Giordano Stabile 3 luglio 2017
Roma - C’è anche una
disperata corsa all’oro dietro il caos nel Sud della Libia e nei Paesi
confinanti che spinge centinaia di migliaia di migranti verso le coste
del Mediterraneo. La corsa è iniziata poco prima dell’inizio della
guerra civile, nel 2011, ma col collasso dello Stato libico ha
creato un calderone dove si mischiano milizie jihadiste, trafficanti e
cercatori che inseguono una ricchezza impossibile nel deserto.
E che quando la vena si
esaurisce si ritrovano senza mezzi, cibo, acqua in città fantasma sorte
dal nulla. Conflitti tribali e lotta per l’arricchimento hanno creato
una terra di nessuno che abbraccia la Libia meridionale, il Nord del
Ciad e del Niger, l’Est del Sudan, il Darfur. Sono
tutte regioni investite da guerre civili e che hanno anche altri due
fattori in comune: il dominio dei Tebu, una popolazione africana in
continuo attrito con le tribù arabe e Tuareg, e la presenza di centinaia
di piccole miniere d’oro che attirano immigrati dai Paesi dell’Africa
nera confinante.
Con il collasso della Libia, e
in parte anche di Sudan, Ciad e Niger, la gestione del territorio è
passata alle tribù Tebu, che non conoscono confini e gestiscono i
traffici. L’oro viene esportato attraverso le stesse rotte dei trafficanti di uomini e di armi,
verso Nord, i porti libici e poi in Europa. Le «città dell’oro», sorte
dal nulla, arrivano a contare anche 10 mila abitanti, ma spariscono
quando la vena si esaurisce e i cercatori allo sbando alimentano le
colonne di migranti.
Le miniere del Ciad
Il boom delle scoperte si è avuto fra il 2011 e il 2013, soprattutto nel Tibesti, l’estrema regione settentrionale del Ciad. Ma i mezzi per sostentare i cercatori arrivano dalla Libia: cibo, generatori per la corrente elettrica, gasolio, metal detector, mercurio per separare la sabbia dall’oro, piccole escavatrici. Due grandi gruppi dei Tebu, i Teda e i Dazagada, spesso in lotta fra loro, si contendono il business e forniscono parte dei minatori, anche se la maggior parte sono nigeriani e maliani.
Il boom delle scoperte si è avuto fra il 2011 e il 2013, soprattutto nel Tibesti, l’estrema regione settentrionale del Ciad. Ma i mezzi per sostentare i cercatori arrivano dalla Libia: cibo, generatori per la corrente elettrica, gasolio, metal detector, mercurio per separare la sabbia dall’oro, piccole escavatrici. Due grandi gruppi dei Tebu, i Teda e i Dazagada, spesso in lotta fra loro, si contendono il business e forniscono parte dei minatori, anche se la maggior parte sono nigeriani e maliani.
Ma le tensioni fra le diverse
tribù hanno portato a stragi silenziose nel deserto. Una delle crisi
peggiori è avvenuta nell’estate del 2015, quando il flusso di
rifornimenti si è improvvisamente interrotto nell’area di Kori Bokadi, a cavallo fra Libia e Ciad.
Diecimila cercatori sono rimasti senza acqua nel giro di pochi giorni,
con scorte di «bibite e succhi di frutta», e hanno lanciato appelli
attraverso le radio locali, alcune sudanesi. La maggior parte alla fine è
stata soccorsa a partire dal Sudan ma non si sa quanti sono morti di
sete.
Il ruolo dei mercenari
Altri cercatori vengono uccisi dai residuati bellici: la zona è disseminata di mine anti-uomo, per via della guerra fra Ciad e Libia, durata dal 1973 al 1994. Le conseguenze si sentono ancora oggi. I Tebu, soprattutto ciadiani, appoggiano le milizie della Tripolitania contro il generale Khalifa Haftar, considerato l’erede di Gheddafi: almeno 1000 mercenari a maggio hanno partecipato al massacro dei militari di Haftar nella base aerea di Albouyusuf vicino a Sebha, nel Fezzan.
Altri cercatori vengono uccisi dai residuati bellici: la zona è disseminata di mine anti-uomo, per via della guerra fra Ciad e Libia, durata dal 1973 al 1994. Le conseguenze si sentono ancora oggi. I Tebu, soprattutto ciadiani, appoggiano le milizie della Tripolitania contro il generale Khalifa Haftar, considerato l’erede di Gheddafi: almeno 1000 mercenari a maggio hanno partecipato al massacro dei militari di Haftar nella base aerea di Albouyusuf vicino a Sebha, nel Fezzan.
Altri 1500 mercenari,
provenienti da tribù sudanesi ostili ai Tebu, sono andati invece a
rafforzare le file dell’esercito del generale. Ciadiani e sudanesi sono
schierati ora gli uni contro gli altri nella zona dell’oasi di Jufra,
una tappa della marcia di Haftar verso Tripoli. I traffici di
armi, migranti, e oro, servono anche ad alimentare queste milizie e
all’acquisto di equipaggiamento militare. Ma soprattutto hanno fatto
saltare le frontiere fra gli Stati nel Sahel orientale. Sono le tribù
Tebu a gestire entrate e uscite.
L’assenza degli Stati
È la tappa finale di un processo cominciato con la guerra fra la Libia di Gheddafi e il Ciad, che si è poi trasformato in guerra tribale fra Tuareg, Tebu e popolazioni africane. I migranti che arrivano da Nigeria, Mali, Burkina Faso sono attratti nella trappola delle miniere d’oro. I soldi ricavati non bastano a coprire le spese di cibo, acqua e macchinari. Nel giro di pochi mesi finiscono nella mani delle milizie o dei trafficanti. Il fattore «oro» è stato sottolineato anche in un rapporto del Centro studi Small arms surveys, dal titolo «Tebu Trouble». «La crisi libica - puntualizza il rapporto - e la presenza di gruppi jihadisti non può essere risolta solo da un intervento militare o dal dispiegamento di soldati occidentali su confini porosi e di fatto inesistenti». Occorre riportare la presenza degli Stati locali, Libia, Ciad, Niger, nelle regioni remote e «non solo militarmente ma con servizi e sviluppo».
È la tappa finale di un processo cominciato con la guerra fra la Libia di Gheddafi e il Ciad, che si è poi trasformato in guerra tribale fra Tuareg, Tebu e popolazioni africane. I migranti che arrivano da Nigeria, Mali, Burkina Faso sono attratti nella trappola delle miniere d’oro. I soldi ricavati non bastano a coprire le spese di cibo, acqua e macchinari. Nel giro di pochi mesi finiscono nella mani delle milizie o dei trafficanti. Il fattore «oro» è stato sottolineato anche in un rapporto del Centro studi Small arms surveys, dal titolo «Tebu Trouble». «La crisi libica - puntualizza il rapporto - e la presenza di gruppi jihadisti non può essere risolta solo da un intervento militare o dal dispiegamento di soldati occidentali su confini porosi e di fatto inesistenti». Occorre riportare la presenza degli Stati locali, Libia, Ciad, Niger, nelle regioni remote e «non solo militarmente ma con servizi e sviluppo».
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