11 aprile 2016, da Manlio Dinucci
«La Libia deve
tornare a essere un paese stabile e solido», twitta da Washington il
premier Renzi, assicurando il massimo sostegno al «premier Sarraj,
finalmente a Tripoli». Ci stanno pensando a Washington, Parigi, Londra e
Roma gli stessi che, dopo aver destabilizzato e frantumato con la
guerra lo Stato libico, vanno a raccogliere i cocci con la «missione di
assistenza internazionale alla Libia».
L’idea che hanno traspare attraverso autorevoli voci. Paolo Scaroni,
che a capo dell’Eni ha manovrato in Libia tra fazioni e mercenari ed è
oggi vicepresidente della Banca Rothschild, dichiara al Corriere della Sera
che «occorre finirla con la finzione della Libia», «paese inventato»
dal colonialismo italiano. Si deve «favorire la nascita di un governo in
Tripolitania, che faccia appello a forze straniere che lo aiutino a
stare in piedi», spingendo Cirenaica e Fezzan a creare propri governi
regionali, eventualmente con l’obiettivo di federarsi nel lungo periodo.
Intanto «ognuno gestirebbe le sue fonti energetiche», presenti in
Tripolitania e Cirenaica.
Analoga l’idea esposta su Avvenire da Ernesto Preziosi, deputato Pd
di area cattolica: «Formare una Unione libica di tre Stati - Cirenaica,
Tripolitania e Fezzan - che hanno in comune la Comunità del petrolio e
del gas», sostenuta da «una forza militare europea ad hoc». È la vecchia
politica del colonialismo ottocentesco, aggiornata in funzione
neocoloniale dalla strategia Usa/Nato, che ha demolito interi Stati
nazionali (Jugoslavia, Libia) e frazionato altri (Iraq, Siria), per
controllare i loro territori e le loro risorse.
La Libia possiede quasi il 40% del petrolio africano, prezioso per
l’alta qualità e il basso costo di estrazione, e grosse riserve di gas
naturale, dal cui sfruttamento le multinazionali statunitensi ed europee
possono ricavare oggi profitti di gran lunga superiori a quelli che
ottenevano prima dallo Stato libico. Per di più, eliminando lo Stato
nazionale e trattando separatamente con gruppi al potere in Tripolitania
e Cirenaica, possono ottenere la privatizzazione delle riserve
energetiche statali e quindi il loro diretto controllo.
Oltre che dell’oro nero, le multinazionali statunitensi ed europee
vogliono impadronirsi dell’oro bianco: l’immensa riserva di acqua
fossile della falda nubiana, che si estende sotto Libia, Egitto, Sudan e
Ciad. Quali possibilità essa offra lo aveva dimostrato lo Stato libico,
costruendo acquedotti che trasportavano acqua potabile e per
l’irrigazione, milioni di metri cubi al giorno estratti da 1300 pozzi
nel deserto, per 1600 km fino alle città costiere, rendendo fertili
terre desertiche.
Sbarcando in Libia con la motivazione ufficiale di assisterla e
liberarla dalla presenza dell’Isis, gli Usa e le maggiori potenze
europee possono anche riaprire le loro basi militari, chiuse da Gheddafi
nel 1970, in una importante posizione geostrategica all’intersezione
tra Mediterraneo, Africa e Medio Oriente.
Infine, con la «missione di
assistenza alla Libia», gli Usa e le maggiori potenze europee si
spartiscono il bottino della più grande rapina del secolo: 150 miliardi
di dollari di fondi sovrani libici confiscati nel 2011, che potrebbero
quadruplicarsi se l’export energetico libico tornasse ai livelli
precedenti.
I fondi sovrani, all’epoca di Gheddafi investiti per creare una
moneta e organismi finanziari autonomi dell’Unione Africana (ragione per
cui fu deciso di abbattere Gheddafi, come risulta dalle mail di Hillary
Clinton), saranno usati per smantellare ciò che rimane dello Stato
libico. Stato «mai esistito» perché in Libia c’era solo una «moltitudine
di tribù», dichiara Giorgio Napolitano, convinto di essere al Senato
del Regno d’Italia.
Fonte: Il Manifesto
Preso da: http://altrenotizie.org/pescati-nella-rete/6952-i-predatori-della-libia.html
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