DI FEDERICO DEZZANI
federicodezzani.altervista.org
A distanza di quattro mesi dalla morte di Giulio Regeni, la procura di Roma ha finalmente imboccato il filone inglese delle indagini, concentrandosi sull’attività svolta dal dottorando italiano per conto dell’Università di Cambridge: la rogatoria internazionale si è però infranta contro l’omertà dell’ateneo, che ha classificato le ricerche di Regeni al Cairo come “confidenziali”. La pista inglese è molto solida, come testimonia il traffico delle celle telefoniche concomitante alla scomparsa ed al ritrovamento del cadavere di Regeni: sempre più elementi avvalorano l’ipotesi dell’operazione sporca per sabotare i rapporti italo-egiziani. Di fronte all’omertà ed ai tentativi di depistaggio inglesi, urgono azioni drastiche e tempestive: richiamare l’ambasciatore a Londra? È il minimo.
Dagli amici mi guardi Iddio…
La lentezza è una delle principali accuse rinfacciate alla giustizia
italiana, insieme a quella di svolgere le indagini con un tempismo
spesso sospetto: rallentando o velocizzando un’inchiesta, scegliendo con
cura quando inviare avvisi di garanzia e mandati di comparazione, la
magistratura è sovente accusata di imprimere un connotato tutto politico
al suo lavoro. Anche nelle indagini sull’omicidio di Giulio Regeni,
è lecito porsi qualche interrogativo sull’azione degli inquirenti: non
vogliamo accusare i pubblici ministeri, sia ben chiaro. Diciamo soltanto
che la Procura di Roma, cui è spettato d’ufficio il caso Regeni, potrebbe aver ricevuto pressioni ad agire in un determinato momento, anziché in un altro.
Sono infatti trascorsi già ben quattro mesi dal ritrovamento del corpo di Regeni, più volte gli inquirenti si sono consultati con gli omologhi egiziani e si è consumata una gravissima crisi diplomatica tra Roma ed il Cairo, a causa di presunti depistaggi e reticenze egiziane. Solo in questi giorni, quando l’ambasciata italiana in Egitto è ormai vacante da 60 giorni, i pubblici ministeri hanno scelto di seguire la “pista inglese” dell’omicidio Regeni. Secondo la versione ufficiale, la scintilla che avrebbe illuminato i magistrati sarebbe l’analisi del computer del giovane dottorando, su cui è stato trovato materiale sufficiente per avanzare una rogatoria internazionale così da poter “ascoltare”1 (i media evitano con cura i termini grevi come “interrogare”, quando si tratta di potenti) i docenti dell’Università di Cambridge che “coordinavano” le ricerche di Regeni al Cairo.
Eppure, eppure.
Eppure di materiale ce n’era in quantità per imboccare da subito la pista inglese, quella che porta dritto all’operazione sporca dei servizi britannici ed americani, senza dover aspettare l’analisi del computer di Regeni e, soprattutto, la grave crisi diplomatica consumatasi tra Roma ed il Cairo. Più elementi emergono, più avanzano le indagini, più l’ipotesi dell’operazione clandestina si rafforza, sino alle ultimissime analisi dei tabulati telefonici effettuate dalla polizia egiziana, analisi che potrebbero avvalorare definitivamente la tesi del delitto politico, perpetrato dagli angloamericani per sabotare i rapporti italo-egiziani.
Vediamo quindi perché qualsiasi investigatore, senza ricorre a paragoni con Sherlock Holmes, quanto mai fuori luogo visto il tenore dell’articolo, avrebbe dovuto gettarsi a capofitto sul filone delle indagini che portano dritto all’università di Cambridge, dove la ricerca vive in simbiosi con i servizi segreti e la sovversione politica.
Il prestigioso ateneo, al centro di intrighi spionistici dai tempi dei “Magnifici Cinque”, ha pubblicato una breve biografia2 del giovane ricercatore, da cui attingiamo le seguenti informazioni: Giulio Regeni, classe 1988, si laurea in “Arabic and Politics” all’università di Leeds, nel 2011 entra all’università di Cambridge per un master in “Development Studies”, consegue ottimi risultati negli studi che gli aprono le porte di un’esperienza lavorativa al Cairo, presso le Nazioni Unite. Quindi la biografia di Regeni offerta dall’ateneo, presenta un prima, significativa, differenza rispetto a febbraio: dopo le rivelazioni italiane, anche l’università ammette che il giovane friulano ha lavorato per 12 mesi presso l’Oxford Analytica, società privata che ruota nella galassia dei servizi segreti angloamericani. L’informazione era stata accuratamente taciuta, perché la sua divulgazione cambia drasticamente il profilo di Regeni e dà un altro connotato alle su ricerche. Con l’obiettivo di conseguire un dottorato, Regeni torna a Cambridge nel 2014 e, “attratto dal funzionamento dei sindacati in Egitto”, decide di trascorre l’anno accademico 2015-2016 al Cairo, come “visiting scholar” presso l’università americana.
