26 gennaio 2017
Barack Obama sarà ricordato come il peggiore presidente
degli Stati Uniti d’America. La storia è un giudice severo, senza pietà
alcuna e che – a differenza di questa società globalizzata in cui la
capacità di pensiero è stata completamente inibita – non guarda in
faccia a nessuno.
Per la storia, che vive d’oggettività
e non di sensazionalismo, che non si lascia turlupinare dai dogmi del
nostro tempo, dalla distopia rappresentata dalla globalizzazione, dal
multiculturalismo e da tutti quei falsi ideali che abbraccia il mondo
“radical chic”, non basta essere il primo presidente afro-americano
degli Stati Uniti per essere meritevole di lode, o più semplicemente per
aggiudicarsi automaticamente un premio Nobel per la pace, ma c’è
bisogno di fatti concreti, di risultati conclamati.
Evidentemente non dovevano pensarla così ad Oslo, dove già nel 2009, dopo pochi mesi di mandato, il comitato per il Nobel
aveva deciso di assegnare il prestigioso premio proprio ad Obama “per i
suoi straordinari sforzi per rafforzare la diplomazia internazionale e
la cooperazione tra i popoli”.
Sono passati otto anni e due mandati
presidenziali, praticamente un decennio di vita politica americana e
mondiale marchiata “Obama”, che può essere riassunta in un’unica parola:
disastro. Un disastro “in toto”, nella politica
interna – mai come in questi otto anni si sono così accentuati i
contrasti economici, sociali e razziali negli USA – ma soprattutto un
disastro fallimentare in politica estera.
La sua amministrazione – di cui la
candidata democratica e sfidante di Trump, Hillary Clinton, è stata
Segretario di Stato nei primi 4 anni – ha fallito ovunque, riuscendo a
realizzare un’unica cosa: la più grande destabilizzazione geopolitica
dal secondo dopoguerra in avanti. Parliamo di un’area enorme,
che parte dall’Ucraina, passa per la in Siria, attraversa tutto il
Medio Oriente – dall’Afghanistan all’Iraq – s’incrocia con i perenni e
mai sanati contrasti con l’Iran e giunge fino in Libia, lasciandosi
scappare, nel frattempo, qualche bomba anche sulla Somalia e sullo
Yemen.
Dall’amministrazione Obama sono stati bombardati sette Paesi,
sono state sganciate ventiseimila bombe solo nel 2016, si sono vendute
armi per un totale di quasi 300 miliardi di dollari (la maggior parte
delle quali a Paesi simpatizzati nonché finanziatori dello Stato
Islamico) e, ciliegina sulla torta, si è seriamente interferito nella
politica interna di uno Stato sovrano, ovvero l’Ucraina, fomentando le
rivolte contro il governo democraticamente eletto di Yanukovich,
affinché fosse rovesciato e sostituito da un governo filo-occidentale
che avvicinasse il Paese all’Europa, con lo scopo finale – ormai tanto
abituale quanto scontato – di trascinarlo prima nell’UE e poi nella
Nato, contribuendo alla creazione di una nuova “cortina di ferro” con il
Cremlino.
In tal senso le sanzioni commerciali
a Mosca, dopo il suo intervento in Crimea, rappresentano solo un
ulteriore atto finalizzato a tenere lontana l’Europa dalla Russia,
ovvero dal suo partner commerciale naturale.
Così il vecchio continente si è visto costretto a stringere un rapporto sempre più vincolato agli Stati Uniti,
sia in termini militari – proprio in virtù della destabilizzazione e
dei nuovi contrasti con Mosca – e sia in termini economici, proprio in
ragione dell’embargo.
Tutto ciò ha evidenziato la necessità di
guardare sempre più ad Ovest con tutto ciò che ne consegue: aumento
dell’importazione di materie prime d’oltreoceano – gas e petrolio in
testa – e la proposta di sottoscrizione di accordi commerciali
bilaterali, come il TTIP riguardante il mercato unico USA-UE.
