È stato un fine settimana infernale per la Libia,
dilaniata da una guerra civile in un contesto di anarchia generalizzata
dove a farla da padrone sono le armi: venerdì 14 settembre le milizie fedeli all'ex-primo ministro islamista Khalifa al-Ghwell hanno preso il controllo della zona di Tripoli attorno all'Hotel Rixos ed occupato la sede del Consiglio di Stato, annunciando un “colpo di Stato”
in una conferenza stampa poche ore dopo. Le milizie non hanno dovuto
sparare un colpo perché le forze di sicurezza locali si sono date alla
fuga senza porsi minimamente il problema.
Scontri a fuoco si sono verificati successivamente, per tutto il fine settimana nella zona della base navale di Abu Seta, a Tripoli, proprio tra le milizie di al-Gwell e i lealisti al governo di unità nazionale, che l'ex-primo ministro golpista ha definito “un'autorità esecutiva illegale”. Nella notte tra sabato e domenica una colonna di 50 mezzi militari ha lasciato Misurata, dove sono operativi anche 300 militari italiani, dirigendosi verso Tripoli per sostenere e difendere il governo di al-Serraj e il pomeriggio di domenica 16 ottobre l'inviato delle Nazioni Unite Martin Kobler ha dichiarato apertamente, a nome dell'ONU, il suo disappunto per il degenerare della situazione a Tripoli: “Tali azioni generano ulteriore disordine e insicurezza, devono terminare per il bene del popolo libico”.
Nel frattempo il governo libico si trova in Tunisia, barricato in un albergo cercando di dipanare le innumerevoli e complicatissime matasse libiche, svolgendo riunioni infinite: troppo pericoloso restare a Tripoli. I golpisti hanno ristabilito la vecchia amministrazione, il “governo di salvezza nazionale”, e al-Ghwell in persona ha decretato “il fallimento” del Consiglio di Presidenza attuale e del governo sostenuto dall'ONU. Sei mesi dopo l'avvento del governo di al-Serraj, risultato di una trattativa che sembrava infinita e che certamente era caratterizzata da una fragilità politica notevole, la Libia ripiomba nuovamente nel caos e un “nuovo” attore fa il suo ingresso sulla scena libica: Khalifa al-Gwell.
Dall'altra parte del Paese, nella zona occidentale di Tobruk controllata dagli uomini del generale Khalifa Haftar, il Parlamento non riconosciuto dall'ONU e dal governo al-Serraj si è riunito lunedì 17 ottobre ed ha stabilito una posizione fondamentalmente attendista, per osservare il decorrere degli eventi e decidere poi che fare: “Ora abbiamo due governi a Tripoli […] la situazione lì è sempre fuori controllo: è una città dove convivono 150 milizie diverse” ha dichiarato il parlamentare Salah Suhbi, evidenziando quello che è senza dubbio il problema principale del governo al-Serraj: la mancata creazione di una propria forza di sicurezza fedele al proprio programma politico istituzionale. Senza la presenza delle istituzioni per le strade, come la Polizia o l'Esercito, la capitale libica è stata letteralmente spartita tra i diversi signori delle milizie locali, in una lotta di potere che il golpe degli uomini di al-Gwell ha semplicemente esemplificato.
Nei giorni scorsi l'ambasciatore britannico a Tripoli Peter Millett ha deciso di trasferirsi a Tunisi per ragioni di sicurezza personale: i rapimenti infatti, sia a scopo estorsivo che non, sono all'ordine del giorno.
Alla luce di tutto questo c'è da chiedersi il senso dell'impegno militare sul posto da parte delle diverse anime della coalizione internazionale: solo Gran Bretagna ed Italia hanno inviato in Libia 5.000 unità dall'inizio del 2016 per addestrare gli uomini dell'esercito governativo, gli stessi che se la sono data a gambe di fronte ai golpisti senza colpo sparare. C'è inoltre un altro aspetto, certamente non secondario, che fa emergere più di un dubbio sul senso della presenza italiana a Misurata: secondo Frederic Wehrey, ricercatore associato del Carnegie Endowment for International Peace, le milizie di Misurata – addestrate, armate e curate dagli italiani – sono divise al loro interno in due fazioni in una lotta intestina per la supremazia di una sull'altra: da un lato ci sono i salafiti e dall'altro i Fratelli Musulmani. I primi fanno capo al 604esimo Battaglione di Fanteria, ai comandi del fratello dell'ex-imam di Cordoba, il religioso Khalid bin Rajab al-Firjani ucciso brutalmente dallo Stato Islamico quest'estate dopo che lo aveva criticato pubblicamente e rifiutato agli islamisti di utilizzare la sua moschea per i loro sermoni, e sono sostenuti dai comandanti salafiti di diverse milizie tripolitane, come il Battaglione Bab Tajura o le Special Deterrence Force di Tripoli, fedeli a Abdelraouf Kara.
