A cinque anni dalla caduta di
Muammar Gheddafi, i conflitti militari e politici in Libia hanno
portato il Paese al collasso. La crisi politica e di sicurezza da
una parte, e quella economico-sociale dall'altra, hanno fatto
della Libia uno Stato fallito, luogo di insorgenza di radicalismi
di vario tipo, incapace di sfruttare in pieno le sue enormi
risorse petrolifere. Con il pericolo, segnalano gli esperti, di
una prossima, imminente e grave "crisi fiscale".
Dopo la distruzione della Jamahiriya da parte dei NATO/RATTI, con la falsa promessa di " democrazia, libertà ecc" , ggi, però, le aspettative sono ben più modeste: "Vivere in
sicurezza, disporre di elettricità, di carburante, di un salario.
E poter mandare i figli a scuola. Non chiediamo di più", ha
spiegato Mahmoud, 35enne residente a Tripoli. 5 anni di guerra hanno lasciato infrastrutture vetuste,
un'economia totalmente dipendente dal petrolio, una manodopera
poco qualificata. Ma soprattutto, un Paese diviso, sempre più in
preda a clan e milizie, con un controllo statale pressoché
inesistente in moltissime delle sue regioni.
Un quadro che stride con quello che l'ambasciatore designato
d'Italia in Libia, Giuseppe Perrone, ha definito "un interesse
superiore": "un Paese unito, democratico, globalizzato,
inclusivo", "una Libia in cui tutti abbiano una voce", capace di
intraprendere un processo politico "che non si improvvisa, che
richiede tempo e rodaggio", ma che sia in grado di assicurare
"stabilità, sicurezza e governance".
Da un punto di vista della sicurezza, numerose sono "le sfide e
le difficoltà" da superare: "la più difficile", secondo il
diplomatico italiano, è "la creazione di una forza armata
unitaria" alle dirette dipendenze e sotto il controllo delle
legittime autorità di governo. Il riferimento, senza citarlo
direttamente, è anche e soprattutto al generale Khalifa Haftar.
Se non si possono cancellare interessi e ruolo dell'uomo forte
della Cirenaica, è il ragionamento degli esperti, di certo una
trasposizione del modello Al Sisi in Egitto - ovvero della
dittatura militare - sarebbe "un disastro" per il Paese
nordafricano e porterebbe a una guerra civile lunga 15-20 anni,
con la nascita di movimenti di ribellione simili a quelli dei
talebani in Afghanistan.
Invece, "le armi devono essere
limitate alle forze armate libiche", ha sottolineato da parte sua
l'attivista Amal Alhaai, insistendo sul fatto che la sfida deve
essere "la costruzione della pace" e che questa non sarà
possibile "senza il dialogo fra tutte le parti". D'altra parte, è
l'opinione dell'ambasciatore di Libia in Italia Ahmed Elmabrouk
Safar, "stabilità e pacificazione della Libia sono direttamente
collegate a sicurezza e pace del Mediterraneo". Un Mediterraneo
che - gli ha fatto eco Perrone - "non divide, ma unisce l'Italia
e la Libia". Ed è per questo che il governo italiano si è
impegnato sin dall'inizio "perché il processo politico libico
fosse sostenuto in modo coerente dalla Comunità internazionale,
così da evitare interessi disgregatori".
Eppure la maggior parte delle imprese straniere hanno abbandonato
la Libia e il Paese sta pagando ad alto prezzo i conflitti degli
ultimi anni. "L'economia libica è al collasso", ha denunciato di
recente la Banca mondiale. La produzione di petrolio, che forniva
alla Libia il 95% dei suoi ricavi,
di fatto è stata interrotta negli ultimi tre anni. Scesa
praticamente a zero nel 2011, aveva quasi ripreso il suo livello
pre-guerra per qualche mese, ma è precipitata nuovamente a
partire dal 2013 a causa delle violenze nelle aree dei terminal
petroliferi nel Nord-Est del Paese.
Oggi, i campi petroliferi producono appena un quinto della
propria capacità, ovvero solo 335.000 barili al giorno (media del
primo semestre). Questo crollo della produzione, assieme al
drastico calo dei prezzi del greggio dal 2014, ha generato "una
situazione economia impantanata nella recessione dal 2013",
secondo la Banca Mondiale, che ha previsto "livelli storici" di
deficit pubblico. Le perdite cumulative dei proventi petroliferi
sono stimate in oltre 100 miliardi di dollari (91 miliardi di
euro) dall'inizio del 2013, secondo il direttore della compagnia
petrolifera nazionale (NOC), Moustafa Sanalla. I ricavi del
settore sono scesi al livello più basso, ad appena 2,25 miliardi
di dollari (2,05 miliardi di euro) nei primi sette mesi
dell'anno, secondo la Banca Mondiale. Prima della rivoluzione
2011, la vendita di greggio fruttava 50 miliardi di dollari
all'anno alla Libia, che produceva 1,6 milioni di barili al
giorno.
La situazione è leggermente cambiata nel settembre scorso, quando
le truppe di Haftar hanno preso il controllo della Mezzaluna
petrolifera. L'esportazione è ripresa, seppure a rilento, e la
Compagnia petrolifera nazionale ha parlato di evoluzione
"positiva". Ma la produzione non dovrebbe tornare alla sua
capacità massima prima del 2020, secondo le stime della Banca
mondiale. "Ci vorrà del tempo perché la crisi possa essere
risolta e le entrate generate da queste esportazioni riescano a
coprire le enormi spese pubbliche", ha commentato Karima Munir,
una esperta libica indipendente, invitata questa settimana ad una
conferenza sulla crisi in Libia tenuta alla Camera.
Per colmare il deficit, le autorità attingono sempre più a
riserve in valuta estera che sono in forte calo, essendo passate
dai 107,6 miliardi di dollari del 2013 ai 43 miliardi di dollari
del 2016, secondo la Banca Mondiale. D'altra parte, restrizioni
sui cambi e speculazione hanno fatto entrare l'economia in un
circolo vizioso, i libici non si fidano delle banche e quasi
tutte le transazioni commerciali sono fatte sul mercato nero. Un
quadro completato dalla tendenza dei commercianti a limitare le
importazioni per il timore di perdite in un mercato dei cambi
molto volatile. "La situazione potrebbe peggiorare se non sarà
trovata una soluzione al problema della liquidità", ha avvertito
a condizione di anonimato uno dei pochi imprenditori ancora
rimasti a Tripoli.
Nessun commento:
Posta un commento