6 settembre 2018.
Ex fedelissimi del figlio di Gheddafi, ben armati e molto nervosi,
gli uomini che minacciano Tripoli sembrano non avere rivali sul campo
gli uomini che minacciano Tripoli sembrano non avere rivali sul campo
Ecco
il quartier generale della Settima Brigata, il gruppo armato che da
quasi due settimane sta attaccando Tripoli. A prima vista sembra una
zona di depositi vuoti. C’è un alto muro anonimo dipinto di fresco color
ocra. Le sentinelle sono quasi invisibili. Pochi i passanti. Nessun
problema per arrivarci, si trova nel quartiere di Salahaddin, proprio
nel centro di questa che storicamente è la città-crocevia delle tribù
che sostenevano il regime di Gheddafi. Ci siamo giunti ieri verso le 14
accompagnati dal portavoce della municipalità locale di Tarhuna. E per
fortuna c’era lui. Perché da subito i soldati di guardia sono stati
aggressivi, minacciosi. L’entrata si affaccia ad una viuzza secondaria.
Di fronte sono posteggiati due camion militari carichi di casse. «Cosa
ci fa qui un giornalista italiano?», sibila una sentinella. Due altre
mettono mano alla fondina. «Magari questo ce lo prendiamo», dice in
arabo uno tra i più duri. Ne arrivano altre, vogliono il passaporto.
Parlano tra di loro. Lo stesso portavoce mi consiglia di nasconderlo. Ci
portano in una stanzetta chiusa. Vogliono vedere il permesso di una
qualsiasi autorità, che per fortuna esiste. Abbiamo un accredito
ufficiale. Intanto il mio interprete di Misurata sbianca. «Ma qui siamo
con i vecchi combattenti della 32esima brigata di Khamis Gheddafi!»,
sussurra spaventato. La buona sorte vuole che arrivi anche un ufficiale
più anziano col berretto rosso dei paracadutisti. Ci invita ad andarcene
immediatamente. «Tornate con un permesso speciale», dice frettoloso.
È stata sufficiente una mezzoretta per capire tante cose.
In un attimo ci siamo ritrovati di fronte a quello che per lungo tempo,
sino alla rivoluzione del 2011, è stato il miglior braccio armato del
vecchio regime. Stesse uniformi con i pantaloni attillati e le camice
larghe, stessi modi di fare ""bruschi, aggressivi,"
---- e si se non parli male di Gheddafi non puoi scrivere.----- stesse capigliature
scarmigliate e barbe malfatte. Soldati ben addestrati, magri, nervosi,
muscolosi, i coltelli alla vita. Nulla a che vedere con l’aria
trasandata, per nulla marziale delle milizie legate alla rivoluzione. Ce
lo aveva ben raccontato più volte durante le nostre interviste Khalifa
Haftar, l’uomo forte della Cirenaica che era stato alto ufficiale di
Gheddafi: «Con me stanno arruolandosi i militari del vecchio esercito
libico. Non ci saranno più milizie, non più caos, solo un nuovo esercito
unito rinato dalle ceneri del vecchio che obbedisce ad un’unica
autorità centrale». Ed infatti eccoli qui: erano di Gheddafi e adesso
combattono per Haftar. Ai tempi di Khamis erano 10 mila, il fiore
all’occhiello delle forze della Jamariah. Oggi sono circa 7.000. Come
allora vengono da Bani Walid, Sirte, Tawargha, Tarhuna, Tripoli, Zintan.
Con loro sono le tribù più fedeli: Warshafanna, Gheddafi, Warfallah…
Nomi noti, sembra di ripercorrere le tappe della lotta contro la
rivoluzione. Sette anni fa avrebbero certamente fatto a pezzi le
rivolte: addestrati, disciplinati, con cecchini ottimi. Mentre i ribelli
sprecavano tonnellate di munizioni, loro sparavano precisi, metodici.
Attaccarono Bengasi, accerchiarono Misurata, si lanciarono contro i
quartieri di Tripoli che protestavano. Già a metà marzo 2011 sarebbe
bastato molto poco per tornare al vecchio status quo precedente il 17
febbraio. Gli uomini di Khamis stavano facendo il loro dovere. Ma
intervenne la Nato, con i suoi jet sofisticati, i radar, le bombe ad
alta precisione, i satelliti e i missili intelligenti. Le milizie
ribelli rimasero a guardare, mentre le forze straniere combattevano per
loro. Ogni volta che venivano lasciate sole, venivano battute. Ma in
realtà la 32esima Brigata venne fatta a pezzi dall’aria. Subì forse
oltre 8 mila morti, si disse. Però sono dati che vanno verificati, la
propaganda allora falsificava fatti e numeri.
Che fine ha fatto Khamis? Aveva 28 anni, era l’ultimo
figlio dei sette di Gheddafi, ma anche il più combattivo, il più
militante. Almeno quattro volte venne dato per morto dai ribelli.
L’ultima mentre scappava in un’auto colpita forse da un missile a fine
agosto 2011. Ma in verità non si sa. Che sia invece qui, dietro il
recinto di questa caserma, a preparare la riscossa? «Certo è che, se
questi uomini vincono, sarà il trionfo delle vendette», temono a
Misurata. Perché non ci sono dubbi: la Settima Brigata non ha avversari
degni di questo nome, la sua potenza militare è superiore. E oggi non ci
sarà la Nato o chiunque altro a difendere le vecchie milizie della
rivoluzione, il loro fallimento è scritto sui muri. Il premier Sarraj
non ha i mezzi per contrattaccare.
I membri del Consiglio municipale di Tarhuna
si muovono cauti. Tutto sommato la loro città è stata tra le meno
danneggiate delle pro-Gheddafi e vorrebbero evitare che venga investita
dai nuovi combattimenti. Sulla strada che la collega alla costa ci sono
le caserme chiuse della «17 Febbraio», la milizia di Misurata che più li
ha combattuti. Le strade sono abbastanza pulite, in un paio di fontane
zampilla persino l’acqua, la corrente elettrica funziona una media di 18
ore al giorno, contro le 4 di Tripoli. Sirte 300 chilometri a est è
largamente devastata. E Bani Walid, un’ottantina di chilometri più a
sud, venne messa a ferro e fuoco. «Per quattro anni ai nostri 225 mila
abitanti si sono aggiunti oltre 100 mila sfollati dalle regioni fedeli a
Gheddafi», ammette Khalifa Mabruk, tra i più senior del Consiglio. Oggi
i loro problemi si chiamano scarsità di benzina, carenza di gas da
cucina, acqua potabile ridotta. Dice Mabruk: «La comunità internazionale
dovrebbe aiutarci, qui le cose potrebbero andare molto peggio, prima di
un eventuale miglioramento».
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