Il 604esimo Battaglione si è unito a maggio con la coalizione di diversi gruppi armati rabberciata dal governo al-Serraj unendo combattenti di Sirte, Bani Walid, Tripoli, Zintan, Zliten e Sabha. Quasi esclusivamente salafiti, molto attivi contro lo Stato Islamico e le fazioni islamiste, sono considerati “salafiti quietisti”, seguaci cioè della dottrina di obbedienza del religioso Rabia bin Hadi al-Madkhali: niente attivismo elettorale o lotta armata e un astio decennale per la Fratellanza Musulmana, l'altra anima delle milizie di Misurata che combattono gli islamisti di Daesh e al-Qaeda.
I seguaci di Madkhali hanno preso il piede in Libia una decina di anni fa e dopo la caduta di Gheddafi hanno letteralmente distrutto il patrimonio sufi della Libia e perseguitato la fratellanza: le loro politiche di controllo sociale erano caratterizzate dalla polizia anti-vizio e dall'applicazione molto stringente delle regole morali della Sharia. Oggi combattono accanto alle milizie di Haftar nella Libia orientale e accanto alle forze governative tripolitane nella Libia occidentale, facendo ben attenzione a mantenere il piede in due scarpe piuttosto scomode.
L'altra anima delle milizie di Misurata è la Fratellanza Musulmana, con il nome di Misratan: seguaci del mufti tripolitano Sadiq al-Ghariani, sono in molti i salafiti che credono che liberata Sirte da Daesh il loro intento sia dominare le istituzioni locali, religiose, politiche e di pubblica sicurezza. Gli stessi timori che nutrono i Fratelli verso le milizie salafite: un cane che si morde la coda.
Le differenze tra le due anime delle milizie della coalizione tripolitana sono però non solo di matrice politico-religiosa ma anche tribale: le rivalità tribali locali tra Sirtawi e Warfalla, ad esempio, sono oggi più vive che mai.
Con la scelta del governo di al-Serraj di restare in Tunisia per ragioni di sicurezza il rischio è che queste anime in conflitto, fino ad oggi capaci - almeno parzialmente - di combattere insieme un nemico comune, possano allontanarsi, se non persino scontrarsi, e aprire un nuovo scenario di crisi nel mosaico libico già di suo piuttosto complicato. Nel frattempo gli americani hanno aumentato notevolmente il numero di attacchi aerei in Libia: dal 21 settembre sono stati effettuati 324 raid sul Paese, più del doppio di quelli del mese precedente, in controtendenza con quanto aveva affermato la Casa Bianca il 1 agosto, quando Obama spiegò che la campagna di bombardamenti si sarebbe concentrata per breve tempo solo sull'area costiera. A fine settembre la campagna è stata prorogata ed estesa, oltre che intensificata, e un funzionario militare USA ha rivelato a Fox News che l'intervento è destinato a durare diversi mesi. E questo nonostante lo stesso inquilino della Casa Bianca abbia definito, a gennaio, come suo “peggior errore” proprio l'ingerenza americana in Libia per la caduta di Gheddafi, esattamente cinque anni fa.
Oggi la Libia non ha un'autorità centralizzata autorevole, ha un governo golpista nella medesima capitale, un Parlamento ribelle a Tobruk, una criminalità dilagante, è un hub preziosissimo per i trafficanti di esseri umani, la sua economia non esiste praticamente più e il Paese è frammentato in modo quasi irreparabile, dilaniato da conflitti etnici, religiosi e di potere. Una tragedia nazionale politica, umanitaria e identitaria che ha riflessi sull'Europa, sull'Africa e su tutto il Medio Oriente aggravata dal carattere litigioso dei libici e da antichi rancori, oltre che dagli interessi di Paesi esteri: dall'Egitto di al-Sisi alle diverse anime della coalizione internazionale, con la Francia che sembra appoggiare Haftar mentre tutti gli altri sostengono al-Serraj. Un caos che è sempre più ingovernabile.