Nel settembre 2015 Giulio Regeni, dottorando presso l’ateneo inglese ma cittadino italiano, sbarca così in Egitto: è lo stesso Egitto su cui Matteo Renzi ha puntato tutto per risolvere la crisi libica, dove l’11 luglio è esplosa un’autobomba davanti al consolato italiano del Cairo con palesi intenti intimidatori e dove l’ENI ha annunciato a fine agosto la scoperta dell’enorme giacimento metanifero di Zohr. È un Egitto, insomma, dove l’Italia è molto attiva, suscitando l’ira di qualche “alleato”.
L’università americana del Cairo (da cui è passato anche Giuseppe Acconcia, la firma de Il Manifesto che svelerà come Regeni fosse un collaboratore del giornale, rigorosamente anonimo perché “aveva paura per la sua incolumità”3) è, come Cambridge, un’istituzione attiva in settori che esulano dall’attività scientifica e sconfinano nella politica, collocandosi in quella zona grigia tra ricerca, sovversione e rivoluzioni colorate.
L’università americana è accusata di aver tramato nel 2011 per la caduta di Hosni Mubarack e la salita al potere della Fratellanza Mussulmana: accusa non peregrina, considerate le pubbliche esternazioni dei suoi docenti a favore dell’islam politico4. C’è una forte affinità di vedute, quindi, tra l’università americana al Cairo ed i docenti inglesi del giovane friulano. Si prenda ad esempio Anne Alexandre, “una delle persone più vicine dal punto di vista accademico a Giulio Regeni all’interno dell’università britannica”5: in un video è immortalata mentre aizza la folla, tra cui sventolano le bandiere dei Fratelli Mussulmani, contro il presidente Al-Sisi in visita a Londra6. Oppure Maha Abdelrahman, la tutor di Regeni: è considerata anch’essa un’aperta oppositrice di Al-Sisi e, come il sullodato Giuseppe Acconcia, collabora con la OpenDemocracy di George Soros7, un’organizzazione non tenera nei confronti del “regime egiziano”.
Il soggiorno di Regeni al Cairo è finalizzato a continuare gli studi di Maha Abdelrahman sui movimenti d’opposizione in Egitto, ai quali la docente ha già dedicato il libro “Egypt’s Long Revolution: Protest Movements and Uprisings”8. È comunque un dottorato, quello del giovane italiano, piuttosto originale. La definizione che ne danno gli anglosassoni è PAR (Participatory action research) e prevede che la persona che studia un fenomeno sociale, non sia un soggetto passivo bensì attivo, ed interagisca con i movimenti presi in esame: non a caso, Regeni non si limita ad osservare le formazioni all’opposizione, ma entra in contatto diretto con il capo di uno di essi, Mohamed Abdallah, leader del sindacato degli ambulanti, e gli promette un finanziamento di 10.000 sterline attraverso la Fondazione britannica Antipode, impegnata, come la OpenDemocracy, a costruire una “new and better society”9.
Si ripropone quindi l’interrogativo: Regeni era o non era una spia?
Il suo possibile inquadramento nei servizi segreti inglesi rimarrà per sempre sconosciuto. Quel che è certo, specie dopo la sua esperienza all’Oxford Analytica, è che Regeni era troppo intelligente per non sapere di essere coinvolto in attività riconducibili allo spionaggio ed alla sovversione politica. Mai, comunque, avrebbe immaginato che lo stesso ambiente cui consegnava i suoi rapporti sull’opposizione egiziana decretasse anche la sua morte: perché non c’è alcun dubbio che l’ordine di uccidere Regeni sia partito dall’Inghilterra, non certo dall’Egitto che, anziché innescare una drammatica crisi diplomatica, avrebbe potuto semplicemente espellere il dottorando se ritenuto pericoloso. La tesi della faida dentro le forze di sicurezza egiziane è un banale depistaggio per tenere concentrata l’attenzione sul Cairo, anziché seguire la pista che porta dritto a Londra.
