Emanuele Rossi, 6 gennaio 2017
La prossima settimana, scrive la Stampa, il ministro degli Interni italiano Marco Minniti sarà a Tripoli per incontri con il Consiglio presidenziale, ossia il proto-governo sostenuto dall’Onu e guidato dal wannabe premier Fayez Serraj.
Il motivo della visita sarà cercare una soluzione sui flussi migratori
che tagliano il Mediterraneo dal Nordafrica, partenza preferenziale la
Libia appunto, e che rappresentano un’enorme crisi umanitaria, in
termini di vite giornalmente perse durante la traversata e di difficoltà
di risposte dell’Italia nel gestire l’accoglienza. Il piano è prevedere
dei cuscinetti nel sud del paese in modo tale da filtrare il grosso
dell’immigrazione (la maggior parte di coloro che partono dai porti
della Libia non sono libici, infatti, ma vengono dal centro del
continente, dalla Nigeria per esempio). Questo schema, per quanto
teoricamente ineccepibile, trova delle difficoltà pratiche: Serraj, che
da mesi sta cercando di diventare premier chiedendo l’appoggio del
parlamento confinato in Cirenaica, la regione che rappresenta il grosso
dell’opposizione, non controlla il sud della Libia. La regione del
Fezzan è infatti un’area a sé stante rispetto al resto del paese, dove
vigono leggi tribali e dove anche le contrapposizioni del nord costiero
sono assorbite dagli interessi locali.
LA CRISI DI SERRAJ
Inoltre, Serraj è in crisi di identità: la sua rappresentanza è
debole, nonostante sia spinta dall’esterno, ossia dall’appoggio dell’Onu
e dell’Europa (con l’Italia in prima fila) e finora anche degli Stati
Uniti; si scrive “finora” perché non è chiaro quello che sarà in futuro,
quando Donald Trump prenderà pieni poteri alla Casa
Bianca. Il programma politico di risoluzione della crisi interna
studiato e forzato dall’Onu con l’insediamento nella primavera scorsa di
Serraj a Tripoli è in stallo da mesi. E contemporaneamente il rivale di
quel programma (che va sotto l’acronimo di Lpa, accordo politico
libico, e che dovrebbe portare alla formazione del Gna, il governo di
accordo nazionale), il generale Khalifa Haftar, ha
guadagnato spazio e consenso, ricevendo un appoggio non più troppo
coperto dalla Russia; oltre che quello già esistente di Egitto e Emirati
Arabi e prendendo il controllo dei terminal petroliferi (che sotto la
sua gestione hanno aumentato le produzioni).
I MESSAGGI DI HAFTAR ALL’ITALIA
Due giorni fa Haftar è stato intervistato da Lorenzo Cremonesi del Corriere della Sera.
Il generale che detiene il controllo militare della Cirenaica secondo
uno schema che potremmo assimilare a quello del suo amico egiziano Abdel Fattah al Sisi,
ha detto al più importante giornale italiano che Roma sulla Libia “s’è
schierata dalla parte sbagliata”, ossia con Serraj e non con lui. Il
giorno successivo sulla Stampa il ministro degli Esteri Angelino Alfano ha dovuto precisare che
l’Italia “non ha fatto una scelta a favore di qualcuno”, ma ha
appoggiato il processo Onu; sebbene il suo stesso predecessore,
l’attuale premier Paolo Gentiloni, è uno dei principali
referenti internazionale di Serraj, al punto che lo Stato islamico lo
ha ripreso un paio di volte in video-messaggi propagandistici in cui
Roma, l’amica di Serraj, veniva indicata in cima agli obiettivi
usando la sua faccia. Alfano ha anche precisato a proposito di una
questione precisa: Haftar al Corsera aveva lamentato che
l’Italia non aveva fornito assistenza medica ai suoi uomini che lottano
contro infiltrazioni dell’IS nell’area di Bengasi, mentre ha inviato una
missione di 300 uomini all’ospedale di Misurata per assistere i
combattenti delle milizie pro-Serraj che hanno scacciato il Califfato da
Sirte. Dice Alfano che invece un aereo di soccorso sarebbe dovuto
partire verso Benina (la base aerea di Bengasi), ma tutto era stato
bloccato per “espressa richiesta” del vice presidente e rappresentante
di Haftar al Consiglio presidenziale, Ali Gatrani.