Scontri a fuoco si sono verificati successivamente, per tutto il fine settimana nella zona della base navale di Abu Seta, a Tripoli, proprio tra le milizie di al-Gwell e i lealisti al governo di unità nazionale, che l'ex-primo ministro golpista ha definito “un'autorità esecutiva illegale”. Nella notte tra sabato e domenica una colonna di 50 mezzi militari ha lasciato Misurata, dove sono operativi anche 300 militari italiani, dirigendosi verso Tripoli per sostenere e difendere il governo di al-Serraj e il pomeriggio di domenica 16 ottobre l'inviato delle Nazioni Unite Martin Kobler ha dichiarato apertamente, a nome dell'ONU, il suo disappunto per il degenerare della situazione a Tripoli: “Tali azioni generano ulteriore disordine e insicurezza, devono terminare per il bene del popolo libico”.
Nel frattempo il governo libico si trova in Tunisia, barricato in un albergo cercando di dipanare le innumerevoli e complicatissime matasse libiche, svolgendo riunioni infinite: troppo pericoloso restare a Tripoli. I golpisti hanno ristabilito la vecchia amministrazione, il “governo di salvezza nazionale”, e al-Ghwell in persona ha decretato “il fallimento” del Consiglio di Presidenza attuale e del governo sostenuto dall'ONU. Sei mesi dopo l'avvento del governo di al-Serraj, risultato di una trattativa che sembrava infinita e che certamente era caratterizzata da una fragilità politica notevole, la Libia ripiomba nuovamente nel caos e un “nuovo” attore fa il suo ingresso sulla scena libica: Khalifa al-Gwell.
Dall'altra parte del Paese, nella zona occidentale di Tobruk controllata dagli uomini del generale Khalifa Haftar, il Parlamento non riconosciuto dall'ONU e dal governo al-Serraj si è riunito lunedì 17 ottobre ed ha stabilito una posizione fondamentalmente attendista, per osservare il decorrere degli eventi e decidere poi che fare: “Ora abbiamo due governi a Tripoli […] la situazione lì è sempre fuori controllo: è una città dove convivono 150 milizie diverse” ha dichiarato il parlamentare Salah Suhbi, evidenziando quello che è senza dubbio il problema principale del governo al-Serraj: la mancata creazione di una propria forza di sicurezza fedele al proprio programma politico istituzionale. Senza la presenza delle istituzioni per le strade, come la Polizia o l'Esercito, la capitale libica è stata letteralmente spartita tra i diversi signori delle milizie locali, in una lotta di potere che il golpe degli uomini di al-Gwell ha semplicemente esemplificato.
Nei giorni scorsi l'ambasciatore britannico a Tripoli Peter Millett ha deciso di trasferirsi a Tunisi per ragioni di sicurezza personale: i rapimenti infatti, sia a scopo estorsivo che non, sono all'ordine del giorno.
Alla luce di tutto questo c'è da chiedersi il senso dell'impegno militare sul posto da parte delle diverse anime della coalizione internazionale: solo Gran Bretagna ed Italia hanno inviato in Libia 5.000 unità dall'inizio del 2016 per addestrare gli uomini dell'esercito governativo, gli stessi che se la sono data a gambe di fronte ai golpisti senza colpo sparare. C'è inoltre un altro aspetto, certamente non secondario, che fa emergere più di un dubbio sul senso della presenza italiana a Misurata: secondo Frederic Wehrey, ricercatore associato del Carnegie Endowment for International Peace, le milizie di Misurata – addestrate, armate e curate dagli italiani – sono divise al loro interno in due fazioni in una lotta intestina per la supremazia di una sull'altra: da un lato ci sono i salafiti e dall'altro i Fratelli Musulmani. I primi fanno capo al 604esimo Battaglione di Fanteria, ai comandi del fratello dell'ex-imam di Cordoba, il religioso Khalid bin Rajab al-Firjani ucciso brutalmente dallo Stato Islamico quest'estate dopo che lo aveva criticato pubblicamente e rifiutato agli islamisti di utilizzare la sua moschea per i loro sermoni, e sono sostenuti dai comandanti salafiti di diverse milizie tripolitane, come il Battaglione Bab Tajura o le Special Deterrence Force di Tripoli, fedeli a Abdelraouf Kara.
