Chi dovrebbe risolvere il problema libico? L’ONU, che ha fornito la foglia di fico per giustificare l’aggressione del 2011? Gli Stati Uniti, con le lugubri smargiassate pseudocesariane della Clinton e col subdolo interventismo di Obama? Cameron e Sarko –Hollande? L’Italia, che ha gettato nel letamaio il trattato d’amicizia firmato da Berlusconi e ratificato da Napolitano?
I libri di storia ufficiali descrivono il colonialismo come un fenomeno del passato. In realtà, il colonialismo non è mai morto: quando uno stato è occupato, il suo governo sostituito da Quisling e le sue risorse saccheggiate, possiamo pure pudicamente aggiungere il prefisso ‘neo’ al termine ‘colonialismo’, ma il lessico non modifica la realtà. La Libia aveva un grande sviluppo nel settore petrolifero e finanziario. Secondo il Fondo monetario internazionale, le attività nette all’estero della Banca centrale e dei due fondi sovrani ammontavano a 152 miliardi di dollari a fine 2010
Nel nostro Paese gli investimenti erano diretti soprattutto ai comparti energetico, bancario, impiantistica ed infrastrutture (Banca di Roma, Fiat, Finmeccanica, Juventus, Mediobanca, Olcese, Retelit…). Forti investimenti anche in Russia, Inghilterra e Giordania. La Libia possedeva o controllava tramite la LAP (Libyan African Investment Portfolio) le compagnie telefoniche o le licenze di comunicazione in otto paesi africani. Secondo un dispaccio di Wikileaks, diverse banche americane, tra cui la Goldman Sachs Asset Management, Citigroup e JP Morgan, gestivano 500 milioni di dollari per conto del fondo LIA; possedeva il 24% della società di esplorazione per gas e petrolio Circle Oil. (1) Per diventare una potenza, le mancavano una popolazione numerosa e forti armamenti. La facilità con cui questo paese è stato riportato a una condizione di degradazione dovrebbe far riflettere coloro che teorizzano l’irreversibilità del processo anticoloniale.
Qualche giornalista ha messo in rilievo il carattere fantozziano dello sbarco di Al Sarraj: la motovedetta, partita dalla Tunisia, con la scorta della marina militare dei principali paesi d’occidente, è finita in panne, e i ministri sono sbarcati su gommoni nella base militare di Abu Settah.
I membri del governo di Khalifa Gweil a Tunisi hanno capito subito che dietro il burattino Sarraj non c’erano soltanto Gentiloni e Martin Kobler, ma anche la flotta americana, quindi hanno preferito tagliare la corda, e alcuni di loro trattano per riciclarsi nel nuovo regime.
Alle potenze, comunque, non interessa che i libici si ammazzino, vogliono il controllo sui pozzi, sui gasdotti e oleodotti, sui porti, sugli istituti finanziari. Al tempo di Gheddafi, la banca centrale, che aveva 130 miliardi di depositi in valuta e oro, pagava gli stipendi a un milione e mezzo di dipendenti dello stato, su 6 milioni di abitanti della Libia. Il proletariato vero e proprio era composto soprattutto di immigrati dell’Africa nera, messi in fuga o sterminati, dopo la caduta del rais, con la falsa accusa di essere mercenari. La Banca centrale libica ha continuato a ricevere i fondi dalle compagnie petrolifere, a cominciare dall’ENI, e a finanziare le circa 200 milizie e relativi signori della guerra in lotta fra loro.(2) Questo poteva reggere finché si produceva petrolio e gas e li si vendeva; ma la produzione di greggio, risalita nel 2014 a un milione di barili al giorno, è in seguito crollata a 400.000 barili. L’imperialismo può tollerare i massacri, non i disastri economici. Gli attacchi di jihadisti di origine diversa, riciclatisi come ISIS, a pozzi e terminali, rischiano di uccidere la gallina dalle uova d’oro. Questo spiega l’intervento e l’adesione di più fazioni locali al nuovo governo. Tramite il loro Quisling Al Sarraj, le potenze hanno preso il controllo della Banca di Libia, dei due fondi Sovrani (LIA e LAIAM) e dell’Ente petrolifero libico (NOC). Nessuno s’illuda sul significato dell’adesione di alcune città al nuovo governo, della disponibilità della Guardia addetta al controllo dei siti petroliferi a riaprire i tre porti di Es Sider, Ras Lanuf e Zueitin. (3) Si tratta solo di riprendere la produzione, ma la lotta per la divisione del bottino continua. Manca il voto di Tobruk, il parlamento riconosciuto dall’ONU, ma una risoluzione delle Nazioni Unite ha stabilito che, non potendosi riunire il parlamento per impedimenti di tipo militare, è sufficiente la dichiarazione di 101 parlamentari di voler esprimere un voto ( se un sì o un no, non importa). La creatività nel campo giuridico è veramente straordinaria, non c’è anguilla che possa competere in flessibilità con l’ONU, quando si tratta di eseguire gli ordini del padrone. E’ anche un segno del discredito in cui sono cadute le istituzioni parlamentari.
