Il conflitto in Libia ripropone sulla
scena internazionale l’importanza di un quadrante geopolitico, quale
quello nordafricano, di per sé non scindibile dalle dinamiche che
attengono ai delicati equilibri internazionali. Eppure, esso non è solo
parte delle fibrillazioni in atto sulle sponde del Mediterraneo e nella
vasta area arabo-mussulmana fino al Golfo Persico.
La guerra di Libia è un’altra guerra d’Africa. Geograficamente, ma ancor di più strategicamente.
La Libia non solo come tassello del
mondo arabo, ma come pedina importante negli assetti del Continente
Nero. La valenza del confronto bellico non è più misurabile
esclusivamente sulla base delle relazioni intercorrenti sull’asse
Sud-Sud del Mediterraneo, delle connessioni storiche e politiche che
concernono le vicende post-coloniali tra il Nord Africa e i Paesi
europei, USA ed Israele. Ciò perché è mutato il contesto internazionale,
ma anche in ragione del riposizionamento geopolitico, occorso da più di
un decennio, della Libia stessa.
Il Colonnello Muammar Gheddafi, nella
sua lunga parabola al potere – tra successi ed insuccessi, errori e
fallimenti – ha condotto una politica estera regionale essenzialmente
identificabile in maniera duale, cioè araba ed africana. Il nesso di
questa doppia identità risiede nel forte carattere anticolonialista e
antioccidentale (ma non per questo esule da pragmatici ed opportunistici
compromessi e cambi di direzione) che ha senza dubbio segnato la storia
personale del leader libico nonché quella delle numerose realtà sotto
tale profilo affini a quella libica.
Dalla presa del comando in quell’ormai
lontano 1969, Gheddafi ha innanzitutto marcato notevolmente la
proiezione esterna della Libia in senso interarabo, attraverso reiterati
tentativi di saldare aspirazioni – lungo una linea di rivendicazioni,
di idealità e di progetti – che avevano del resto animato gran parte
delle classi dirigenti arabe.
Pur nella sua specificità
politico-religiosa, il Colonnello per un tempo ha incarnato l’obiettivo
nasseriano dell’unificazione della grande patria araba dall’Atlantico al
Golfo Persico, della restituzione ai palestinesi della propria terra e,
in più, del riscatto africano dall’opprimente fantasma del
colonialismo. Ma l’attivismo libico è stato velleitario al pari di
quello degli altri Paesi arabi, incapaci di strutturare una realtà
politica che materializzasse effettivamente principi ed obiettivi
dell’unità e del socialismo panarabi. E’ stato un susseguirsi di accordi
in larga parte infruttuosi, raggiunti a più riprese e separatamente in
forma bilaterale o trilaterale, tra Libia ed Egitto, Siria, Sudan, Ciad,
Tunisia, Algeria, Marocco, fino all’ultimo vano tentativo, nel 1989,
dell’Unione del Maghreb.
Preso atto del fallimento di una vasta
prospettiva araba e dell’indebolimento della leadership libica, il Rais
saprà però cogliere progressivamente l’importanza del passaggio epocale
segnato dalla caduta del Muro e dalla fine dell’Unione sovietica.
Intento a rimodellare il suo raggio
d’azione, Gheddafi rivedrà, da un lato, le relazioni con i Paesi
occidentali e ricollocherà, dall’altro, geopoliticamente la Libia,
questa volta ponendo in primo piano il continente africano, con un
conseguente ridimensionamento dell’opzione politico-ideologica
interaraba.
Possono distinguersi due fasi della politica africana della Libia.
La prima, dal 1969 al 1989, è
imperniata su tre fattori quali la politica anticolonialista, il
contrasto all’apartheid ed il sostegno (comunque circoscritto) alla
diffusione dell’Islam. A questi si aggiungono tre caratteristiche
identificabili nel tentativo di contenimento dell’influenza israeliana
(in specie nel fascia sub-sahariana); nella composizione di un impianto
ideologico in senso sia anticapitalista che anticomunista; nella
possibilità di un avvicinamento tattico ai sovietici, considerati gli
obiettivi di quest’ultimi nel continente.
Gheddafi in questo periodo si inserirà
in contrasti locali e lotte di liberazione nel tentativo di
destabilizzare regimi legati all’emisfero politico occidentale.
Condizionamento e pressione esercitati grazie anche alla leva
economico-finanziaria, in virtù delle ingenti risorse maturate dalla
vendita del petrolio che hanno consentito sostanziosi accordi bilaterali
e multilaterali, tali da determinare un rilevante peso specifico libico
nei settori dell’industria e del commercio.
La seconda fase segna il nuovo
corso africano della Libia. E’ quello che si inaugura alla luce di
quattro fattori preponderanti quali il dissolvimento del blocco
sovietico, l’ascesa dell’islamismo radicale, la fine dell’economia
pianificata (nonché una revisione del ruolo dei “rentier state”), la
nuova importanza strategica dell’Africa dopo l’11 settembre.
In siffatto contesto, il Colonnello
immagina la “via africana” come strumento di allargamento della sfera di
influenza, nuova fonte di legittimazione, valido mercato di sbocco e
fertile terreno di penetrazione economica. Tre sono sostanzialmente i
canali geoeconomici libici: società commerciali, prestiti e fondi
sovrani. Di assoluta rilevanza è la Lybian Investment Authority (LIA),
il fondo sovrano (che include le partecipazioni di almeno 31 Paesi
africani) intorno al quale ruotano la Lybian Arab Foreign Bank (LAFB),
la Lybian Arab African Investment Company (LAAICO), la Lybian Arab
Foreign Investment Company (LAFICO).
Una fitta rete di investimenti e di
partecipazioni nei settori finanziario e industriale lega la Libia a
numerosi Paesi. Ciad, Gabon, Guinea Bissau, Kenya, Mali, Niger,
Repubblica Centrafricana, Rwanda, Sudafrica, Sudan, Uganda, Zimbabwe
sono le pedine di una strategia degli affari inevitabilmente foriera di
risvolti politici. In tal senso, la stessa Unione Africana (Ua) è stata
negli ultimi anni un soggetto cui Gheddafi in primis ha cercato
di conferire un peso ed una valenza che consentissero al Continente
Nero di mostrarsi un attore assertivo e in grado di fronteggiare i
mutamenti in corso e le nuove contese di cui è oggetto.
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