Veniamo così al rapimento ed all’uccisione di Regeni, arricchiti in questi ultimi giorni di nuovi particolari, il traffico delle celle telefoniche in corrispondenza dei luoghi dove l’italiano sparisce ed è ritrovato, particolari che confermano ancora la pista inglese.
Il 25 gennaio è il giorno in cui scatta l’operazione: la data scelta, l’anniversario della rivoluzione di Piazza Tahrir, è tutto fuorché casuale, perché offre l’occasione di sfruttare le manifestazioni ed il massiccio dispiegamento di polizia per rapire indisturbati Regeni ed avvalorare la tesi della repressione contro i dissidenti politici.
Alle 19.40 il giovane friulano contatta Gennaro Gervasio, definito “amico” o “tutor” di Regeni10, dicendogli che sarebbe uscito di casa verso le 20, per raggiungere la fermata della metropolitana di Dokki, scendere alla fermata Mohamed Naguib e raggiungere a piedi il ristorante dove hanno appuntamento. Gervasio è docente presso la British University in Cairo e, come gli insegnanti inglesi di Regeni, studioso di movimenti d’opposizione (“Social and Subaltern Movements in the Arab World”11).
Il dottorando esce di casa ed è rapito, secondo alcune testimonianze anonime12, da uomini che indossano divise della polizia. Dall’analisi dei tabulati telefonici fornite dagli inquirenti egiziani, sappiamo oggi che tra le 19.30 e le 20.30, partono da un telefono inglese tre sms verso altrettanti cellulari egiziani, agganciati alle celle telefoniche attraversate da Regeni13 in quel momento.
Nonostante il Cairo sia una metropoli di sette milioni di abitanti ed il 25 gennaio la situazione sia ancora più congestionata per l’anniversario della rivoluzione di Piazza Tahrir, Gennaro Gervasio, quando alle 20.18 non vede comparire Regeni, si impensierisce e tenta per la prima volta di contattarlo al telefono. Seguono a ruota altre due chiamate (20.23 e 20.25), quindi, il docente della British University lascia passare due ore e, tra le 22.30 e le 23, contatta direttamente l’ambasciatore al Cairo, Maurizio Massari.
Il rappresentante italiano in Egitto ha, stranamente, un profilo molto simile agli altri personaggi comparsi sinora del racconto: assegnato all’ambasciata a Londra dal 1991 al1994, consigliere politico a Washington sotto il secondo mandato Clinton (1998-2001), curatore di un libro (“Le rivoluzioni della dignità. 18 mesi di proteste, di repressione e di rivoluzioni che hanno cambiato il mondo arabo ”14) dove, ovviamente, si benedice l’avvento della Fratellanza Mussulmana, “la forza politica meglio organizzata in tutto il mondo arabo”, Massari sbarca al Cairo nel gennaio 2013, quando il governo egiziano è ancora retto da Mohamed Morsi.
Anche la reazione dell’ambasciatore, come quella di Gervasio, è anomala e del tutto sproporzionata rispetto alle informazioni di cui avrebbe dovuto essere a disposizione: pochi minuti dopo la telefonata di Gervasio, Massari avverte i responsabili dei nostri servizi segreti sul posto, per poi sollecitarli la mattina successiva. “Alle 15 del 26 gennaio, quando mancano ancora 9 ore al tempo richiesto dalla legge per poter denunciare una scomparsa”15, l’ambasciatore manda una nota ufficiale al ministero degli Esteri egiziano (e in copia a quello dell’Interno ed ai servizi segreti) sollecitando ogni sforzo necessario per rintracciare Regeni. Non sono trascorse neppure 24 ore dalla scomparsa di Regeni ed il caso, grazie a Massari, è già una questione di Stato.
Ora, chi è l’esecutore del rapimento, delle sevizie e dell’uccisione di Regeni? Nulla vieta che i responsabili materiali dell’omicidio, da tenere ben distinti dai mandanti, siano effettivamente i cinque criminali specializzati in sequestri di stranieri e rimasti uccisi in un conflitto a fuoco con la polizia a fine marzo16. La banda agiva d’abitudine con divise della polizia e nella loro abitazione sono stati ritrovati i documenti di Giulio Regeni: si tratterebbe in questo caso di criminalità comune, assoldata in loco dai servizi angloamericani per il lavoro sporco, un copione che in Italia conosciamo molto bene.
Trascorrono nove giorni ed il 3 febbraio il cadavere del dottorando è ritrovato ai margini della città, su un cavalcavia dell’autostrada Cairo-Alessandria: grazie ai tabulati telefonici forniti dagli inquirenti egiziani, oggi sappiamo che all’1.45 del 3 febbraio, un’altra utenza inglese invia un sms ad un cellulare egiziano, agganciato alla cella telefonica dello stesso quartiere dove a distanza di poche ore è rinvenuto il corpo17.
