di Roberto Festa | 31 luglio 2018
La questione libica ha occupato una parte importante del colloquio tra Donald Trump e Giuseppe Conte a Washington. Il primo ministro italiano ha spiegato come la Casa Bianca
appoggi l’organizzazione di una conferenza internazionale sulla Libia, a
Roma, il prossimo autunno. Trump si è detto “d’accordo sul fatto che
l’Italia diventi un punto di riferimento in Europa e il principale interlocutore… per quanto riguarda soprattutto la Libia”,
ha spiegato Conte, che da questo punto di vista ha ottenuto dal
presidente americano quello che desiderava: diventare per gli Stati Uniti il referente europeo privilegiato nei rapporti con Tripoli.
La Libia, per l’Italia e gli Usa, è sia una questione interna al Paese – stabilizzazione politica, processi costituzionali per arrivare alle prossime elezioni, diritti umani – che una materia di scambio internazionale. Da un lato, da parte statunitense, c’è ormai da anni la tendenza al disimpegno. Barack Obama fu assai contestato dai repubblicani quando, nel 2011, lasciò alla Francia e alle forze Nato la responsabilità di guidare l’intervento internazionale che portò all’uccisione di Gheddafi. Quel disimpegno è però diventato parte integrante anche della politica di Donald Trump. In primo luogo, sin dalla campagna elettorale, il presidente Usa ha enfatizzato i toni isolazionistici e la richiesta di un maggior coinvolgimento militare ed economico degli alleati. In secondo luogo, a parte il caso iraniano, è tutta la politica mediorientale dell’amministrazione Trump che appare sfocata e lasciata a se stessa. Il conflitto israelo-palestinese, dopo le polemiche su Gerusalemme capitale, è in fase di stallo. Non si capisce che ruolo gli Stati Uniti vogliano giocare su Iraq e Siria, mentre nulla Washington sta facendo per raddrizzare il disastro umanitario in Yemen.
Ecco quindi che Washington si tiene volentieri fuori anche dalla
gestione diretta della crisi libica; e può anzi usare la Libia come
strumento di pressione sugli alleati (o antichi alleati) europei.
L’amministrazione Trump ha seguito con molta attenzione lo scontro italo-francese
delle ultime settimane: non è un mistero che alla Casa Bianca vedano di
buon occhio le politiche più restrittive del nuovo governo italiano
sulla questione dei migranti. Le aperture di Conte su una possibile riammissione della Russia al G8 hanno ulteriormente riavvicinato i due Paesi. Nella capitale americana sanno ora di poter contare su un governo italiano molto vicino
e simpatetico, sia da un punto di vista ideologico sia da quello più
strettamente politico. A conferma di ciò e in preparazione del viaggio
europeo di Trump a metà luglio, il consigliere alla sicurezza nazionale John Bolton si è fermato a Roma – dove ha incontrato proprio Conte, oltre a Matteo Salvini e al ministro della Difesa Elisabetta Trenta – mentre non ha fatto tappa a Parigi.
I rapporti degli Stati Uniti con la Francia si sono in effetti fatti molto difficili. Inizialmente, Emmanuel Macron ha scelto nei confronti di Trump la strategia della lusinga. Soltanto lo scorso aprile, Macron si rivolgeva al presidente Usa dicendo: “Mister President, tutti parlano delle straordinarie relazioni tra di noi, e hanno ragione. Non si tratta di una fake news”. Macron è stato l’unico leader per cui Trump abbia organizzato una cena di Stato e ad ogni incontro, tra i due, ci sono state strette di mano, abbracci, sorrisi. Le cose sono però cambiate nelle ultime settimane. Le “straordinarie relazioni” sono però diventate “terribili” dopo una telefonata – raccontata per prima da Cnn – in cui i due leader si sono scontrati sulla questione delle tariffe su alluminio e acciaio. Il vertice del G7 in Canada, lo scorso giugno, ha poi ulteriormente raffreddato le relazioni, con Macron che a un certo punto ha twittato, in inglese e francese, che i sei Paesi partecipanti erano pronti a firmare un accordo che escludesse gli Stati Uniti. Un ulteriore commento di Macron alla stampa, in cui il presidente francese parlava della necessità di “non sacrificare mai i nostri valori”, mostrava di riconoscere in Trump una minaccia non solo agli interessi commerciali, ma anche ai comuni valori occidentali.
