere con gli Stati Uniti ci sono
state, ci sono ancora e continueranno ad esserci in futuro (URSS/Russia;
Giappone; Cina); il Golfo Persico per una ragione semplicissima: il
petrolio, di cui gli USA sono secondo produttore e primo consumatore
mondiale, e il cui controllo risulta strategico per influenzare la
sicurezza energetica del mondo intero e, in particolare, delle grandi
potenze emergenti come Cina ed India che si riforniscono principalmente
proprio da quell’area.
Il punto cruciale però qui è un altro:
riconosciute queste aree strategiche, possiamo anche definire anche
quali aree non sono strategiche per la sicurezza degli Stati Uniti. A
conti fatti, secondo Mearsheimer, Siria, Egitto e Israele non sono aree
d’interesse strategico per gli Stati Uniti. Inoltre, l’Europa
occidentale è destinata a scendere al terzo posto quale area d’interesse
strategico visto il declino endemico a cui le potenze europee sono
sottoposte da circa un secolo a questa parte, mentre l’Asia, che a causa
della Cina sarà coinvolta nella sua intera parte orientale, e non solo a
nord, è destinata a salire al primo (la teoria del “pivot to Pacific” lo dimostra) e il Golfo Persico al secondo.
Le aree su cui, a nostro avviso, la
stessa amministrazione Trump si concentrerà di più. Come già accennato,
inoltre, l’area del Golfo Persico sarà d’importanza cruciale per gli
Stati Uniti proprio per il rifornimento energetico della Cina stessa la
quale, ad oggi, attinge il 25% delle proprie risorse petrolifere proprio
da lì. E lo share è destinato ad aumentare. Allo stesso mondo l’India, mentre l’Europa sarà lasciata in disparte poiché non costituisce una minaccia competitiva agli USA in termini di sicurezza.
Le radici della politica del regime change sono individuabili sin dall’intervento americano in Afghanistan
nel 2001. Da questo punto di vista non c’è differenza fra Bush figlio e
Obama: Afghanistan, Iraq, Libia, Siria ed Egitto si sono rivelati
cinque fallimenti su cinque tentativi attivi compiuti. Quella in
Afghanistan si è rivelata la guerra più lunga in cui gli Stati Uniti
siano stati mai coinvolti: le finanze americane dissipate per questa
guerra sono state persino superiori a quelle spese per attuare il Piano
Marshall. Inoltre, i Talebani controllano ancora un settimo del
territorio afghano, e lo Stato Islamico in Afghanistan sta diventando un
attore non statale non trascurabile in questo scenario.
Per quanto riguarda l’Iraq
sembra quasi inutile dirlo: prima che Saddam Hussein venisse estromesso
dal potere non v’era alcuna forma di terrorismo nell’area, mentre il
paese è oggi diviso in tre parti, ovvero l’area araba del Golfo a
maggioranza sciita, il Kurdistan iracheno nel nord del paese e l’area a
maggioranza sunnita governata dallo Stato Islamico, in cui buona parte
degli ufficiali e dei funzionari di Saddam Hussein operano tutt’oggi al
suo fianco.
In Siria gli Stati
Uniti sono profondamente coinvolti nel tentativo di rovesciare Assad sin
dal 2005 e le primavere arabe del 2011 sono state solo il momento in
cui quest’ingerenza si è tradotta in una guerra aperta contro il governo
damasceno attraverso l’addestramento e il finanziamento delle milizie
ribelli alleate a gruppi islamisti locali o stranieri. Il risultato è
stata la morte di moltissimi siriani, la crisi dei rifugiati con flussi
consistenti sia verso l’Europa sia, soprattutto verso i paesi limitrofi
(Giordania e Libano su tutti) e 7 milioni di rifugiati interni, per un
paese che di popolazione conta 23 milioni di persone. A questi si
aggiungono la persecuzione dei cristiani e delle altre minoranze etniche
e religiose, prima tutelate dal regime, ad opera dei gruppi islamisti e
dello Stato Islamico stesso, che dall’Iraq è penetrato in Siria grazie
al vuoto di potere lasciato dal governo nell’area orientale del Paese.
