“Cambiare tutto per non cambiare nulla”, fa dire Tomasi di Lampedusa al protagonista de “Il Gattopardo”. E rimane sempre la parola d’ordine del potere e del dominio.
di Sonia Savioli - 13 Ottobre 2016
Negli anni Cinquanta i meridionali emigravano al nord. Dalla Sicilia, dalla Calabria e dalla Puglia salivano in Piemonte e in Lombardia, le regioni industrializzate del nostro paese, dove li aspettavano le grandi fabbriche siderurgiche, chimiche, manifatturiere. Giù c’erano la mafia, il latifondo, il caporalato; non c’erano scuole, trasporti pubblici, diritti.
Negli
anni Sessanta i paesi del meridione italico si erano ormai svuotati di
quasi tutti i giovani maschi, di una buona parte delle giovani donne e
di gran parte dei maschi di mezza età. Restavano i vecchi, i bambini,
una parte delle donne. Tutti, meridionali e settentrionali, quelli in
grado di pensare, sapevamo che l’emigrazione era una condanna senza
appello per il meridione, il bengodi per i padroni del nord.
Al
sud restavano comunità inermi, svuotate delle loro forze migliori,
nutrite come parassiti dalle rimesse degli emigrati. Nessuno più in
grado di lottare, organizzarsi, rivendicare diritti, ribellarsi ai
soprusi, prendere iniziative.
Al
nord i milioni di giovani immigrati erano carne da macello per i
“carovanieri”, riserve inesauribili di mano d’opera ricattabile per gli
industriali.
Tutti,
al sud come al nord, sapevamo che l’emigrazione era la conseguenza
dell’ingiustizia sociale, dello sfruttamento senza regole e limiti;
sapevamo anche, senza ombra di dubbio, che si trattava di un disastro
sociale, in primo luogo per i paesi abbandonati dagli emigranti.
Se
non fu un disastro anche per il nord, in quegli anni, si deve dire
grazie alla forza di un sindacato di classe (che oggi non c’è più) e di
un partito di classe (che oggi non c’è più). La CGIL e il PCI, in tempi
di espansione capitalistica, crescita dell’industria e dei consumi,
riuscirono a far crescere anche la coscienza politica di quei giovani
meridionali, e con essa le lotte operaie e le conquiste dei lavoratori.
Che ormai da decenni stiamo perdendo una ad una.
L’emigrazione
di oggi, dai paesi africani, asiatici, latinoamericani, verso i paesi
dominatori, ha le stesse cause più qualche altra causa difficile da
individuare ma che si può cercare di immaginare: gli interessi mafiosi
che si aggiungono ai “tradizionali” interessi capitalistici.
Come
nell’Ottocento e nel secondo dopoguerra, il capitalismo industriale in
crescita aveva bisogno di svuotare le campagne e riempire le fabbriche,
così oggi il capitalismo globale al collasso ha bisogno di svuotare
nazioni e continenti “difficili” per riempire l’Occidente di manodopera a
bassissimo costo. Perché un’altra cosa che sapevamo, prima che l’era
della (dis)informazione ci rendesse de-menti, è che, quando l’offerta di
una merce è superiore alla domanda, il suo prezzo crolla.
E
anche la forza-lavoro, cioè la manodopera, cioè uomini e donne in età e
in forze per lavorare, nell’economia capitalistica sono merce.
Una
merce oggi in offerta speciale, non solo perché troppo abbondante e del
tutto disorganizzata ma anche perché, mentre negli anni cinquanta la
produzione e i consumi si espandevano, oggi si stanno contraendo. E non
poteva essere diversamente, visto che la loro espansione è stata
abnorme, mentre la competizione sfrenata insita nell’economia
capitalista procede inevitabilmente verso la distruzione dei
“consumatori”. Che, prima di essere consumatori, devono essere
lavoratori ben retribuiti. Cosa possono “consumare” altrimenti?