Quello stesso giorno è previsto un incontro tra la delegazione economica guidata dal ministro Federica Guidi e le massime autorità egiziane, prontamente cancellata dallo zelante Maurizio Massari appena è divulgata la notizia del ritrovamento del corpo (“per rispetto nei confronti di Giulio e la sua famiglia”).
“Brutal murder threatens relations between Egypt and Italy” scrive con preveggenza il britannico Financial Times il 9 febbraio, evidenziando come la morte di Regeni rischi di compromettere i rapporti commerciali tra i due Paesi, appena rafforzatisi con la scoperta del giacimento Zohr effettuata dall’ENI, e la collaborazione in Libia, dove il generale Khalifa Haftar, sostenuto dal Cairo e a lungo anche da Roma, è tenacemente osteggiato dagli angloamericani.
Il Financial Times, ovviamente, non sbaglia.
Benché il filone delle indagini che porta dritto a Londra sia più che robusto, gli inquirenti italiani l’ignorano per mesi, subordinandolo all’analisi del computer di Regeni, e si concentrano unicamente sugli sviluppi dell’inchiesta in Egitto.
Una martellante campagna politico-mediatica, guidata da Amnesty International e da vecchi esponenti di Lotta Continua, emette già ai primi di marzo il suo verdetto, stabilendo che il responsabile dell’omicidio è il “regime di Al-Sisi”. Per obbligare le reticenti autorità egiziane a collaborare, è opportuno richiamare l’ambasciatore o, meglio ancora, convincere i “principali investitori italiani”18 (leggi ENI) a rivedere le loro attività nel Paese. Il primo aprile Renzi discute del caso Regeni con Barack Obama, a margine del summit sulla sicurezza nucleare a Washington. L’8 aprile la Farnesina richiama Maurizio Massari per consultazioni, sancendo la crisi diplomatica tra i due Paesi dopo il “sostanziale fallimento” del vertice tra gli inquirenti italiani e gli omologhi italiani, accusati di non aver consegnato i dati sul traffico telefonico.
Non c’è però rischio che Maurizio Massari rimanga disoccupato perché, quando a Bruxelles si libera la posizione di ambasciatore italiano presso la UE, lasciata vacante da Carlo Calenda, lo zelante diplomatico è prontamente promosso grazie, probabilmente, ai servigi resi in Egitto.
Passeranno altri due mesi prima che, finalmente, sia disponibile l’analisi del computer di Regeni e gli inquirenti, appuratone il contenuto, decidano di imboccare il filone inglese del delitto: avanzano quindi una rogatoria internazionale per “ascoltare” i docenti ed i colleghi con cui il dottorando italiano è venuto in contatto all’università di Cambridge.
Finalmente, qualcuno potrebbe pensare, dopo i depistaggi, le reticenze ed i sotterfugi del “regime egiziano”, gli investigatori italiani lavoreranno in ambiente disponibile, trasparente e collaborativo: dopotutto non è partita proprio dall’ateneo inglese la lettera aperta “Egypt must look into all reports of torture, not just the death of Giulio Regeni” per chiedere chiarezza sull’omicidio? Non figurano proprio Anne Alexande e Maha Abdelrahman, i due docenti di Regeni a Cambridge, tra i firmatari?
Ed invece, no!
Il presunto muro d’omertà innalzato dalle autorità egiziane, si trasforma in una fortezza inespugnabile in Inghilterra: Maha Abdelrahman, la studiosa dei sindacati indipendenti e dei movimenti di protesta egiziani, il docente che coordinava la ricerca (o meglio, la participatory action research) di Regeni al Cairo, rifiuta di rilasciare dichiarazioni agli inquirenti italiani, seguendo i consigli legali dell’Ateneo. A nulla serve lo struggente appello dei genitori ai professori affinché “collaborino attivamente per dare una risposta alla crudeltà gratuita che ha sottratto Giulio agli affetti e alla comunità scientifica”19, né serve la disponibilità dei nostri investigatori ad attendere più giorni Maha Abdelrahman negli uffici della polizia di Cambridge, dopo averle inviato in anticipo le domande (non è contro il famoso fair play inglese?).
Maha Abdelrahman non collabora. Di più. Gli inquirenti italiani non possono neanche consultare lo studio di Regeni sui sindacati indipendenti, perché “confidenziale”20, come se fossero documenti scambiati all’interno di un servizio segreto o di un corpo diplomatico.
