13 agosto 2018.
Di Vanessa Tomassini.
Domenica sera l’ufficio informazioni del Ministero di Stato per gli
Sfollati e i Rifugiati Interni (IDPs), in un colloquio con Speciale
Libia, ha rivelato che 70 famiglie dovrebbero far ritorno a Tawergha
venerdì, sebbene la città continua ad essere sprovvista dei servizi di
base. Nel nostro precedente articolo
ci siamo domandati come mai gli IDPs di Tawergha preferissero rimanere
tra le lamiere di un campo profughi, apparentemente fatiscente,
piuttosto che tornare a casa. Facciamo il punto sulla situazione con il
direttore del corpo affiliato al Consiglio Presidenziale, Libyan
Humanitarian Relief Agency (LIBAID) di Tripoli, Khalid al-Marghani, responsabile degli aiuti agli sfollati interni nella regione occidentale e nel sud della Libia.
– Innazitutto grazie per aver accettato quest’invito. Nei giorni
scorsi abbiamo visto uno sgombero forzato del campo Airport Road degli
sfollati Tawergha e l’arresto di un’ottantina di persone da parte delle
forze di sicurezza di Abu Selim. Siamo di fronte ad un tentativo di
spingere gli IDPs a tornare nella loro città?
“Grazie, è un piacere per me. Siamo sicuri che lo sgombero non
fosse in alcun modo un tentativo di fare pressione sulle persone per
tornare a Tawergha, ma piuttosto per l’accumulo di diverse questioni che
si svolgono all’interno del campo, non ultima una lite tra una persona
del centro con un membro della milizia che è rimasto ucciso. Non è la
prima volta che un campo profughi viene evacuato, era successo anche in
quello di Taha a Tarhouna nel 2013 a causa degli stessi problemi”.
-Perchè i Tawerghani vogliono restare nel campo, piuttosto che tornare a casa?
“Il primo motivo per rimanere nel campo è quello di continuare ad
usufruire dell’enorme quantità di assistenza fornita all’interno.
Controlliamo di volta in volta le famiglie registrate e le abitazioni a
loro assegnate all’interno del centro per accertarci che ci vivano e non
risiedano in case fuori dal campo. Inoltre spesso gli IDPs hanno
interessi nelle loro attuali aree di residenza, mentre alcuni di loro
hanno paura di tornare perché non conoscono l’attuale situazione di
sicurezza all’interno della loro città”.
-Come procedono i lavori per il ripristino dei servizi a Tawergha?
“I lavori in città proseguono a fatica e molto lentamente a causa
della mancanza di possibilità, sia per il fatto di non poter spendere i
soldi da parte del Consiglio di Tawergha. Questo è il principale
ostacolo alla preparazione della città, seppur lentamente, il lavoro
continua. Si stanno consegnando i pali della luce e ci sono gruppi di
volontari che lavorano per pulire alcuni edifici per adeguarli al
lavoro, c’è una squadra che sta lavorando a terra per rimuovere le mine e
residui bellici inesplosi (ERW) , mentre una squadra sta facendo
formazione alle persone sul pericolo delle mine”.
-Quante sono ancora le famiglie sfollate in Libia?
“In totale ci sono circa 7000 famiglie sfollate e la maggior parte
di esse si trovano nella zona occidentale. Le famiglie di Tawergha che
faranno ritorno a casa venerdì prossimo, lo faranno sotto la
supervisione e la garanzia del Consiglio locale in coordinamento con la
gente e i finanziatori dell’area di Tamina, a Misurata”.
-Oltre agli sfollati di Tawergha, quali sono gli altri IDPs con cui sta lavorando e quali sono le situazioni più complesse?
“Tra gli sfollati con cui lavoriamo ci sono i profughi Tuareg e le
famiglie di Sirte, che non sono stati in grado di tornare a casa per
via della demolizione delle loro abitazioni, nonchè le persone sfollate
di Bengasi. Lavoriamo anche con altre aree dislocate come Mashashia,
Qaulish e Kakla, nella Montagna Occidentale. Le situazioni più difficili
che dobbiamo affrontare al lavoro sono la mancanza di sostegno interno
ed internazionale, il mancato rafforzamento delle capacità di
ricostruzione da parte delle organizzazioni internazionali, l’attenzione
sull’assistenza temporanea che non si protrae nel tempo e il mancato
focus sull’importanza dell’autosufficienza”.
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