Situazione simile, se non addirittura peggiore, in Libia,
in cui il rovesciamento di Gheddafi ha determinato anarchia e caos in
tutto il paese. Per quanto il piano per la Libia fosse principalmente
opera degli anglo-francesi, interessati a spartirsi le risorse
petrolifere del paese africano con l’indice di sviluppo umano più alto
del continente nero (almeno fino ad allora) a scapito del tradizionale
partner italiano, la ragione per cui gli Stati uniti supportarono
l’intervento fu essenzialmente politica, per poter imporre la democrazia
in un paese governato da un dittatore tanto odiato dall’allora
Segretario di Stato Hillary Clinton almeno quanto Madeleine Albright
aveva odiato, ai tempi della guerra del Kosovo, Slobodan Milosevic.
Ironicamente, laddove gli Stati Uniti vollero imporre il rispetto delle
norme e dei diritti sia internazionali sia umani, finirono per violarli
entrambi, effettuando, come in Serbia, un intervento militare aereo mai
autorizzato.
Vi è infine l’Egitto,
dove dopo la cacciata di Mubarak, dittatore per altro filo-occidentale,
venne democraticamente eletto il “faraone” Mohammed Morsi, vicino alla
Fratellanza Musulmana, partito politico di chiara impostazione islamista
e vicino a diverse milizie jihadiste e gruppi terroristici, a sua volta
estromesso dal potere attraverso il colpo di Stato militare guidato dal
generale Al-Sisi. In pratica la democrazia, in Egitto, non è mai
pervenuta.
Il risultato è stato il fallimento di
cinque obbiettivi su cinque, l’incremento della minaccia terroristica di
matrice islamista, l’acuirsi del conflitto fra sciiti e sunniti nello
scontro fra Arabia Saudita ed Iran per l’influenza della regione, la
crisi dei rifugiati ed un altissimo numero di vittime. Tuttavia il
puzzle non è ancora completo, poiché ci sono ancora tre attori da
considerare: Israele, l’Iran e lo Stato Islamico.
Per quanto riguarda la prima, visto lo
sviluppo delle politiche regionali, la debolezza dei suoi nemici e la
lenta e inesorabile convergenza con le monarchie del Golfo su obbiettivi
di politica estera, la soluzione che prevedeva la creazione di due
Stati, con l’indipendenza di quello palestinese, è ormai da dimenticare:
una “Grande Israele” è ormai una certezza, col
completo controllo della Cisgiordania e, se necessario, della Striscia
di Gaza da parte delle autorità israeliane. Israele si trasformerà in
uno Stato in cui vigerà un regime di apartheid, e la minaccia
terroristica non farà altro che incrementare a causa della ribellione
interna palestinese.
L’Iran, il quale può
essere considerato l’unico “successo” dell’amministrazione Obama visto
il raggiungimento dell’accordo sul nucleare (che comunque il presidente
Trump è intenzionato a smantellare), se oggi non è una minaccia per
l’influenza degli Stati Uniti nel Golfo Persico, non è escluso che lo
sia in futuro: se l’Iran non si sentirà sicuro dopo la scadenza
dell’accordo, la Repubblica Islamica riprenderà lo sviluppo della
propria deterrenza nucleare. E, visti i recenti sviluppi sul fronte
americano e israeliano, questo futuro sembra quello più plausibile.
Infine, qual è il destino dello Stato Islamico? La strategia degli Stati Uniti rispetto al Daesh
è stata, almeno fino all’elezione di Donald Trump, strettamente
interconnessa con il rovesciamento di Assad, quasi che l’ISIS fosse un
ingovernabile strumento per impedire al regime di acquistare forza.
L’obbiettivo degli Stati Uniti è in realtà l’eliminazione di entrambi,
ma vista il sostegno di Russia, Iran e Hezbollah (e di recente anche
dell’Egitto) al presidente siriano, gli Stati Uniti dovranno rassegnarsi
ad eliminare solo l’ISIS a meno che non vogliano giungere ad una guerra
per procura con Mosca.
In ogni caso, anche con la sconfitta
dello Stato Islamico, la minaccia terroristica rimarrà sempre presente,
poiché questo si atomizzerà e si riorganizzerà in cellule o agirà
attraverso lupi solitari, così come hanno fatto e fanno sia al-Qaida e
che lo Stato Islamico stesso.
(di Elia Bescotti)
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