E l’ENI, il vero artefice della politica italiana in Libia? A proteggere le installazioni dell’ENI di Melilla, da dove parte il gasdotto sottomarino per Gela, nonché l’ambasciata italiana di Tripoli fino alla chiusura, c’era la Milizia Fayr, vicina ideologicamente ( e non solo) ai jihadisti. Mentre i sapientoni del governo ciarlano di guida italiana della spedizione libica, l’ENI si deve far proteggere da una milizia. Se le alleanze cambiano, i tecnici italiani eventualmente rimasti in Libia corrono il rischio di essere venduti all’asta a bande di malfattori a caccia di riscatto. A questo si è ridotto l’imperialismo italiano.
Nell’ipotesi migliore, il nuovo governo avrà la funzione di una struttura finanziaria, che cercherà di barcamenarsi nel caos libico, favorendo alcuni gruppi, che avranno armi e denaro, contro altri. D’altra parte, a che cosa si sta riducendo la stessa UE, dopo il crollo della retorica europeista, se non a una struttura finanziaria, che appoggia gli stati forti e ricatta quelli deboli? La Grecia ne sa qualcosa.
E’ probabile che Serraj erediti la vecchia ostilità del governo di Khalifa Gwell, anche perché, come spiega l’esperto di studi strategici Arduino Paniccia, è legato alla Fratellanza Musulmana e ad Erdogan: “ La strategia occidentale di appoggiare Serraj, uomo legato alla Fratellanza Musulmana e quindi a doppio filo al leader turco Erdogan (che considera apertamente la Libia un proprio “protettorato”) è già risultata fallimentare a suo tempo in Egitto con la vicenda di Morsi. Continuiamo quindi, Europei e Americani, a sperare che nel Mediterraneo il lavoro sporco sia fatto dalla Turchia. Ma potrebbe essere un’illusione. La Turchia ha già fallito in Egitto e in Siria, dove non è riuscita, nonostante l’abbattimento dell’aereo russo, a trascinare in guerra americani e sauditi contro Putin. L’Italia è quindi avvertita: è giusta la cautela su un intervento militare in Libia, ma ancor più indispensabile è verificare che la Turchia non solo millanti capacità che non ha, ma ci porti a sostenere un pericoloso neo autoritarismo mediterraneo.” (4)
Serraj si troverà contro, nei fatti, il generale Haftar e l’Egitto, che potranno anche riconoscere formalmente il suo governo, ma non rinunceranno certo a rendergli la vita difficile. Intanto, con l’aiuto di forze speciali inglesi e francesi, che agiscono fuori da ogni legittimazione internazionale, Al Haftar sta cercando di conquistare Bengasi.
All’interno dell’imperialismo, c’è conflittualità tra l’Italia, che ha dovuto rinunciare alla condizione di favore che aveva con Gheddafi, impegnandosi in una guerra autolesionista nel 2011, e Inghilterra e Francia. Si parla di una divisione della sfera d’influenza: all’Italia la Tripolitania, la Cirenaica alla Gran Bretagna, il Fezzan alla Francia. Bisogna vedere se i due imperialismi più forti si accontenteranno, e, soprattutto, cosa deciderà Washington. Il ministro degli Esteri francese Ayrault, rivolgendosi alla comunità internazionale, ha chiesto di preparare al più presto il supporto militare all’esecutivo del premier al-Sarraj. Hollande ha bisogno di un’avventura militare come pretesto per soffocare le lotte sociali all’interno. Il suo interventismo lo porterà inevitabilmente a una sconfitta irreparabile, ed Obama lo asseconderà e lo inciterà fino al disastro, eliminando così un concorrente.
Quanto alla situazione libica, si aggraverà ulteriormente.
I lavoratori e i comunisti devono seguire con estrema attenzione la situazione, ma non cadere nella trappola del fronte comune con la borghesia, in nome di un presunti interessi comuni. Il capitale, ormai, non ci può dare altro che guerre o paci infami, e in entrambi i casi la lotta di classe non si deve interrompere, con nessun pretesto.
Note
1) Luca Troiano, “Anatomia dei fondi sovrani libici”, Geopoliticamente
4 marzo 2011.
2)Marco Palombo, “Libia, una guerra civile finanziata anche dall’ENI”, www.lecorvettedellelba.blobspot.it
3) Libia nel caos, scontri a Tripoli: spari sul governo voluto dall’Onu
file:///mondo/libia-nuovo-governo-caos-scontri-tripoli.html
4) “Libia, mamma li turchi. Ancora una volta gli USA hanno scelto un leader musulmano controverso”. Prof. Arduino Paniccia, Direttore ASCE – Scuola di Competizione Economica Internazionale di Venezia e Docente di Studi Strategici Affari italiani, 2 aprile 2016.
Preso da: http://www.linterferenza.info/esteri/libia-nessuno-silluda/
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