di Marcello D’Addabbo
In
Germania il caso Ulfkotte è ormai esploso in tutta la sua enormità. Nei
talk show risuonano le parole del corrispondente esteri del più
prestigioso quotidiano tedesco, “Frankfurter Allgemeine Zeitung” «per
diciassette anni sono stato pagato dalla CIA, io e altri centinaia
abbiamo lavorato per favorire la Casa Bianca». Questo è l’inquietante
quadro descritto nel libro che Udo Ulfkotte ha da poco pubblicato in
patria dal titolo eloquente: Giornalisti comprati. Il
libro descrive il controllo dei media tedeschi, e occidentali in genere,
attraverso una fitta rete di corruzione e di pressioni esercitate da
parte degli americani mediante apparati di intelligence, ambasciate Usa,
fondazioni, lobby e istituzioni atlantiste (sono citate tra le tante il
Fondo Marshall, l’Atlantic Bridge e l’Istituto Aspen). Il fine
di tale incessante attivismo operato nelle retrovie dei mass media,
secondo le rivelazioni dell’autore, è quello di costruire una
interpretazione degli accadimenti internazionali sempre unilaterale e
compiacente verso Washington.
Si racconta di programmi specifici per i
giornalisti, disposti dalle ambasciate statunitensi in Germania e in
Italia, nei quali è previsto un compenso che arriverebbe alla cifra di
ventimila euro per scrivere articoli filostatunitensi. Ma non si tratta
solo di dazioni in denaro, c’è l’altro mezzo di pressione, quello che
solletica di più il narcisismo da cui i giornalisti sono maggiormente
affetti, ovvero le gratifiche in campo professionale: premi,
collaborazioni, incarichi, convegni nei mitologici e prestigiosi campus
universitari americani, viaggi pagati, riconoscimenti pubblici di ogni
genere, insomma una tentazione irresistibile. Il volto seducente del
potere, cemento a presa rapida per costruire la casa sicura della
narrazione mediatica ufficiale con l’aiuto di un esercito di
professionisti mercenari dell’informazione a completa disposizione.
«Prima di tutto» racconta «è necessario rendere autorevole il
giornalista a libro paga, facendo riportare i suoi articoli, dandogli
copertura internazionale e premiando i suoi libri. Molti premi letterari
non sono altro che premi alla fedeltà propagandistica dell’autore che
li pubblica, non molto differentemente dal premio “eroe del lavoro”
nella ex Germania Est comunista». Ulfkotte ricorda esperienze personali,
come quella, decisamente ridicola, dell’improvviso conferimento della
cittadinanza onoraria dello stato americano dell’Oklahoma, in assenza di
alcun legame apparente tra il suo lavoro e quel territorio. Poi, sullo
sfondo di questa realtà patinata di favori e grandi alberghi, si muovono
i servizi segreti e le pressioni quando serve non mancano: «Spesso
vengono a trovarti in redazione, vogliono che scrivi un pezzo» rivela
nel libro. In occasione della crisi libica del 2011, racconta di quando
fu imbeccato da individui dei servizi tedeschi per annunciare sul suo
giornale, quasi fosse un dato assodato, che Gheddafi
era in possesso di armi chimiche pronte per essere usate contro il
popolo inerme, ovviamente senza avere alcun riscontro da fonti
verificate. Se invece si trasgredisce la linea filoatlantica le
conseguenze sono altrettanto note, ovvero la perdita del lavoro, il
triste isolamento professionale, fino alle minacce dirette e alle
persecuzioni (lui stesso sostiene di aver subito sei perquisizioni nella
sua abitazione con l’accusa di aver rivelato segreti di stato).Ma perché mai un pezzo da novanta del giornalismo tedesco si esporrebbe in questo modo, ad un’età – cinquantacinque anni – che gli avrebbe consentito di proseguire la sua brillante carriera ancora per lungo tempo, facendo esplodere una simile bomba mediatica e mettendo sotto accusa l’intero sistema mediatico occidentale? Egli stesso ha risposto a questa domanda nel corso delle numerose interviste di questi giorni, parlando di una crisi di coscienza irreversibile, del suo non avere figli e del suo stato di salute precario (pare abbia già alle spalle tre infarti). Udo Ulfkotte, dopo una vita di squallidi compromessi