di Ken Loach e Lorenzo Marsili – 21 agosto 2018
Il regista cinematografico britannico Ken Loach è una delle voci più
celebrate del cinema del nostro tempo. Un artista profondamente
impegnato e uno di un pugno di registi a essere insignito due volte
della prestigiosa Palma d’Oro. Il lavoro di Loach affronta spesso temi
sociali e politici. La sua opera ha attraversato la guerra civile
spagnola (Terra e Libertà), lo sciopero degli addetti alle pulizie di Los Angeles (Pane e Rose), l’occupazione dell’Iraq (L’Altra Verità), la guerra d’indipendenza irlandese (Il vento che accarezza l’erba) e il lato coercitivo dello stato sociale (Io, Daniel Blake).
Mentre la cosiddetta “rivolta populista” ha innescato un grande
dibattito sul ruolo delle disuguaglianze economiche e dell’esclusione
sociale, Ken Loach è stato uno dei più grandi narratori della coscienza
della classe lavoratrice e delle sue trasformazioni sotto il
neoliberismo.
In questa conversazione con il giornalista e attivista politico
italiano Lorenzo Marsili, Loach guarda al ruolo dell’arte in momenti di
trasformazione politica, all’evoluzione della classe lavoratrice, al
significato oggi della lotta di classe e al fallimento della sinistra
nell’ispirare un cambiamento radicale.
L’intervista è stata registrata durante le riprese di DEMOS,
un documentario di prossima uscita nel quale Lorenzo Marsili percorre
l’Europa indagando la solidarietà internazionale dieci anni dopo la
crisi finanziaria.
Lorenzo Marsili: Il dibattito sul ruolo dell’arte nel
cambiamento politico ha una lunga storia. Oggi stiamo chiaramente
attraversando un momento di grande trasformazione geopolitica e di
disorientamento globale. Qual è la sua visione del ruolo che la
creatività può avere in un momento simile?
Ken Loach: In generale penso che nell’arte ci sia
solo la responsabilità di dire la verità. Qualsiasi frase che cominci
con “l’arte dovrebbe…” è sbagliata, perché si basa sull’immaginazione o
la percezione di persone che scrivono o dipingono o descrivono o
svolgono quelli che sono i diversi ruoli dell’arte. Dobbiamo affermare i
principi fondamentali di modi attraverso i quali le persone possano
vivere insieme. Il ruolo degli scrittori, degli intellettuali e degli
artisti sta nel considerare questi come i principi chiave. Questa è la
visione lunga della storia, della lotta, così anche se si deve fare una
ritirata tattica è importante essere cosciente che resta una ritirata e i
principi chiave sono quelli che dobbiamo tenere in mente. Questo è
qualcosa che possono fare le persone che non sono coinvolte nelle
tattiche giorno per giorno.
LM: Nel suo lavoro l’elemento umano non è meramente
un’illustrazione della teoria, ma incarna realmente e diviene l’elemento
politico. Sarebbe d’accordo che l’arte ha il potere di mostrare che,
alla fin fine, ci sono esseri umani dietro i grandi processi economici e
politici?
KL: Assolutamente. La politica vive nelle persone,
le idee vivono nelle persone, vivono nelle lotte concrete che le persone
conducono. Determina anche le scelte che abbiamo e le scelte che
abbiamo, a loro volta, determinano il genere di persone che diventiamo.
Il modo in cui le famiglie interagiscono non è un qualche concetto
astratto di madre, figlio, padre, figlia: ha a che fare con le
circostanze economiche, il lavoro che fanno, il tempo che possono
passare insieme. L’economia e la politica sono collegate al contesto in
cui le persone vivono le loro vite, ma i dettagli di quelli vite sono
molto umani, spesso molto divertenti o molti tristi e in generale pieni
di contraddizioni e complessità. Per gli scrittori con i quali ho
collaborato e per me, il rapporto tra la commedia della vita quotidiana e
il contesto economico in cui quella vita ha luogo è sempre stato molto
significativo.
LM: Dunque c’è un rapporto dialettico tra il modo in cui
l’economia trasforma il comportamento umano e il modo in cui il
comportamento umano, specialmente attraverso l’azione collettiva,
trasforma le relazioni economiche.
