Khalifa Haftar (LaPresse)
Bene la conferenza di Roma sulla Libia,
però se aspettiamo quella saremo tagliati fuori, dice Fausto Biloslavo,
inviato di guerra del Giornale. Per ora la tregua tra le
milizie sembra reggere, ma non dobbiamo farci illusioni perché "le
variabili sono moltissime: dipende da cos'hanno in mente la Francia, lo
stesso Haftar, l'Egitto, le milizie. Al momento prevale un atteggiamento
di attesa". Perfino Haftar potrebbe non essere l'uomo forte definitivo,
dice Biloslavo; "non è escluso che tocchi a Saif al Islam Gheddafi".
Attesa di che cosa?
Ci sono novità. Oggi (ieri, ndr)
Il parlamento di Tobruk ha approvato la legge che consente di svolgere
il referendum costituzionale. L'Onu si è dichiarato favorevole alle
elezioni, ma è contrario a svolgerle il 10 dicembre come vorrebbe
Parigi. Serve più tempo. E' la posizione di Roma e Washington, che hanno
chiesto che si voti solo in condizioni di sicurezza. Infine c'è la
conferenza di novembre voluta dall'Italia.
Non rischia di essere bruciata dall'evolversi degli eventi?
E' chiaro che di fronte alle
armi il tempo gioca sempre a sfavore. E le armi le hanno tutti, non solo
Haftar, che è l'uomo più forte degli altri ma che non è attualmente in
condizione, con il suo esercito, di imporsi sul resto del paese.
Dunque non è scontato che sia lui a prevalere.
No, affatto. Non è escluso che
rispunti fuori Saif al Islam Gheddafi, che da qualche parte sta
meditando sul da farsi. Non dimentichiamo poi che la cosiddetta Settima
brigata che ha attaccato Tripoli è composta da ex miliziani della
32esima Brigata, detta Brigata Khamis (Khamis Gheddfi, ndr).
E' stato l'Isis ad attaccare la sede della Noc a Tripoli, la compagnia petrolifera nazionale libica. Torna lo stato islamico?
L'Isis non ha più la forza che
aveva ai tempi dell'attacco a Sirte, ma ci sono ancora cellule in giro,
come ci sono miliziani, soprattutto nel Sud, che di tanto in tanto
entrano nel mirino dei droni americani. C'è Ibrahim Jadran, signore
della guerra della mezzaluna petrolifera di Sirte, finito nella lista
nera dell'Onu, che vuole controllare le esportazioni di greggio... Ci
sono tante partite intrecciate.
Serraj ce la farà a rimanere in piedi?
Serraj è traballante e la
situazione va deteriorandosi. Ma non è tutta colpa sua. C'è crisi a
tutti i livelli: non c'è lavoro, ci sono continui blackout elettrici, la
gente fa la fila davanti agli sportelli delle banche. Ai libici non
importa molto di Serraj, chiedono sicurezza e lavoro. Senza risolvere
questi problemi qualunque governo fallirebbe.
Quali carte ha da giocare la politica estera italiana?
I libici devono all'Eni e
all'Italia se l'impianto di Mellitah funziona ancora, se ci sono una
guardia costiera libica e delle forze di sicurezza, e se l'Europa ha
messo mano al portafoglio. Siamo certamente il paese più coinvolto,
questo tutti gli attori libici lo sanno.
Ma il nostro orizzonte qual è?
Quello di un paese unitario e
della sua pacificazione. Non potrebbe essere altrimenti. Quando a
Tripoli arrivò Serraj anch'io pensai, come molti altri, che sarebbero
arrivati presto la disgregazione e gli staterelli, a cominciare da
Misurata che già allora era una città-stato. Però alla fine i vari
gruppi non hanno mai spinto per la secessione.
Come giudichi la gestione del dossier libico da parte dell'attuale governo?
La linea è quella tracciata dal
governo precedente, con in più la fermezza sul dossier migratorio e ora
il dialogo con Haftar. Ma a Tobruk bisognava andarci prima, agire più
tempestivamente, perché la debolezza di Serraj era nota. Moavero aveva
detto di voler andare da Haftar durante la visita al Cairo, e questo è
stato prudente e opportuno, però prima di farlo è passato troppo tempo,
il caos è scoppiato e l'Italia ha dovuto inseguire la situazione. Ci
vorrebbe un ministro degli Esteri più tempestivo, più "Lawrence
d'Arabia".
Le cose da fare subito?
Agire, parlare con tutti gli interlocutori. Va bene preparare la conferenza, ma se aspettiamo quella saremo tagliati fuori.
(Federico Ferraù)
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