Oumma, 3 ottobre 2019 (trad.ossin)
1949-2019. Come i comunisti cinesi hanno tirato fuori la Cina dal sottosviluppo
Bruno Guigue
I media occidentali possono anche tentare
di occultare questa evidenza, ma salta comunque agli occhi: la Cina ha
realizzato in 70 anni quel che nessun altro paese è riuscito a fare in
due secoli. Nel festeggiare l’anniversario della Repubblica Popolare
Cinese, proclamata da Mao Zedong il 1° ottobre 1949, i Cinesi conoscono
la situazione del loro paese. Ma sanno anche in che stato si trovava nel
1949. Devastato da decenni di guerra civile e di invasione straniera,
era un campo di rovine.
«La Cina di prima del 1949», ricorda
Alain Peyrefitte, «era un paese del Medio Evo, (..) un pullulare di
mendicanti coi moncherini, di bambini coperti di piaghe, maiali neri e
cani scheletrici; stracci tra i quali si aggirava qualche broccato.
Quando gli elementi si scatenavano, la carestia spazzava via tutto. I
contadini erano comunque rovinati; in caso di siccità o inondazioni, non
disponevano di alcuna riserva» (Quando la Cina si sveglierà, il mondo
tremerà, 1973, T. 2, p. 85).
Il paese era poverissimo, rappresentava
solo una parte infinitesimale del PIL mondiale, mentre ne aveva
rappresentato il 30% nel 1820, prima che il declino della dinastia Qing e
l’arrivo delle potenze occidentali predatrici, cui si unì ben preso il
Giappone, rovinassero questa prosperità. Devastati dalla guerra, dighe e
canali erano fatiscenti. Priva di manutenzione, la rete ferroviaria era
in uno stato pietoso. Riuscendo a stento a nutrire il mondo rurale,
l’agricoltura languiva.
Composta per il 90% di contadini
affamati, la popolazione aveva il livello di vita più basso del pianeta:
inferiore a quello dell’India post-britannica e dell’Africa
sub-sahariana. Su questa terra dove l’esistenza era appesa a un filo, la
speranza di vita si collocava tra i 36 e i 40 anni. Abbandonata
nell’ignoranza, nonostante la ricchezza di una civiltà plurimillenaria,
la popolazione cinese contava un 80% di analfabeti.
Oggi, l’economia cinese rappresenta il
18% del PIL mondiale a parità di potere di acquisto, e, nel 2014, ha
superato l’economia statunitense. La Cina è la prima potenza
esportatrice mondiale. La sua potenza industriale è doppia rispetto a
quella degli Stati Uniti e quattro volte quella del Giappone. Per
contro, l’indebitamento globale del paese (quello pubblico e quello
privato) è inferiore a quello degli Stati Uniti (250% contro 360%) e il
debito estero è modesto.
Prima potenza creditrice, la Cina detiene
le maggiori riserve di valuta estera del mondo (3 trilioni di dollari).
Primo partner commerciale di 130 paesi, ha contribuito per il 30% alla
crescita mondiale negli ultimi dieci anni. La Cina è il primo produttore
mondiale di acciaio, cemento, alluminio, riso, grano e patate. Con 400
milioni di persone, la classe media cinese è la più importante del
mondo, e 140 milioni di Cinesi sono stati in vacanza all’estero nel
2018.
Questo sviluppo economico ha migliorato
le condizioni di esistenza materiale dei Cinesi in modo spettacolare. La
speranza di vita è passata da 40 a 64 anni durante la presidenza di Mao
(dal 1950 al 1975) e si avvicina oggi ai 77 anni (contro 82 anni in
Francia, 80 anni a Cuba, 79 anni negli USA e 68 anni in India). Il tasso
di mortalità infantile è del 7‰, contro il 30‰ dell’India, il 6‰ degli
Stati Uniti, il 4,5‰ di Cuba e il 3,5‰ della Francia. L’analfabetismo è
stato quasi del tutto sradicato. Il tasso di scolarizzazione è del 98,9%
nella primaria e del 94,1% nella secondaria.
Ancora più significativo, il tasso di
povertà, secondo la Banca Mondiale, è passato dal 95% nel 1980 al 17%
nel 2010 e al 3,1% nel 2017. Xi Jinping ne ha promesso la cancellazione
per il 2020. Secondo Branko Milanovic, ex-economista capo alla Banca
Mondiale, la formazione di un’enorme classe media in Cina è la
principale causa della riduzione delle diseguaglianze nel mondo tra il
1988 e il 2008. In venti anni, 700 milioni di persone sono state
sottratte alla povertà. Il salario medio si è raddoppiato, soprattutto
per effetto delle lotte operaie, e le imprese straniere hanno cominciato
a delocalizzare le loro attività, alla ricerca di una mano d’opera meno
cara.