Tuttavia,
di fronte alla contrazione del mercato, la competizione capitalistica
per aumentare i profitti non si ferma, tutt’altro. L’immigrazione di
massa nei paesi ricchi è la sua nuova frontiera. Dopo aver spostato la
produzione nei paesi dominati, per sfruttare all’inverosimile una
manodopera schiavizzata e composta anche di bambini, oggi il capitalismo
globale tenta di trasferire direttamente la manodopera (da
schiavizzare) nei paesi ricchi, quelli cioè dove si consumano le merci
prodotte.
Gli
stessi interessi che hanno trasferito all’estero la produzione, ora
stanno trasferendo nelle loro aree gli schiavi. Senza neanche pagare le
spese di viaggio, anzi guadagnando dal viaggio degli schiavi.
Il
capitalismo evoluto del terzo millennio pensa che, avendo manodopera
schiavizzata “in loco”, risparmierà anche sulle spese di trasporto
delle merci, pensa di creare nuovi “consumatori” o, se non altro, nuovi
pagatori di tasse che poi finiranno nelle sue tasche come finanziamenti
di ogni tipo; pensa che così anche le merci e i servizi prodotti in
Occidente potranno avere lo stesso costo del lavoro di quelle prodotte
in Bangladesh o in Cina.
Questo
è lo scopo principale per cui l’Europa “importa” quelli che chiama
furbescamente “profughi” o “rifugiati”, dato che le parole “emigranti” e
“immigrati” sarebbero troppo rivelatrici. Questo è il motivo per cui i
governi europei parlano di “accoglienza”, l’ineffabile Obama li invita
ad “accogliere”, i tiranni si travestono da benefattori in attesa del
prossimo pasto. Ed è questo il motivo per cui, nei paesi da cui
provengono gli emigranti, c’è chi si occupa di far credere loro che qui
li aspetterà un buon lavoro sicuro: ci sono gli “ingaggiatori”, come
c’erano nelle campagne e nelle montagne italiane nei primi del
novecento.
Inoltre oggi gli ingaggiatori sono aiutati da una rete pubblicitaria palese e occulta, che vuole far credere le stesse cose.
Sugli
interessi più vasti e convergenti del capitalismo globale (le sue
guerre e le sue rapine dislocano milioni di persone, cacciandole dalle
loro case e dalle loro terre e contribuendo così alla “produzione
eccedente” di manodopera), si innestano poi felicemente quelli delle
mafie locali e internazionali. Ogni emigrante rende di viaggio alcune
migliaia di euri, senza contare il serbatoio di traffico di organi e
pedopornografia su cui nessuno avrà interesse a indagare.
Effetto
ultimo e gradito (dal capitalismo globale) dell’emigrazione di massa:
come per il meridione degli anni sessanta, i paesi degli emigranti si
svuotano delle loro forze umane migliori, quelle più giovani ed
energiche, le uniche da cui poteva venire la lotta, l’organizzazione, il
riscatto.
Gli
emigranti sono dunque merce per l’osceno finale di un’epoca di dominio.
Sono il progresso che avanza come un bulldozer su un’umanità inerme o
inebetita.
Eppure
siamo in molti a vedere con una certa dose di lucidità quello che sta
succedendo, le cause e le conseguenze. Siamo in molti a lottare
localmente per i giusti obiettivi. Quello che da tempo non ci riesce più
è fare rete, unirci per lottare globalmente, per fare anche noi
campagne mondiali coinvolgendo popoli e associazioni diverse e di
diversi paesi, unendo il nord e del sud del mondo.
Dobbiamo
ricucire quella rete dei popoli e degli scopi che ha fatto tanta paura
ai potentati economici mondiali quando si è presentata sulla scena, alla
fine del millennio passato.
Addio a voi e alla giovinezza che ho trascorso con voi
…Avete cantato per me nella solitudine, e con i vostri desideri
ho costruito una torre in cielo…
Se ancora una volta ci incontreremo nel crepuscolo
della memoria
parleremo nuovamente insieme, e intonerete per me
un canto ancora più profondo.
E se le nostre mani s’incontreranno in un altro sogno,
costruiremo un’altra torre nel cielo
(Khalil Gibran)
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