La Libia, per l’Italia e gli Usa, è sia una questione interna al Paese – stabilizzazione politica, processi costituzionali per arrivare alle prossime elezioni, diritti umani – che una materia di scambio internazionale. Da un lato, da parte statunitense, c’è ormai da anni la tendenza al disimpegno. Barack Obama fu assai contestato dai repubblicani quando, nel 2011, lasciò alla Francia e alle forze Nato la responsabilità di guidare l’intervento internazionale che portò all’uccisione di Gheddafi. Quel disimpegno è però diventato parte integrante anche della politica di Donald Trump. In primo luogo, sin dalla campagna elettorale, il presidente Usa ha enfatizzato i toni isolazionistici e la richiesta di un maggior coinvolgimento militare ed economico degli alleati. In secondo luogo, a parte il caso iraniano, è tutta la politica mediorientale dell’amministrazione Trump che appare sfocata e lasciata a se stessa. Il conflitto israelo-palestinese, dopo le polemiche su Gerusalemme capitale, è in fase di stallo. Non si capisce che ruolo gli Stati Uniti vogliano giocare su Iraq e Siria, mentre nulla Washington sta facendo per raddrizzare il disastro umanitario in Yemen.
I rapporti degli Stati Uniti con la Francia si sono in effetti fatti molto difficili. Inizialmente, Emmanuel Macron ha scelto nei confronti di Trump la strategia della lusinga. Soltanto lo scorso aprile, Macron si rivolgeva al presidente Usa dicendo: “Mister President, tutti parlano delle straordinarie relazioni tra di noi, e hanno ragione. Non si tratta di una fake news”. Macron è stato l’unico leader per cui Trump abbia organizzato una cena di Stato e ad ogni incontro, tra i due, ci sono state strette di mano, abbracci, sorrisi. Le cose sono però cambiate nelle ultime settimane. Le “straordinarie relazioni” sono però diventate “terribili” dopo una telefonata – raccontata per prima da Cnn – in cui i due leader si sono scontrati sulla questione delle tariffe su alluminio e acciaio. Il vertice del G7 in Canada, lo scorso giugno, ha poi ulteriormente raffreddato le relazioni, con Macron che a un certo punto ha twittato, in inglese e francese, che i sei Paesi partecipanti erano pronti a firmare un accordo che escludesse gli Stati Uniti. Un ulteriore commento di Macron alla stampa, in cui il presidente francese parlava della necessità di “non sacrificare mai i nostri valori”, mostrava di riconoscere in Trump una minaccia non solo agli interessi commerciali, ma anche ai comuni valori occidentali.
Ecco dunque che, mentre la Francia scendeva, l’Italia saliva nella
considerazione di Washington. Con Parigi comunque decisa a tutelare
l’asse con la Germania, con la Gran Bretagna nel pieno della tempesta di Brexit,
l’Italia è progressivamente diventata il soggetto cui gli Stati Uniti
guardano per dare voce ai propri interessi all’interno dell’Unione Europea. Di qui dunque la centralità assunta dalla questione libica. Negli ultimi anni la Francia ha mostrato di voler occupare il vuoto lasciato nell’area dagli Stati Uniti. La conferenza internazionale, convocata da Macron a Parigi
lo scorso maggio e cui hanno preso parte le diverse fazioni libiche, è
stato solo l’ultimo esempio di questa volontà di essere sempre più
presenti nel Mediterraneo centrale e in Nord Africa. Alle ambizioni francesi si oppongono gli interessi italiani nel Paese, dalla questione del controllo dei processi migratori a quello del petrolio
(nel 2017, oltre il 20 per cento della produzione del’Eni è arrivata
dalla National Oil Corporation libica). Su questa contrapposizione
italo-francese sulla Libia il presidente americano è intervenuto durante
l’incontro di Washongton dando, almeno per il momento, il via libera a
Giuseppe Conte.
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