Roma - Due governi in Libia, due ambasciatori a Roma: uno psicodramma diplomatico,
con l’aggravante che ventisei ragazzini iscritti alla scuola libica in
Italia sono stati espulsi e intere famiglie sono dovute tornare in
patria.
Storia complicata. Il 4 dicembre 2014 il governo di Tobruk,
riconosciuto dalla comunità internazionale, informa il nostro ministero
degli Esteri che l’ambasciatore a Roma non è più Ahmed Safar ma Ezzedine Al Awami,
con il grado provvisorio di «incaricato d’affari». Safar è stato
nominato sette mesi prima, quando la Libia era ancora un Paese
relativamente unito, ed è sospettato di simpatie eccessive verso il
governo di Tripoli che la comunità internazionale non riconosce ma
l’Italia, anche se informalmente, sì: per tutelare i propri interessi
economici legati a petrolio e gas, per arginare o illudersi di farlo
l’immigrazione via mare, persino per difendersi dalla malevolenza dei
fondamentalisti islamici. Tra l’altro i quattro dipendenti dell’azienda
di montaggi industriali Bonatti, rapiti a luglio, sono sempre in mani
ignote ma sicuramente prigionieri nel deserto della Tripolitania.Forte di queste ragioni, la Farnesina continua a considerare il deposto ambasciatore come ancora in carica, e ad Al Awami non è restato che trasferire i propri uffici presso la Santa Sede. Naturalmente è stato presentato un ricorso d’urgenza al Tribunale di Roma, con incarico all’avvocato Fabio Valerini di difendere «la dignità calpestata dello Stato libico».
Putiferio inevitabile. Il capo del cerimoniale diplomatico della Repubblica, Riccardo Guariglia, riconosce di fronte al Tribunale di aver ricevuto la «revoca» di Safar e la «nomina» di Al Awani, ma aggiunge che «alla menzionata comunicazione non è stato ancora dato seguito». Perché? Cosa significa, ci si chiede al processo? Guariglia produce un altro documento dove spiega che «la nomina del dottor Al Awami è stata accettata da parte italiana solo in qualità di agente diplomatico e non di incaricato d’affari...».
E tuttavia la Convenzione di Vienna, contesta l’avvocato Valerini, «esclude qualsiasi potere discrezionale dello Stato, in questo caso italiano, in ordine alla decisione di revocare un ambasciatore straniero».
C’è di più. Safar, ieri cercato invano dal Secolo XIX, avrebbe obbligato il direttore della scuola libica a Roma, Khalid Bin Omran, a espellere ventisei allievi. I genitori hanno sporto denuncia ai carabinieri, stazione Nomentana, e indirizzato una lettera di fuoco al ministero degli Affari esteri: «Quello che sta accadendo è inaccettabile, specialmente in un Paese sovrano e democratico come l’Italia dove il diritto all’istruzione, garantito dalla legge, è anche tra i diritti umani fondamentali e nella Costituzione».
Molti degli allievi espulsi sono stati ospitati dalla scuola dell’Arabia Saudita, «ma i programmi non sono certo gli stessi»; altri hanno dovuto far ritorno in patria con i genitori, dipendenti dell’ambasciata rimasti senza lavoro; altri ancora sono in attesa di eventi, e intanto non possono andare a scuola.
La Farnesina ovviamente non commenta, troppo delicata la situazione. E se qualcuno ironizza sulla molto ambigua tradizione italiana in politica estera (il dibattito parlamentare sulla partecipazione alla grande guerra è uno sconvolgente spaccato delle miserie umane nazionali, con interventi a favore di questo o quello schieramento dettati unicamente dalle convenienze) è vero che stavolta è in corso un negoziato delicatissimo. Prima decidano i libici, si mormora nell’entourage del ministro Gentiloni. Bene attento a non fare passi falsi che pregiudichino gli interessi del Paese sull’ex quarta sponda.
Preso da: http://www.ilsecoloxix.it/p/italia/2015/11/27/ASE3OjZ-italia_ambasciatori_rebus.shtml
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