Ma l’attenzione non può che focalizzarsi
sulle cosiddette “primavere arabe”: il “capolavoro”, la “grande
intuizione”, l’evidenza della “lungimirante visione geopolitica” di
Obama, della Clinton, del Partito Democratico, di tutti
i mostri dell’alta finanza che elargiscono denaro ai suddetti e –
ultimi, ma non meno importati – di tutti i mass media che fanno loro da
“megafono” per disinformare le masse, deviare il loro pensiero e portare
così consenso politico; un sistema di alterazione della realtà che
farebbe arrossire il “ministero delle verità” raccontato da Orwell nel
libro “1984”, la realtà che supera la fantasia: basti pensare a come
hanno raccontato il conflitto siriano quasi tutti i media occidentali.
“Primavere arabe” ampiamente finanziate,
armate e appoggiate militarmente dagli Stati Uniti che alla fine si
sono rivelate per quello che erano, ossia “primavere di jihad”.
La scelleratezza della politica estera di Obama e i bombardamenti in
favore dei cosiddetti “Fratelli Musulmani” – i quali avrebbero dovuto
democratizzare il mondo arabo nell’arco di una estate – ha avuto
un’unica e drammatica conseguenza: guerre civili come quella siriana e
la dissoluzione di quegli ultimi baluardi di stabilità politica
esistenti in Paesi come la Libia: la prova definitiva che la storia
recente dell’Iraq e dell’Afghanistan, a questi signori, non ha insegnato
proprio nulla.
Se c’è un successo del Premio Nobel per
la pace Barack Obama è quello di essere riuscito a spianare a suon di
bombe “un’autostrada” che, partendo dall’Afghanistan e passando per la
Siria, arriva fino in Libia: ciò ha permesso all’Isis
di diffondersi praticamente ovunque, espandendosi a macchia d’olio nel
fragile Iraq, provocando morte e distruzione in Siria e radicalizzadosi
nelle ferite della dilaniata Libia.
Chi ha pagato le conseguenze di tutto ciò? In primis i siriani, i libici e – in seconda analisi – noi.
Mezzo milione di “rifugiati” sono sbarcati sulle nostre coste, migliaia
di terroristi si sono infiltrati tra di essi, decine di attentati Isis
in Europa, come mai era avvenuto in precedenza, specie in Francia e
Germania.
Cosa abbiamo fatto, mentre tutto questo
accadeva davanti ai nostri occhi? A parte allinearci ciecamente alla
scelleratezza e la irresponsabilità americane, abbiamo sopperito al
tratto mancante di quella che ribattezzeremmo “l’autostrada del Califfo”
che – come detto – è vero che parte dall’Iraq ed arriva in Libia, ma
non ha un ponte abbastanza lungo per arrivare fino in Europa: a
costruirlo abbiamo pensato noi, con le navi della nostra Marina,
offrendo vitto e alloggio.
In conclusione, finalmente si è voltato pagina: Donald Trump
ha assunto la presidenza degli Stati Uniti d’America. Tante sono le
aspettative su di lui, sulle politiche che intenderà mettere in atto nei
prossimi anni e che si pongono in forte discontinuità rispetto al
passato. Già nel suo discorso inaugurale ha lasciato intendere che molte
cose cambieranno, specie in politica estera. Ma chi crede che la storia
degli Obama finisca qui, sbaglia.
Nelle scorse elezioni i politici del “sistema” hanno tentato di sconfiggere chi si proponeva di lottare contro l’establishment,
candidando una donna, Hillary Clinton, e facendo leva sul solito
sensazionalismo irrazionale “radical chic”, al grido di “vote for me
because I am a woman” (votate per me perché sono una donna), ma
l’impresa non è riuscita.
È ipotizzabile che la prossima volta
rincareranno la dose, magari candidando un’altra donna, stavolta
afro-americana: cominciate a pensare a Michelle Obama candidata alla
Casa Bianca, con Barack sul palco con lei, come Bill era con Hillary il
20 gennaio.
(di Carmine Savoia)
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