Qual è il motivo di questa segretezza? Bé, quasi sicuramente, i nostri inquirenti, sfogliando il lavoro commissionato a Regeni da Maha Abdelrahman, avrebbero scoperto come le ricerche dell’ateneo inglese sconfinino nell’eversione politica.
Aver scelto Giulio Regeni come vittima di questa operazione sporca, implica infatti che tutte le sue attività sul versante inglese debbano rimanere gelosamente nascoste: d’altra parte, come giustificare il rapimento e la brutale tortura da parte del “regime egiziano” di un turista italiano qualsiasi?
Resta il dilemma della condotta che l’Italia dovrebbe assumere di fronte all’omertà inglese: a rigor di logica, dovrebbe richiamare l’ambasciatore a Londra per consultazioni.
CONTINUA QUI
Preso da: http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=16550
Sono infatti trascorsi già ben quattro mesi dal ritrovamento del corpo di Regeni, più volte gli inquirenti si sono consultati con gli omologhi egiziani e si è consumata una gravissima crisi diplomatica tra Roma ed il Cairo, a causa di presunti depistaggi e reticenze egiziane. Solo in questi giorni, quando l’ambasciata italiana in Egitto è ormai vacante da 60 giorni, i pubblici ministeri hanno scelto di seguire la “pista inglese” dell’omicidio Regeni. Secondo la versione ufficiale, la scintilla che avrebbe illuminato i magistrati sarebbe l’analisi del computer del giovane dottorando, su cui è stato trovato materiale sufficiente per avanzare una rogatoria internazionale così da poter “ascoltare”1 (i media evitano con cura i termini grevi come “interrogare”, quando si tratta di potenti) i docenti dell’Università di Cambridge che “coordinavano” le ricerche di Regeni al Cairo.
Eppure, eppure.
Eppure di materiale ce n’era in quantità per imboccare da subito la pista inglese, quella che porta dritto all’operazione sporca dei servizi britannici ed americani, senza dover aspettare l’analisi del computer di Regeni e, soprattutto, la grave crisi diplomatica consumatasi tra Roma ed il Cairo. Più elementi emergono, più avanzano le indagini, più l’ipotesi dell’operazione clandestina si rafforza, sino alle ultimissime analisi dei tabulati telefonici effettuate dalla polizia egiziana, analisi che potrebbero avvalorare definitivamente la tesi del delitto politico, perpetrato dagli angloamericani per sabotare i rapporti italo-egiziani.
Vediamo quindi perché qualsiasi investigatore, senza ricorre a paragoni con Sherlock Holmes, quanto mai fuori luogo visto il tenore dell’articolo, avrebbe dovuto gettarsi a capofitto sul filone delle indagini che portano dritto all’università di Cambridge, dove la ricerca vive in simbiosi con i servizi segreti e la sovversione politica.
Il prestigioso ateneo, al centro di intrighi spionistici dai tempi dei “Magnifici Cinque”, ha pubblicato una breve biografia2 del giovane ricercatore, da cui attingiamo le seguenti informazioni: Giulio Regeni, classe 1988, si laurea in “Arabic and Politics” all’università di Leeds, nel 2011 entra all’università di Cambridge per un master in “Development Studies”, consegue ottimi risultati negli studi che gli aprono le porte di un’esperienza lavorativa al Cairo, presso le Nazioni Unite. Quindi la biografia di Regeni offerta dall’ateneo, presenta un prima, significativa, differenza rispetto a febbraio: dopo le rivelazioni italiane, anche l’università ammette che il giovane friulano ha lavorato per 12 mesi presso l’Oxford Analytica, società privata che ruota nella galassia dei servizi segreti angloamericani. L’informazione era stata accuratamente taciuta, perché la sua divulgazione cambia drasticamente il profilo di Regeni e dà un altro connotato alle su ricerche. Con l’obiettivo di conseguire un dottorato, Regeni torna a Cambridge nel 2014 e, “attratto dal funzionamento dei sindacati in Egitto”, decide di trascorre l’anno accademico 2015-2016 al Cairo, come “visiting scholar” presso l’università americana.
Nel settembre 2015 Giulio Regeni, dottorando presso l’ateneo inglese ma cittadino italiano, sbarca così in Egitto: è lo stesso Egitto su cui Matteo Renzi ha puntato tutto per risolvere la crisi libica, dove l’11 luglio è esplosa un’autobomba davanti al consolato italiano del Cairo con palesi intenti intimidatori e dove l’ENI ha annunciato a fine agosto la scoperta dell’enorme giacimento metanifero di Zohr. È un Egitto, insomma, dove l’Italia è molto attiva, suscitando l’ira di qualche “alleato”.