ARMI, PIÙ CHE MEDICI
Haftar ha usato la richiesta di aiuti medici per arrivare al punto
che lui ritiene fondamentale: la rimozione dell’embargo sulle armi. Il
generale dice che si aspetta aiuti da tutti per combattere l’IS, ma sa
di avere un partner preferenziale. L’embargo è stato imposto nel 2011
dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, e lì, tra i membri
permanenti Haftar ha l’appoggio della Russia: “Putin si impegna per
cancellarlo” ha detto Haftar. È molto probabile stante agli indizi
emersi in questi ultimi mesi che Vladimir Putin stia
pensando di applicare alla Libia una sorta di “modello-Siria”, ossia
dare l’appoggio a un uomo forte con la scusa di combattere il terrorismo
e con l’obiettivo strategico di ampliare la propria influenza, in
questo caso nel Mediterraneo centrale (step applicativi: sostegno non
esplicito, consulenza sul campo, pianificazione, intervento più aperto e
appoggio militare e politico-diplomatico). Per dire, questo già avviene
in maniera più soft che in Siria con Sisi in Egitto, dove il
generale/presidente/despota ha una situazione molto più stabilizzata ma
ha necessità di un partner forte per sostenere la guerra alle
infiltrazioni terroristiche nel Sinai e a quelle della Fratellanza
(equiparate con l’accetta del regime), oltre che ricevere sostegno vista
la crisi economica: e in cambio Mosca otterrebbe l’uso della base
navale di Sidi Barrani e un’opzione per una pista aerea. Haftar potrebbe
mettere sul piatto Bengasi e Benina, oltre che l’influenza in Libia.
IL MODELLO-SIRIA
Dell’applicazione del modello-Siria pare si sia discusso in diverse
riunioni confidenziali a Mosca tenute da Haftar e da suoi rappresentati (Agila Saleh,
la controparte politica e presidente del parlamento eletto esiliatosi
a Tobruk che non sta votando l’avallo politico a Serraj; e Abdul Basit al Badri,
ambasciatore libico in Arabia Saudita, tra i link di Haftar al
Cremlino). Viaggi e incontri che si sono moltiplicati durante l’estate e
fino a un mese fa, quando a novembre sarebbero arrivati già dei
consiglieri militari russi in Cirenaica, mandati intanto con il compito
di provvedere all’aggiornamento degli apparati militari di Haftar
(altri, invece, fanno base al Cairo, e si spostano su richiesta). Haftar
avrebbe già pronto un tesoretto da investire in armi russe, e magari
potrebbero essere i dinari che la Goznak, azienda statale russa, ha stampato a maggio
in violazione delle stabilità imposta dall’Onu a maggio per rimpinguare
le casse della non ufficiale banca centrale di Beida, ossia dell’Est
libico. A dare fiducia Putin, l’effetto positivo (in fin dei conti)
avuto in Siria.
L’EMBARGO E IL CDS
L’eliminazione dell’embargo sarebbe in effetti un game changer nel
conflitto libico, che aprirebbe al rischio di un’escalation delle
tensioni: al Corsera il generale ha detto per due volte che le
milizie di Misurata sono alleate dell’IS, affermazione contorta, se si
pensa che sono stati proprio i misuratini a condurre l’offensiva che ha
liberato Sirte. Però nell’ottica di Haftar chiunque non è con lui è
contro di lui, e per semplificare viene definito un terrorista (la
visione è simile a quella dei rais in Egitto e Siria). Per capirci: su
Serraj dice che “il problema non è lui, bensì le persone che gli stanno
attorno. Se intende davvero lottare per pacificare il Paese, impugni il
fucile e si unisca ai nostri ranghi”. Da Misurata, i sostenitori di
Serraj detestano altrettanto Haftar, e il rischio scontri è altissimo (e
in parte già iniziato, anche se in sordina), con la capitolazione della
crisi in guerra civile. La situazione torna ancora vicinissima
all’Italia e non solo geograficamente: Roma dall’inizio dell’anno è
membro del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ossia avrà voce in capitolo
se eventuali passaggi che riguardano l’embargo militare dovessero
arrivare sul tavolo. In tutto questo, la linea italiana finora ha
trovato solido appoggio negli Stati Uniti, ma Washington sta cambiando e
i segnali sembrano portare verso Mosca.
Preso da: http://formiche.net/2017/01/06/italia-libia-haftar-russia/
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