Il 604esimo Battaglione si è unito a maggio con la coalizione di diversi gruppi armati rabberciata dal governo al-Serraj unendo combattenti di Sirte, Bani Walid, Tripoli, Zintan, Zliten e Sabha. Quasi esclusivamente salafiti, molto attivi contro lo Stato Islamico e le fazioni islamiste, sono considerati “salafiti quietisti”, seguaci cioè della dottrina di obbedienza del religioso Rabia bin Hadi al-Madkhali: niente attivismo elettorale o lotta armata e un astio decennale per la Fratellanza Musulmana, l'altra anima delle milizie di Misurata che combattono gli islamisti di Daesh e al-Qaeda.
I seguaci di Madkhali hanno preso il piede in Libia una decina di anni fa e dopo la caduta di Gheddafi hanno letteralmente distrutto il patrimonio sufi della Libia e perseguitato la fratellanza: le loro politiche di controllo sociale erano caratterizzate dalla polizia anti-vizio e dall'applicazione molto stringente delle regole morali della Sharia. Oggi combattono accanto alle milizie di Haftar nella Libia orientale e accanto alle forze governative tripolitane nella Libia occidentale, facendo ben attenzione a mantenere il piede in due scarpe piuttosto scomode.
L'altra anima delle milizie di Misurata è la Fratellanza Musulmana, con il nome di Misratan: seguaci del mufti tripolitano Sadiq al-Ghariani, sono in molti i salafiti che credono che liberata Sirte da Daesh il loro intento sia dominare le istituzioni locali, religiose, politiche e di pubblica sicurezza. Gli stessi timori che nutrono i Fratelli verso le milizie salafite: un cane che si morde la coda.
Le differenze tra le due anime delle milizie della coalizione tripolitana sono però non solo di matrice politico-religiosa ma anche tribale: le rivalità tribali locali tra Sirtawi e Warfalla, ad esempio, sono oggi più vive che mai.
Con la scelta del governo di al-Serraj di restare in Tunisia per ragioni di sicurezza il rischio è che queste anime in conflitto, fino ad oggi capaci - almeno parzialmente - di combattere insieme un nemico comune, possano allontanarsi, se non persino scontrarsi, e aprire un nuovo scenario di crisi nel mosaico libico già di suo piuttosto complicato. Nel frattempo gli americani hanno aumentato notevolmente il numero di attacchi aerei in Libia: dal 21 settembre sono stati effettuati 324 raid sul Paese, più del doppio di quelli del mese precedente, in controtendenza con quanto aveva affermato la Casa Bianca il 1 agosto, quando Obama spiegò che la campagna di bombardamenti si sarebbe concentrata per breve tempo solo sull'area costiera. A fine settembre la campagna è stata prorogata ed estesa, oltre che intensificata, e un funzionario militare USA ha rivelato a Fox News che l'intervento è destinato a durare diversi mesi. E questo nonostante lo stesso inquilino della Casa Bianca abbia definito, a gennaio, come suo “peggior errore” proprio l'ingerenza americana in Libia per la caduta di Gheddafi, esattamente cinque anni fa.
Oggi la Libia non ha un'autorità centralizzata autorevole, ha un governo golpista nella medesima capitale, un Parlamento ribelle a Tobruk, una criminalità dilagante, è un hub preziosissimo per i trafficanti di esseri umani, la sua economia non esiste praticamente più e il Paese è frammentato in modo quasi irreparabile, dilaniato da conflitti etnici, religiosi e di potere. Una tragedia nazionale politica, umanitaria e identitaria che ha riflessi sull'Europa, sull'Africa e su tutto il Medio Oriente aggravata dal carattere litigioso dei libici e da antichi rancori, oltre che dagli interessi di Paesi esteri: dall'Egitto di al-Sisi alle diverse anime della coalizione internazionale, con la Francia che sembra appoggiare Haftar mentre tutti gli altri sostengono al-Serraj. Un caos che è sempre più ingovernabile.
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