con il potere a scapito della verità dell’informazione, vuole tornare a guardarsi di nuovo allo specchio per il tempo che gli resta da vivere. Sembra riemerso in lui quell’alto senso della vergogna tipico della coscienza morale tedesca, quell’amore germanico per la verità che desta di solito grande ammirazione. «Ho voluto scrivere questo libro perché tante persone che ci guardano hanno la sensazione che quello che vedono come una notizia non sia in realtà una notizia, ma pura propaganda e disinformazione. Ma non ne hanno le prove. Per questo motivo ho citato centinaia e centinaia di nomi di giornali tedeschi ed esteri, che producono propaganda e disinformazione, e ho fornito le prove di questo». E alcuni dei personaggi citati, come era ovvio, hanno reagito a cominciare da Günther Nonnenmacher, collega e coeditore della “Frankfurter Allgemeine”, che bolla le accuse di Ulfkotte come «astruse e ridicole» dichiarando che l’ex giornalista ha avuto «gravi problemi di salute in seguito ai quali soffrirebbe di sdoppiamento della personalità»(!). Un matto lucido a sufficienza, però, da analizzare le carriere di trecentoventuno personaggi, i loro percorsi e presenze segnate negli annuari delle organizzazioni che si occupano della manipolazione delle informazioni a vantaggio degli Stati Uniti (ma a quanto pare anche dell’Ue), organizzando incontri e agevolando carriere. Memorabile il racconto degli incontri sul lago di Garda tra questi mercenari della penna tedeschi ed italiani, radunati nella villa che fu la residenza del cancelliere tedesco Adenauer e gli agenti della CIA pronti a trasportarli su un battello diretto a Bellagio dove sono attesi dai membri della Fondazione Rockfeller.
È prevedibile che alla fine si cerchi di archiviare tutto ciò nello scaffale della solita letteratura cospirazionista, consueto alibi usato dal potere per emarginare, screditandoli, coloro che gli si oppongono. Ma Ulfkotte non parla di rettiliani bensì di persone note, cita grandi giornali e televisioni e indica con precisione gli argomenti che secondo la sua lunga esperienza professionale ha imparato ad evitare per non vedersi stroncare la carriera (come ad esempio scrivere pro Putin, Russia, Cina, Iran, Assad ecc…). Inoltre, sappiamo come la dominazione angloamericana sul continente europeo fin dal dopoguerra si è perpetuata attraverso la colonizzazione dell’immaginario collettivo e che in tale opera il dominio dell’informazione ha avuto una parte preponderante. Questo non ce l’ha insegnato certo Ulfkotte. Potremmo ricordare di sfuggita Arrigo Levi e Renato Mieli, (papà di Paolo ex direttore del “Corriere”) tornati in Italia nel 1945 sugli automezzi dei “liberatori” americani a insegnarci la democrazia. Venuto tra noi in uniforme USA, con i gradi di ufficiale, nei primi mesi di occupazione, Renato Mieli era un «capitano Smith» (o qualcosa del genere) a cui i giornalisti italiani dovevano rivolgersi per ottenere l’autorizzazione a lavorare e ad aprire giornali, insomma il responsabile dell’ epurazione morbida del giornalismo per conto degli Alleati.
Allora, parlava esclusivamente inglese. Subito dopo, fondò…l’ANSA.
Ancora qualche mese e molti di quei giornalisti che avevano chiesto l’autorizzazione a scrivere al capitano Smith si stupirono poi di ritrovarlo, sotto il nome di Renato Mieli, come direttore de “L’Unità”. L’organo del PCI diretto da un ufficiale americano?
Evidentemente l’OSS (futura CIA) aveva deciso che occorreva loro un controllore dentro quel partito. Cosa ancora più significativa, durante la guerra Mieli-padre aveva fatto parte dello staff anglo-americano del “Psychological Warfare Branch” (traducibile come “Divisione per la guerra psicologica”) che fu un organismo del governo militare anglo-americano incaricato della gestione dei mezzi di comunicazione (e perciò della propaganda) italiani: stampa, radio e cinema. Fu attivo nel periodo tra il 10 luglio 1943 (sbarco alleato in Sicilia) e il 31 dicembre 1945. Ma per anni in Italia di questi episodi non si è voluto o potuto parlare.
