Quanto sta accadendo in Venezuela
dovrebbe avere un che di comico se non ci fossero in ballo milioni di
vite umane. Un signore di una Camera elettiva esautorata da un anno e
mezzo convoca una manifestazione di piazza in una data simbolo
dell’indipendenza dall’oppressione e dalla dittatura per autoproclamarsi presidente della Repubblica, senza elezioni senza mandato senza appoggio popolare.
Immaginandola
in Italia la scena vedrebbe l’ex presidente del Senato (seconda carica
istituzionale della nazione) Grasso che, non riconoscendo le ultime
elezioni legislative del 4 marzo 2018, si autoproclama, nel corso di un
evento pubblico, presidente ad interim in attesa di nuove elezioni
magari il 10 febbraio negando, da oppositore politico, la tragedia delle
Foibe. L’aspetto comico c’è, a renderlo drammatico sono gli interessi occidentali in quel Paese.
La
strategia statunitense, che la si appoggi o meno, è evidente.
Restaurato il rapporto conflittuale con l’Iran in Medio Oriente e
accontentato Israele con il passaggio dell’Ambasciata a stelle e strisce da Tel Aviv a Gerusalemme, sopita la questione nordcoreana
in attesa di sviluppi che non porteranno ad alcuna novità rilevante,
l’attacco principale è indirizzato all’America Latina. Il cortile di
casa della Dottrina Monroe è diventato un mare pieno di
ostacoli e, a differenza, di quello che sostengono molti “esperti” è
tutt’altro che nuovamente in linea con i dettati economici degli Usa.
Per un Brasile che abbandona il socialismo progressista di Lula e Rousseff c’è un Messico che abbraccia per la prima volta il populismo di sinistra,
per un Ecuador che dichiara guerra alla Rivoluzione cittadina di Correa
tramite suoi stessi ex esponenti di primo piano c’è un Costa Rica che
dà credito al socialismo al governo per un nuovo mandato.
Baluardi
della resistenza agli Usa restano i Paesi ALBA e allora poco importa
che alla presidenza ci sia un democratico (come dimenticare l’ultimo
atto di Obama in politica estera che inseriva il Venezuela tra gli Stati
che rappresentavano una minaccia per la sicurezza nazionale) o un
repubblicano apparentemente lontano dalle stanze del potere. Le scelte
di Trump alla segreteria di Stato chiariscono immediatamente la
posizione del presidente populista, stavolta perfettamente in linea con chi aveva giurato di combattere nel corso della campagna elettorale.
La scelta ricade prima sull’ex amministratore delegato di ExxonMobil Rex Tillerson,
già soggetto principale nei contenziosi tra la multinazionale e il
Venezuela bolivariano, e poi sul falco Mike Pompeo che ha
definitivamente messo il governo del presidente Maduro in cima alla
lista dei cattivi. Gli interessi statunitensi non si fermano al solo
Venezuela ma riguardano anche un suo stretto alleato: il Nicaragua.
Quello
stesso Nicaragua in cui negli anni Ottanta era presente la falsa
guerriglia dei Contras, finanziati e formati dal governo di Ronald
Reagan in funzione anti-sandinista. Ora che il presidente Ortega, oltre
ad allearsi con Venezuela e Cuba, ha stretto i rapporti commerciali con la Cina,
tanto da immaginare il progetto di un secondo canale che unisca i due
Oceani sorgono come funghi oppositori armati che invocano una
“rivoluzione colorata” (qualcosa di già visto in un’altra parte del
globo). Petrolio, Cina e Russia ecco i veri argomenti della crisi
venezuelana e nicaraguanse.
Gli Usa
sentono cedere il terreno sotto i propri piedi e come una bestia ferita
rischiano di scagliare un ultimo attacco a paesi sovrani e indipendenti
in nome della guerra commerciale alla Cina e
nell’ottica di confermare la supremazia in ambito regionale sulla Russia
di Vladimir Putin. La promessa trumpiana dell’isolazionismo è durata
davvero poco.
(di Luca Lezzi)
Nessun commento:
Posta un commento