Una delle questioni fondamentali che si
pongono ai paesi in via di sviluppo è quella dell’accesso alle
tecnologia moderne. La Cina di Mao ha in un primo tempo beneficiato
dell’aiuto dell’URSS, venuto meno nel 1960 a causa dello scisma
sino-sovietico. E’ stato per risolvere questo problema cruciale che Deng
Xiaoping ha lanciato nel 1979 la progressiva apertura dell’economia
cinese ai capitali esteri: in cambio dei profitti realizzati in Cina, le
imprese straniere avrebbero trasferito tecnologia alle imprese cinesi.
In 40 anni i Cinesi hanno assimilato le
tecnologie più sofisticate, e l’allievo ha superato il maestro! Oggi la
quota cinese di imprese ad alta tecnologia tocca il 28% del totale
mondiale e supererà gli Stati Uniti nel 2021. Vero è che la Cina dispone
di risorse umane considerevoli. Manda 550 000 studenti all’estero e ne
riceve 400 000. Con 80 tecnopoli, è il numero uno mondiale per numero di
laureati in scienze, tecnologia e ingegneria, e ne forma quattro volte
più degli Stati Uniti.
Questa svolta tecnologica del gigante
cinese va oramai di pari passo con la transizione ecologica. Firmataria
dell’Accordo di Parigi sul clima, la Cina è il primo investitore
mondiale nelle energie rinnovabili. Possiede il 60% dei pannelli solari e
il 50% degli impianti eolici del pianeta. Il 99% dei bus elettrici in
servizio nel mondo sono fabbricati in Cina. Il 50% dei suoi veicoli sono
elettrici e ne fabbrica tre volte di più degli Stati Uniti.
La Cina ha anche la rete ferroviaria ad
alta velocità più grande del mondo (30 000 km) e si propone di
estenderla a 40 000 km. L’azienda pubblica cinese CRRC è il numero uno
mondiale nella costruzione di TAV: produce 200 treni all’anno e lavora
per 80 paesi. Infine la Cina ha intrapreso la più grande operazione di
rimboschimento del pianeta (35 milioni di ettari). Prendendo sul serio
il disastroso inquinamento atmosferico nella regione di Pechino, è
riuscita a ridurre del 50% le emissioni di particelle tossiche in cinque
anni.
Questo spettacolare sviluppo della
Repubblica Popolare cinese è il risultato di 70 anni di sforzi titanici.
Per riuscirci, i Cinesi hanno inventato un sistema socio-politico
originale, ma che le categorie in uso in Occidente non riescono a
descrivere in modo razionale. Lungi dall’essere una «dittatura
totalitaria», infatti, è un sistema neo-imperiale, la cui legittimità si
fonda sul miglioramento delle condizioni di vita del popolo cinese.
Organismo dirigente del paese dal 1949,
il Partito comunista cimese sa che la minima deviazione oltre la linea
del miglioramento collettivo sarebbe incompresa e provocherebbe la sua
caduta. Abituati a pensare che la democrazia si esaurisca nel rituale
elettorale, gli Occidentali non comprendono questo sistema. D’altronde
molti di loro non si avvedono nemmeno che nella loro «democrazia» i
presidenti vengono designati dalle banche, mentre in Cina le banche
obbediscono al presidente.
Per dirigere lo sviluppo del paese, i
comunisti cinesi hanno costruito un’economia mista pilotata da uno Stato
forte. Il suo obiettivo prioritario è la crescita che, dopo le riforme
del 1979, si fonda sulla modernizzazione delle imprese pubbliche che
dominano i settori chiave, la costituzione di un potente settore
privato, il ricorso ai capitali stranieri e il trasferimento di
tecnologia proveniente dai paesi più avanzati. Al contrario di quanto si
dice talvolta, è stato lo stesso Mao Zedong ad avviare questo processo
nel 1972, quando ha ristabilito le relazioni con gli Stati Uniti.
Per sviluppare il paese bisognava
accarezzare il diavolo ! E’ evidente che i comunisti cinesi hanno
imparato a farlo. Ma questo avvicinamento economico e tattico con
l’Occidente capitalista, questo «compromesso acrobatico» preso
giustamente di mira da alcuni marxisti, era un mezzo e non un fine. Pur
giustificando l’apertura economica, Jiang Zemin ha ricordato nel 1997
che la Cina non perdeva di vista l’obiettivo dell’edificazione del
socialismo. E’ la ragione per la quale è lo Stato a dover dirigere lo
sviluppo, la proprietà pubblica deve restare dominante e il settore
finanziario restare sotto stretto controllo.
Due secoli fa, la Cina era ancora la
fabbrica del mondo. Peggiorando le sue condizioni interne,
l’imperialismo occidentale distrusse il decadente impero manciù. Le
guerre del XX secolo, a loro volta, piombarono il paese nel caos. Agli
occhi dei Cinesi, la Repubblica popolare di Cina ha il merito di avere
posto fine a quel lungo secolo di miseria e di umiliazione cominciato
nel 1840 con le «guerre dell’oppio». Liberata e riunificata da Mao, la
Cina si è avviata lungo la stretta via dello sviluppo. Povera in modo
oggi inimmaginabile, isolata e priva di risorse, ha esplorato strade
sconosciute e tentato, col maoismo, di trasformare radicalmente la
società.