L’università americana del Cairo (da cui è passato anche Giuseppe Acconcia, la firma de Il Manifesto che svelerà come Regeni fosse un collaboratore del giornale, rigorosamente anonimo perché “aveva paura per la sua incolumità”3) è, come Cambridge, un’istituzione attiva in settori che esulano dall’attività scientifica e sconfinano nella politica, collocandosi in quella zona grigia tra ricerca, sovversione e rivoluzioni colorate.
L’università americana è accusata di aver tramato nel 2011 per la caduta di Hosni Mubarack e la salita al potere della Fratellanza Mussulmana: accusa non peregrina, considerate le pubbliche esternazioni dei suoi docenti a favore dell’islam politico4. C’è una forte affinità di vedute, quindi, tra l’università americana al Cairo ed i docenti inglesi del giovane friulano. Si prenda ad esempio Anne Alexandre, “una delle persone più vicine dal punto di vista accademico a Giulio Regeni all’interno dell’università britannica”5: in un video è immortalata mentre aizza la folla, tra cui sventolano le bandiere dei Fratelli Mussulmani, contro il presidente Al-Sisi in visita a Londra6. Oppure Maha Abdelrahman, la tutor di Regeni: è considerata anch’essa un’aperta oppositrice di Al-Sisi e, come il sullodato Giuseppe Acconcia, collabora con la OpenDemocracy di George Soros7, un’organizzazione non tenera nei confronti del “regime egiziano”.
Il soggiorno di Regeni al Cairo è finalizzato a continuare gli studi di Maha Abdelrahman sui movimenti d’opposizione in Egitto, ai quali la docente ha già dedicato il libro “Egypt’s Long Revolution: Protest Movements and Uprisings”8. È comunque un dottorato, quello del giovane italiano, piuttosto originale. La definizione che ne danno gli anglosassoni è PAR (Participatory action research) e prevede che la persona che studia un fenomeno sociale, non sia un soggetto passivo bensì attivo, ed interagisca con i movimenti presi in esame: non a caso, Regeni non si limita ad osservare le formazioni all’opposizione, ma entra in contatto diretto con il capo di uno di essi, Mohamed Abdallah, leader del sindacato degli ambulanti, e gli promette un finanziamento di 10.000 sterline attraverso la Fondazione britannica Antipode, impegnata, come la OpenDemocracy, a costruire una “new and better society”9.
Si ripropone quindi l’interrogativo: Regeni era o non era una spia?
Il suo possibile inquadramento nei servizi segreti inglesi rimarrà per sempre sconosciuto. Quel che è certo, specie dopo la sua esperienza all’Oxford Analytica, è che Regeni era troppo intelligente per non sapere di essere coinvolto in attività riconducibili allo spionaggio ed alla sovversione politica. Mai, comunque, avrebbe immaginato che lo stesso ambiente cui consegnava i suoi rapporti sull’opposizione egiziana decretasse anche la sua morte: perché non c’è alcun dubbio che l’ordine di uccidere Regeni sia partito dall’Inghilterra, non certo dall’Egitto che, anziché innescare una drammatica crisi diplomatica, avrebbe potuto semplicemente espellere il dottorando se ritenuto pericoloso. La tesi della faida dentro le forze di sicurezza egiziane è un banale depistaggio per tenere concentrata l’attenzione sul Cairo, anziché seguire la pista che porta dritto a Londra.
Veniamo così al rapimento ed all’uccisione di Regeni, arricchiti in questi ultimi giorni di nuovi particolari, il traffico delle celle telefoniche in corrispondenza dei luoghi dove l’italiano sparisce ed è ritrovato, particolari che confermano ancora la pista inglese.
Il 25 gennaio è il giorno in cui scatta l’operazione: la data scelta, l’anniversario della rivoluzione di Piazza Tahrir, è tutto fuorché casuale, perché offre l’occasione di sfruttare le manifestazioni ed il massiccio dispiegamento di polizia per rapire indisturbati Regeni ed avvalorare la tesi della repressione contro i dissidenti politici.
Alle 19.40 il giovane friulano contatta Gennaro Gervasio, definito “amico” o “tutor” di Regeni10, dicendogli che sarebbe uscito di casa verso le 20, per raggiungere la fermata della metropolitana di Dokki, scendere alla fermata Mohamed Naguib e raggiungere a piedi il ristorante dove hanno appuntamento. Gervasio è docente presso la British University in Cairo e, come gli insegnanti inglesi di Regeni, studioso di movimenti d’opposizione (“Social and Subaltern Movements in the Arab World”11).
