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mercoledì 13 aprile 2016

Libia: proprio come la Somalia

La drammatica situazione della Libia, divisa tra Tobruk, Tripoli ed il nuovo premier Sarraj, ricorda quella della Somalia del post Siad Biarre. Che ci piaccia o meno, l'ultimo governo che è stato in grado di tenerla unita è stato quello di Gheddafi.
La situazione politica e militare della Libia è a dir poco ostica. Dopo mesi d’incontri ed accordi tra i due governi del paese, quello islamista di Tripoli e quello ufficialmente riconosciuto di Tobruk, andati quasi sempre tutti a vuoto, alla fine la comunità internazionale ha deciso di far piovere sul paese un premier calato dall’alto, Sarraj, e che la popolazione locale guarda come una figura estranea, verso cui il massimo stato d’animo è l’indifferenza. Cosa che del resto si manifesta praticamente sin dal 2011, quando a Bengasi nacque il famoso “Consiglio Nazionale Transitorio” (CNT), per nulla partecipato dalla popolazione e ad essa del tutto ostile ed indifferente. Anche se a quel tempo i media occidentali e panarabi si sbracciavano per farci credere che quello di Bengasi fosse un governo che godeva di un entusiastico sostegno popolare, la verità era che in tutta la Cirenaica si tenevano ogni giorno dimostrazioni pro-Gheddafi, almeno finché il Qa’id non venne barbaramente ucciso, il che spense tutte le speranze nella popolazione libica per una vittoria su coloro che venivano semplicemente visti come usurpatori e traditori sostenuti dall’Occidente e dalle petromonarchie del Golfo.
Che ci piaccia o meno, l’ultimo governo che la maggior parte dei libici continua a considerare legittimo o comunque capace di mantenere unito tutto il paese, è quello che ha guidato Gheddafi. Prova ne sia il fatto che l’ultima manifestazione di massa tenutasi in Libia a favore di un governo o della sua guida è stata proprio nel luglio del 2011, a Tripoli, quando venne addirittura stesa una gigantografia di Gheddafi che entrò anche nel Guinness dei Primati.
Al momento attuale abbiamo così, in Libia, ben tre governi: quello di Tripoli, quello di Tobruk ed infine quello di Sarraj, con quest’ultimo che secondo la comunità internazionale dovrebbe prevalere sugli altri unificando finalmente la Libia. Compito tutt’altro che facile, dal momento che soprattutto il governo di Tripoli non sente ragioni e vuole continuare ad andare avanti per la propria strada, ma anche a Tobruk e a Bengasi si fa notare come sia davvero un po’ troppo chiedere il disarmo e le dimissioni unilaterali a fronte di un premier che nessun libico ha eletto, acclamato o voluto, e che è stato letteralmente imposto alla nazione alla stregua di un proconsole.
Ognuno dei governi attualmente presenti in Libia è espressione di diversi interessi politici, economici e pertanto anche neocoloniali: i tripolitani sono sostenuti dalle petromonarchie del Golfo, i cirenaici dall’Egitto, oltre che dagli occidentali che però sponsorizzano anche Sarraj. Si creano così intrecci sconfinano nella fanta(geo)politica, con improbabili avvicinamenti fra Washington ed Il Cairo, e così via. A tacere poi degli altri grandi, come la Russia e la Cina, che semplicemente nelle beghe interne ad un singolo Stato preferiscono non entrare e non ingerire, e che però devono pur sempre prendere una posizione. L’alleanza di Mosca e di Pechino con l’Egitto potrebbe servire, da questo punto di vista, a fornire qualche indicazione; ma se consideriamo che lo stesso Egitto appoggia anche i gheddafiani al sud, e non solo il governo di Tobruk e del generale Haftar, allora comprendiamo quanto sia complicato il quadro libico.
L’Eni ha dichiarato che d’ora in avanti tratterà solo con Sarraj, che ha già ricevuto la fedeltà di quindici municipalità del sud e di una decina del nord, ed il governo Renzi, sensibile alla seconda diplomazia intrapresa dalla grande società energetica italiana, continua ad invitare alla calma circa un possibile intervento in terra libica. La speranza è che il difficile mosaico libico si ricomponga, ma perché ciò avvenga bisogna superare una serie di scogli di non piccola entità: innanzitutto quale sarà il destino delle società petrolifere ed energetiche libiche, di cui ogni governo ha una propria diramazione, così come dei fondi sovrani del paese, che amministrano decine di miliardi di dollari sparsi in vari investimenti esteri? Chi controllerà queste due realtà avrà letteralmente in mano il destino della Libia, e ben si comprende quindi la ritrosia dei vari centri di potere libici, Tripoli, Tobruk e via dicendo, nel cederne il controllo.
La verità è che oggi la Libia non esiste più. Con la scomparsa della Jamahiriya di Gheddafi, la Libia ha fatto la stessa fine della Somalia di Siad Barre: allorchè questi cadde insieme al suo socialismo di stampo molto personale, anche il resto del paese andò in pezzi. E da allora, anche per diretto interesse dell’Occidente e dei suoi manutengoli locali, non si è più ricostituito e ricoagulato. La Libia è purtroppo destinata a vivere la stessa amara storia.
Dulcis in fundo, la presenza dell’ISIS e delle varie formazioni fondamentaliste in entrambi gli scenari serve proprio a darci la conferma che ci troviamo dinanzi a degli Stati falliti, incapaci di gestire il loro territorio. Ma, come anche il caso della Somalia ci sta a dimostrare, probabilmente anche per quanto riguarda la Libia coloro che nel 2011 fecero la guerra a Gheddafi hanno nell’instaurazione e nel mantenimento del caos il loro principale tornaconto politico e non.

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