KL: Prenda una persona che lavora. La famiglia di
lui o di lei funziona o cerca di funzionare, ma individualmente non
hanno forza perché non hanno potere. Sono semplicemente una creatura di
quella situazione. Ma io penso davvero che il senso di forza collettiva
sia qualcosa di molto importante. E’ qui che cominciano le difficoltà.
Non è facile raccontare una storia in cui la forza collettiva sia
immediatamente evidente. D’altro canto è spesso rozzo e sciocco
terminare ogni film con un pugno chiuso in aria e un appello militante
all’azione. Questo è un dilemma costante: come si fa a raccontare la
storia di una famiglia della classe lavoratrice, tragicamente distrutta
dalle circostanze economiche e politiche, e non lasciare la gente nella
disperazione?
LM: Una cosa che io trovo dare speranza persino in un film tetro come Io, Daniel Blake è
che vediamo l’apparato coercitivo dello stato, ma vediamo anche la
resilienza di una certa solidarietà umana: i poveri si aiutano tra loro e
la gente si ferma ad applaudire quando Daniel Blake scrive un graffito
feroce fuori dal centro per l’impiego. Suggerisce che non siamo stati
interamente trasformati in homo economicus: che c’è ancora resistenza contro la mercificazione della vita.
KL: Sì, questo è qualcosa che i commentatori della
classe media non colgono: i lavoratori … sono presi in giro anche se
ridono. Nelle trincee la storia è più amara ed è lì che vediamo la
resistenza, anche nei luoghi più bui. Ma in particolare abbiamo avuto
questa crescita dei banchi alimentari dove è offerto cibo per
beneficienza e si vedono i due volti pubblici della nostra società. In Io, Daniel Blake
quando la donna consegna il pacchetto di cibo a una donna che non ha
nulla, non dice “Ecco il tuo cibo caritatevole”, ma dice invece “Posso
aiutarti con la spesa?” Da un lato c’è quella generosità e dall’altra
c’è lo stato che si comporta nel modo più consapevolmente crudele,
sapendo che sta spingendo la gente alla fame. La società capitalista è
colta in questa situazione schizofrenica e sta a noi organizzare la
solidarietà.
LM: Spesso sembra che quella tradizionale alienazione
economica si sia trasformata in un’alienazione nei confronti dello
stato. Pensa che questo sia al centro di fenomeni come l’ascesa del
nazionalismo, della xenofobia, persino della Brexit? Oltre a rendere
capri espiatori i migranti c’è forte anche questa sensazione che “non
c’è nessuno che mi difenda”.
KL: Sì, penso in effetti che il clima che il
populismo di destra indica è un fallimento della sinistra… in modo
simile agli anni ’20 e ’30. I partiti di destra si presentano con una
risposta semplicissima: il problema è il tuo vicino, il tuo vicino è di
colore diverso, il tuo vicino cucina cibo che ha un odore diverso, il
tuo vicino ti sta rubando il lavoro, il tuo vicino è dentro casa tua. Il
pericolo è che questo è appoggiato dalla stampa di massa, tollerato e
promosso da emittenti come la BBC che, ad esempio, ha dato a Nigel
Farage e ai suoi compagni tutto il tempo in onda che volevano.
LM: Il centro del suo lavoro è sempre stato la solidarietà
della classe lavoratrice. Lei ha vissuto la transizione dal capitalismo
sociale postbellico all’arrivo del neoliberismo. Come ha visto
trasformarsi la solidarietà di classe in questo periodo?
KL: La cosa maggiore è stata la riduzione del potere
dei sindacati. Negli anni ’50 e ’60 erano divenuti forti perché le
persone lavoravano in organizzazioni sociali come fabbriche, miniere o
moli e a quel punto era più facile organizzare sindacati. Ma quelle
vecchie industrie sono morte. Oggi la gente lavora in un modo molto più
frammentato. Siamo più forti quando possiamo fermare la produzione, ma
se non siamo organizzati sul punto di produzione, siamo decisamente più
deboli. Il problema è che oggi la produzione è così frammentata e che
con la globalizzazione la nostra classe lavoratrice oggi e nell’Estremo
Oriente o in America Latina.
