Libia: Bengasi in fiamme
(15 Maggio 2013)
Sallum è un colabrodo. Prima che la polizia di frontiera libica riprendesse il controllo del confine, ogni traffico e contrabbando hanno attraversato questa linea immaginaria che divide il deserto egiziano da quello libico. Qui l’esplosione che nel parcheggio dell’ospedale di Bengasi lunedì ha ucciso 15 persone, ne ha ferite 30 e ha distrutto edifici e negozi, non ha sorpreso nessuno. «Sono pronto ad attraversare il confine per lavorare sei mesi e partire per l’Italia», ci spiega Abdallah, diciannovenne profugo sudanese che domani tenterà di passare dall’altro lato. «Che in Libia ci sia ogni tipo di armi, non mi stupisce, non ho mai visto quantità così ingenti di sigarette, droga, vetture rubate, ogni sorta di abbigliamento arrivare nelle mani di chiunque come negli ultimi due anni», aggiunge Taher, seduto ad un minuscolo caffè della grande piazza di Sallum. «All’improvviso chi non aveva alcuna legittimità sociale si è trovato a poter comprare terreni e costruire case», prosegue. «E i beduini del villaggio di Eddin continuano ancora oggi nei contrabbandi. Sono pronti a pagare se esponenti della loro famiglia vengono rapiti per liberarli», chiarisce Taher. Da Bengasi a Sallum e fino a Marsa Matruh, quindici ore di microbus verso Alessandria d’Egitto, è un via vai continuo di uomini in galabeya (lunga tunica bianca). Hanno un accento libico pronunciato o vengono dalle tribù beduine, con forti influenze salafite. Spesso arrivano in Egitto per usare il denaro che hanno guadagnato in Libia. Queste terre hanno attraversato due rivolte, gli incendi dei palazzi pubblici delle proteste anti-Mubarak, di cui sono ancora evidenti i segni, e le migliaia di esuli della guerrilla libica.
Ora sono tutti armati fino ai denti, dai capi tribù ai giovani libici e egiziani. E perché non dovrebbero? Qui l’incertezza sembra non avere fine. Proprio ieri, per il deteriorarsi delle condizioni di sicurezza, gli Stati uniti hanno spostato forze militari dalla Spagna alla base di Sigonella. «Questo per noi vuol dire guerra. L’intenzione verbale è di evitare che si ripeta l’attacco al consolato di Bengasi dello scorso settembre, ma credo che (gli Stati uniti, ndr) siano pronti a tutto», garantisce sheikh Mahmoud di Sallum. Che la Libia sia al centro della politica estera americana in Medio oriente lo conferma lo scontro tra democratici e repubblicani che si sta consumando a Washington. Il diplomatico dell’ambasciata statunitense, Gregory Hicks, nei giorni scorsi aveva assicurato in un’audizione al Congresso che proprio quel mancato intervento aveva impedito di salvare la vita dell’ambasciatore Stevens e degli altri tre americani uccisi nell’attentato di Bengasi.
Il gravissimo errore strategico dello scorso settembre è costato gravi critiche all’amministrazione Obama. Secondo l’Intelligence americana, responsabile dell’attacco fu il gruppo Ansar al-Sharia, legato al terrorismo internazionale di Qaeda. Ma l’ambasciatore degli Stati uniti alle Nazioni unite, Susan Rice, raccontò in una prima ricostruzione, come Stevens fosse rimasto vittima della reazione della popolazione di un film, prodotto negli Stati uniti e lesivo della religione islamica, che stava diffondendo reazioni violente in tutto il mondo arabo. Obama ha però difeso i funzionari nel mirino degli investigatori. «Il giorno dopo quanto avvenuto (a Bengasi, ndr) ho riconosciuto che si era trattato di un atto terroristico», ha ribadito Obama.
Intanto, la Libia si prepara a nuove tensioni. Il Congresso nazionale ha annullato la riunione prevista ieri a Tripoli. E così tutti i parlamentari hanno potuto partecipare ai funerali delle vittime dell’attentato di lunedì a Bengasi. Il primo ministro Ali Zeidan e il presidente del Congresso nazionale Mohammed al-Magariaf hanno assicurato che l’esplosione e attacchi precedenti non sono prevedibili e che le forze di sicurezza non sono state in grado di rafforzare le misure per prevenirli. L’esercito libico ha chiesto così alle milizie armate di unirsi al ministero degli Interni per garantire la sicurezza nel paese. A conferma del deteriorarsi della situazione sul campo, la British petroleum (Bp) ha ritirato dalla Libia parte del suo personale non essenziale, in seguito ad indicazioni in questo senso ricevute dal governo britannico. Il ministero degli Esteri inglese aveva già disposto il ritiro di parte dello staff dell’ambasciata britannica a Tripoli.
Giuseppe Acconcia - ilmanifesto.it
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