A dimostrare il mutamento delle condizioni storiche è sufficiente il dato che in questi giorni il libro di Udo Ulfkotte in Germania è balzato al settimo posto nella lista dei bestseller nazionali , al tredicesimo in quella del settimanale “Der Spiegel” e al quinto nella lista top 100 di Amazon.
Il libro ha sollevato il coperchio su un gigantesco sistema di corruzione e pressione che pone un’ipoteca definitiva sull’ultimo dogma intoccabile del mondo occidentale, quello del pluralismo dell’informazione e della libertà di opinione. Con esso crolla miseramente anche il mito angloamericano e hollywoodiano dei “cronisti d’assalto” che con l’audacia di Davide contro Golia sfidano i massimi livelli del potere sollevando scandali e disarcionando potenti e capi di stato. Il mito dello scandalo Watergate, sollevato dai cronisti del “Washington Post”, Bob Woodward e Carl Bernstein, rappresentati nel celebre film da Robert Redford e Dustin Hoffman, che portò nell’agosto del 1974 alle dimissioni del feroce presidente repubblicano Nixon. Un mito che è stato esaltato in Italia fino alla nausea dalla sinistra buonista-veltroniana come prova del vigore della sana democrazia americana e del controllo efficace dei media sul potere. Qui risulta invece che è il potere americano a controllare l’informazione ed in modo piuttosto capillare.
In Italia
il silenzio assordante dei media mainstream sul caso Ulfkotte potrebbe
indurre a facili e scontate conclusioni (dato che il giornalista del
“Frankfurter” cita a più riprese la collusione di organi di informazione
di casa nostra come “La Stampa”, “La Repubblica”, Rai ecc..). Resta il
fatto che la nebbia qui da noi è stata squarciata soltanto dalle
lodevoli eccezioni delle recensioni apparse sul blog di Beppe Grillo e
sul Fatto Quotidiano. Tuttavia saremmo degli ingenui ad aspettarci che
Travaglio e la Guzzanti inizino una campagna sulla “trattativa
Cia-giornalisti”. La “tela di ragno” descritta dalla storica penna del
Frankfurter, riguarda soprattutto i vertici del giornalismo ufficiale,
ovvero coloro che, come lui stesso ha fatto nell’arco di ben diciassette
anni, sono nella posizione di poter filtrare i messaggi che devono
arrivare alla massa. Questa tela è diretta ad irretire non
singoli individui ma intere società con l’evidente obbiettivo di
manipolarle per garantire la continuità delle oligarchie finanziarie,
politiche e militari di Stati Uniti e Ue e le loro decisioni criminali.
È una realtà i cui effetti sono visibili quotidianamente ogni volta che
si ha la sfortuna di aprire un grande quotidiano o di ascoltare un
telegiornale mainstream, sia che si occupi di crisi Ucraina o Isis,
Libia o Corea del Nord, non fa differenza. Ci sono sempre i
buoni e i cattivi, armi democratiche usate per il bene dell’umanità e
dall’altra parte spietati dittatori sanguinari da abbattere per evitare
che ci distruggano, anche se, come sempre, non hanno mai manifestato
questo proposito in vita loro…
Come ha detto efficacemente lo scrittore Andrea Camilleri: «È grazie al sistema politico-economico instauratosi nel dopoguerra, con un notevole incremento a partire dagli anni ’70, che le nostre generazioni vengono ‘bombardate’ da ‘armi di convinzione di massa’, che similmente a quelle di distruzione di massa, non hanno portato libertà e democrazia, bensì assoggettamento mercantile ed ampliamento dell’impero della mente anglo-americano nel nostro Paese».
Ma il caso Ulfkotte potrebbe rappresentare il punto di non ritorno di una presa di coscienza collettiva.
Il Re è nudo.
Come ha detto efficacemente lo scrittore Andrea Camilleri: «È grazie al sistema politico-economico instauratosi nel dopoguerra, con un notevole incremento a partire dagli anni ’70, che le nostre generazioni vengono ‘bombardate’ da ‘armi di convinzione di massa’, che similmente a quelle di distruzione di massa, non hanno portato libertà e democrazia, bensì assoggettamento mercantile ed ampliamento dell’impero della mente anglo-americano nel nostro Paese».
Ma il caso Ulfkotte potrebbe rappresentare il punto di non ritorno di una presa di coscienza collettiva.
Il Re è nudo.
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