LM: I lavoratori in bicicletta a chiamata di Deliveroo o Foodora potrebbero neppur considerarsi dei lavoratori.
KL: Sì, o lavorano in franchising o sono cosiddetti “lavoratori autonomi”. E’ un grosso problema. E’ un problema di organizzazione per la classe lavoratrice.
LM: Pensa che il concetto di classe abbia ancora senso? Molti
non si considererebbero della classe lavoratrice anche se sono poveri e
a volte si sentono decisamente miserabili.
KL: Credo che la classe sia fondamentale. Cambia
semplicemente forma col cambiare delle richieste di una manodopera
diversa da parte del capitale. Ma si tratta ancora di forza lavoro. Ed è
tuttora sfruttata e continua a fornire surplus di valore ancor più
intensamente che in passato. Cosa più importante, se con capiamo la
lotta di classe, non capiamo nulla.
LM: E’ una delle grandi sfide di oggi: riavviare la lotta in
mezzo a una popolazione frammentata che non si concepisce come parte di
un gruppo.
KL: E’ una sfida alla nostra comprensione. E’ stato
molto buffo: recentemente parlavo con alcune persone molto carine in
Giappone che stavano scrivendo un articolo e io insistevo sulla
necessità di capire la classe e il conflitto. Una donna molto carina mi
ha detto: “Mostreremo il suo film ai funzionari del governo giapponese” e
io ho detto “Beh, perché?” e lei ha detto “Beh, per far loro cambiare
idea” e io ho replicato “Ma questo è il punto che ho appena sostenuto!
Non cambieranno idea, sono impegnati a difendere gli interessi della
classe dominante e non vanno persuasi, vanno cacciati!”
E’ un punto molto difficile da superare quando l’idea di far
funzionare il sistema è così profondamente radicata. Questa è una delle
terribili eredità della socialdemocrazia che dobbiamo combattere.
LM: E’ una forma efficace di controllo sociale, quando i tuoi
sottoposti ritengono di poter parlare con te e che tu terrai conto
delle loro preoccupazioni.
KL: E’ per questo che dobbiamo resuscitare l’intera
idea di rivendicazioni di transizione. Dobbiamo avanzare richieste che
siano assolutamente ragionevoli sulla base degli interessi della classe
lavoratrice.
LM: Vorrei arrivare alla conclusione, ma noto che lei una volta ha condotto una campagna a favore del Parlamento Europeo.
KL: Me l’ero dimenticato.
LM: E’ interessante per me come l’Europa non sia mai stata
realmente oggetto di dibattito qui in Gran Bretagna. Improvvisamente,
dopo la Brexit, tutti parlano dell’Unione Europea ed è diventato
l’argomento più dibattuto dopo il calcio. Sente che ci sia ancora
speranza di costruire una democrazia transnazionale o è semplicemente
troppo tardi?
KL: Davvero non conosco la risposta. Ma penso
realmente che la solidarietà internazionale sia chiaramente importante.
Può essere organizzata all’interno dell’Europa? Non lo so. La struttura
dell’Unione Europea è veramente molto complicata; è difficile vedere
come introdurre il cambiamento senza ripartire da zero. Ovviamente ogni
cambiamento deve essere avallato da ogni governo e sappiamo tutti quanto
difficile sia la pratica di tale processo. Chiaramente abbiamo bisogno
di un’Europa diversa, basata su principi diversi: sulla proprietà
comune, la pianificazione, l’allineamento delle economie, la
sostenibilità e in generale lavorando per l’uguaglianza.
Ma semplicemente non possiamo farlo mentre è data priorità alle
grandi imprese, è data priorità al profitto e mentre il sistema legale
dà priorità al profitto. Effettuare tale cambiamento va al di là della
mia competenza. Yanis Varoufakis mi assicura che si può fare. Sono certo
che ha ragione. Ho fiducia in lui, ma non so come.
Lorenzo Marsili è cofondatore di European Alternatives e uno
degli iniziatori del movimento paneuropeo DiEM25. Il suo libro più
recente è ‘Citizens of Nowhere’ (University of Chicago Press, 2018).
Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/if-we-dont-understand-class-struggle-we-dont-understand-anything/
Originale: The Nation
traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2018 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.
Preso da: http://znetitaly.altervista.org/art/25656
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