Il dottorando esce di casa ed è rapito, secondo alcune testimonianze anonime12, da uomini che indossano divise della polizia. Dall’analisi dei tabulati telefonici fornite dagli inquirenti egiziani, sappiamo oggi che tra le 19.30 e le 20.30, partono da un telefono inglese tre sms verso altrettanti cellulari egiziani, agganciati alle celle telefoniche attraversate da Regeni13 in quel momento.
Nonostante il Cairo sia una metropoli di sette milioni di abitanti ed il 25 gennaio la situazione sia ancora più congestionata per l’anniversario della rivoluzione di Piazza Tahrir, Gennaro Gervasio, quando alle 20.18 non vede comparire Regeni, si impensierisce e tenta per la prima volta di contattarlo al telefono. Seguono a ruota altre due chiamate (20.23 e 20.25), quindi, il docente della British University lascia passare due ore e, tra le 22.30 e le 23, contatta direttamente l’ambasciatore al Cairo, Maurizio Massari.
Il rappresentante italiano in Egitto ha, stranamente, un profilo molto simile agli altri personaggi comparsi sinora del racconto: assegnato all’ambasciata a Londra dal 1991 al1994, consigliere politico a Washington sotto il secondo mandato Clinton (1998-2001), curatore di un libro (“Le rivoluzioni della dignità. 18 mesi di proteste, di repressione e di rivoluzioni che hanno cambiato il mondo arabo ”14) dove, ovviamente, si benedice l’avvento della Fratellanza Mussulmana, “la forza politica meglio organizzata in tutto il mondo arabo”, Massari sbarca al Cairo nel gennaio 2013, quando il governo egiziano è ancora retto da Mohamed Morsi.
Anche la reazione dell’ambasciatore, come quella di Gervasio, è anomala e del tutto sproporzionata rispetto alle informazioni di cui avrebbe dovuto essere a disposizione: pochi minuti dopo la telefonata di Gervasio, Massari avverte i responsabili dei nostri servizi segreti sul posto, per poi sollecitarli la mattina successiva. “Alle 15 del 26 gennaio, quando mancano ancora 9 ore al tempo richiesto dalla legge per poter denunciare una scomparsa”15, l’ambasciatore manda una nota ufficiale al ministero degli Esteri egiziano (e in copia a quello dell’Interno ed ai servizi segreti) sollecitando ogni sforzo necessario per rintracciare Regeni. Non sono trascorse neppure 24 ore dalla scomparsa di Regeni ed il caso, grazie a Massari, è già una questione di Stato.
Ora, chi è l’esecutore del rapimento, delle sevizie e dell’uccisione di Regeni? Nulla vieta che i responsabili materiali dell’omicidio, da tenere ben distinti dai mandanti, siano effettivamente i cinque criminali specializzati in sequestri di stranieri e rimasti uccisi in un conflitto a fuoco con la polizia a fine marzo16. La banda agiva d’abitudine con divise della polizia e nella loro abitazione sono stati ritrovati i documenti di Giulio Regeni: si tratterebbe in questo caso di criminalità comune, assoldata in loco dai servizi angloamericani per il lavoro sporco, un copione che in Italia conosciamo molto bene.
Trascorrono nove giorni ed il 3 febbraio il cadavere del dottorando è ritrovato ai margini della città, su un cavalcavia dell’autostrada Cairo-Alessandria: grazie ai tabulati telefonici forniti dagli inquirenti egiziani, oggi sappiamo che all’1.45 del 3 febbraio, un’altra utenza inglese invia un sms ad un cellulare egiziano, agganciato alla cella telefonica dello stesso quartiere dove a distanza di poche ore è rinvenuto il corpo17.
Quello stesso giorno è previsto un incontro tra la delegazione economica guidata dal ministro Federica Guidi e le massime autorità egiziane, prontamente cancellata dallo zelante Maurizio Massari appena è divulgata la notizia del ritrovamento del corpo (“per rispetto nei confronti di Giulio e la sua famiglia”).
“Brutal murder threatens relations between Egypt and Italy” scrive con preveggenza il britannico Financial Times il 9 febbraio, evidenziando come la morte di Regeni rischi di compromettere i rapporti commerciali tra i due Paesi, appena rafforzatisi con la scoperta del giacimento Zohr effettuata dall’ENI, e la collaborazione in Libia, dove il generale Khalifa Haftar, sostenuto dal Cairo e a lungo anche da Roma, è tenacemente osteggiato dagli angloamericani.