Più precisamente, il maoismo si
caratterizza per il tentativo, riprendendo la terminologia marxista, di
accelerare lo sviluppo delle forze produttive puntando sulla
trasformazione rivoluzionaria dei rapporti sociali. In altri termini, di
generalizzare la lotta delle classi all’interno del paese per
consolidare il socialismo. Questo volontarismo ha avuto effetti
positivi, contribuendo a diffondere l’istruzione, ma ha fallito come
elemento di stimolo dell’economia. In netto contrasto con la crescita
demografica dovuta al miglioramento dell’assistenza sanitaria, il crollo
della produzione agricola ha provocato il disastro del «Grande Balzo in
avanti», che fu responsabile, insieme alle condizioni climatiche e
all’embargo occidentale, dell’ultima carestia che vi è stata in Cina
(1959-1961).
Con la Rivoluzione Culturale, il cui
punto culminante fu toccato nel 1966-68, Mao e le Guardie Rosse decisero
di mobilitare nuovamente le masse, ma contro lo stesso partito per
impedirgli di «restaurare il capitalismo» e dare vita ad un
«revisionismo» di tipo sovietico. Questa rivoluzione nella rivoluzione
ha rapidamente raggiunto i suoi limiti. Coltivando l’effervescenza
ideologica di una gioventù fanatizzata, ha dato luogo a violenze inutili
e a distruzioni che ostacolavano lo sforzo di sviluppo. Girando a
vuoto, questa agitazione ha generato un caos che esigeva fosse fermato, e
l’Esercito Popolare di Liberazione si incaricò di farlo.
In una risoluzione adottata nel 1982, il
Partito comunista cinese formulò un giudizio severo su questa esperienza
storica, definita una «sbandata estremista», ed avviò progressivamente
delle riforme. Marxista a suo modo, il «socialismo dai caratteri cinesi»
elaborato nel 1997 si basa sull’idea che lo sviluppo delle forze
produttive è la condizione indispensabile per la trasformazione dei
rapporti sociali e non l’inverso.
Come ha scritto Jean-Claude Delaunay, «la
rivoluzione fu concepita dai fondatori del marxismo come un frutto da
cogliere quando è maturo, ma per questo occorre che il frutteto sia ben
fornito». Ma, per i comunisti cinesi, la rivoluzione è piuttosto «il
frutto di un frutteto che bisogna prima coltivare, poi accrescere e solo
allora cogliere». (Les trajectoires chinoises de modernisation et de
développement, 2018, p. 283). Insomma, il socialismo non è il
pauperismo! E per impegnarsi nella trasformazione dei rapporti sociali
bisogna prima assicurare un certo livello di sviluppo delle forze
produttive.
Dopo avere liberato e riunificato il
paese, abolito il patriarcato, realizzato la riforma agraria, avviato
l’industrializzazione, dotato la Cina di un ombrello nucleare, sradicato
l’analfabetismo, donato ai Cinesi 24 anni di speranza di vita in più,
ma anche commesso errori dei quali il popolo cinese ha tratto un
bilancio, il maoismo ha passato di mano dopo 25 anni di governo
(1950-1975). I suoi successori hanno allora tenuto conto delle
inflessioni internazionali e tratto vantaggi dalla mondializzazione, ma
senza mai mollare il timone. Forti degli insegnamenti del passato, i
Cinesi hanno moltiplicato il loro PIL, industrializzato il paese, vinto
la povertà, elevato il livello scientifico e tecnologico del paese in
modo inedito.
L’esperienza storica della Repubblica
popolare cinese è unica: è il successo di una strategia di uscita dal
sottosviluppo ad una scala senza precedenti, e sotto la direzione
esclusiva di un partito comunista. Certamente restano immensi problemi
(invecchiamento della popolazione), i paradossi incredibili (un
socialismo nel capitalismo), le fragilità innegabili (flessione della
crescita). Ma la Cina del 2019 intende andare avanti. Vuole costruire
una «società di fluidità media», sviluppare il mercato interno,
promuovere la transizione. Bisognerà farsene una ragione: decisa a
chiudere la parentesi della dominazione occidentale, la Cina aspira a
riprendere il posto che le spetta.
Ossin pubblica articoli che considera onesti, intelligenti e ben documentati. Ciò non significa che ne condivida necessariamente il contenuto. Solo, ne ritiene utile la lettura
Preso da: https://www.ossin.org/reportage-dal-mondo/reportage-estremo-oriente/56-cina2/2541-1949-2019-come-i-comunisti-cinesi-hanno-tirato-fuori-la-cina-dal-sottosviluppo
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RispondiEliminagiusto per la precisione.