Il Financial Times, ovviamente, non sbaglia.
Benché il filone delle indagini che porta dritto a Londra sia più che robusto, gli inquirenti italiani l’ignorano per mesi, subordinandolo all’analisi del computer di Regeni, e si concentrano unicamente sugli sviluppi dell’inchiesta in Egitto.
Una martellante campagna politico-mediatica, guidata da Amnesty International e da vecchi esponenti di Lotta Continua, emette già ai primi di marzo il suo verdetto, stabilendo che il responsabile dell’omicidio è il “regime di Al-Sisi”. Per obbligare le reticenti autorità egiziane a collaborare, è opportuno richiamare l’ambasciatore o, meglio ancora, convincere i “principali investitori italiani”18 (leggi ENI) a rivedere le loro attività nel Paese. Il primo aprile Renzi discute del caso Regeni con Barack Obama, a margine del summit sulla sicurezza nucleare a Washington. L’8 aprile la Farnesina richiama Maurizio Massari per consultazioni, sancendo la crisi diplomatica tra i due Paesi dopo il “sostanziale fallimento” del vertice tra gli inquirenti italiani e gli omologhi italiani, accusati di non aver consegnato i dati sul traffico telefonico.
Non c’è però rischio che Maurizio Massari rimanga disoccupato perché, quando a Bruxelles si libera la posizione di ambasciatore italiano presso la UE, lasciata vacante da Carlo Calenda, lo zelante diplomatico è prontamente promosso grazie, probabilmente, ai servigi resi in Egitto.
Passeranno altri due mesi prima che, finalmente, sia disponibile l’analisi del computer di Regeni e gli inquirenti, appuratone il contenuto, decidano di imboccare il filone inglese del delitto: avanzano quindi una rogatoria internazionale per “ascoltare” i docenti ed i colleghi con cui il dottorando italiano è venuto in contatto all’università di Cambridge.
Finalmente, qualcuno potrebbe pensare, dopo i depistaggi, le reticenze ed i sotterfugi del “regime egiziano”, gli investigatori italiani lavoreranno in ambiente disponibile, trasparente e collaborativo: dopotutto non è partita proprio dall’ateneo inglese la lettera aperta “Egypt must look into all reports of torture, not just the death of Giulio Regeni” per chiedere chiarezza sull’omicidio? Non figurano proprio Anne Alexande e Maha Abdelrahman, i due docenti di Regeni a Cambridge, tra i firmatari?
Ed invece, no!
Il presunto muro d’omertà innalzato dalle autorità egiziane, si trasforma in una fortezza inespugnabile in Inghilterra: Maha Abdelrahman, la studiosa dei sindacati indipendenti e dei movimenti di protesta egiziani, il docente che coordinava la ricerca (o meglio, la participatory action research) di Regeni al Cairo, rifiuta di rilasciare dichiarazioni agli inquirenti italiani, seguendo i consigli legali dell’Ateneo. A nulla serve lo struggente appello dei genitori ai professori affinché “collaborino attivamente per dare una risposta alla crudeltà gratuita che ha sottratto Giulio agli affetti e alla comunità scientifica”19, né serve la disponibilità dei nostri investigatori ad attendere più giorni Maha Abdelrahman negli uffici della polizia di Cambridge, dopo averle inviato in anticipo le domande (non è contro il famoso fair play inglese?).
Maha Abdelrahman non collabora. Di più. Gli inquirenti italiani non possono neanche consultare lo studio di Regeni sui sindacati indipendenti, perché “confidenziale”20, come se fossero documenti scambiati all’interno di un servizio segreto o di un corpo diplomatico.
Qual è il motivo di questa segretezza? Bé, quasi sicuramente, i nostri inquirenti, sfogliando il lavoro commissionato a Regeni da Maha Abdelrahman, avrebbero scoperto come le ricerche dell’ateneo inglese sconfinino nell’eversione politica.
Aver scelto Giulio Regeni come vittima di questa operazione sporca, implica infatti che tutte le sue attività sul versante inglese debbano rimanere gelosamente nascoste: d’altra parte, come giustificare il rapimento e la brutale tortura da parte del “regime egiziano” di un turista italiano qualsiasi?
Resta il dilemma della condotta che l’Italia dovrebbe assumere di fronte all’omertà inglese: a rigor di logica, dovrebbe richiamare l’ambasciatore a Londra per consultazioni.
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Preso da: http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=16550
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