Pubblichiamo la prima parte di un breve saggio di Domenico Moro dal titolo "Perché l'uscita dall'euro è internazionalista".
È
possibile definire realisticamente una linea politica internazionalista
in Europa soltanto mettendo al suo centro il tema dell’uscita
dall’euro. Eppure, a sinistra molti continuano a opporsi all’uscita
dall’euro, adducendo due tipologie di motivazioni, di carattere
economico e politico-ideologico. Sebbene le motivazioni economiche siano
certamente importanti, ritengo che a incidere maggiormente sul rifiuto a
prendere persino in considerazione l’ipotesi di uscire dall’euro, fra
la sinistra e più in generale, siano le motivazioni
politico-ideologiche. Infatti, le motivazioni politico-ideologiche
appaiono meno “tecniche” e maggiormente comprensibili. Soprattutto,
fanno riferimento a un senso comune profondamente radicato nella
sinistra e nella società italiana.
La
principale motivazione politico-ideologica ritiene l’uscita dall’euro
politicamente regressiva, perché rappresenterebbe il ritorno alla
nazione. Ciò significherebbe di per sé il ritorno al nazionalismo e
l’assunzione di una posizione di destra, con la quale ci si allineerebbe
implicitamente alle posizioni del Font National in Francia e della Lega
Nord in Italia. Una variante di questa posizione ritiene che il ritorno
alla nazione, oltre che di destra, sia inadeguato allo svolgimento di
lotte efficaci, a causa delle dimensione ormai globale raggiunta dal
capitale.
Tali
posizioni si intrecciano in chi, come Toni Negri, pensa che la
globalizzazione “è stata l’effetto di un secolo di lotte ed ha
rappresentato una grande vittoria proletaria”. In particolare, per i
lavoratori dei paesi avanzati il globale è una modalità di vita per
rompere con “la barbara identità nazionale”(1).
Miopi
noi ad aver sempre pensato, con Marx e soprattutto con i fatti, che la
globalizzazione fosse una risposta del capitale per risolvere la sua
sovraccumulazione e la caduta del saggio di profitto, mediante la
riduzione dei salari e del welfare. Del resto, è una ben strana vittoria
quella che modifica i rapporti di forza a sfavore del lavoro salariato.
Ad
ogni modo, le motivazioni politiche contro l’euro si basano su false
premesse, anche se il tema del rapporto tra nazione e lotta di classe
non va preso alla leggera. Proprio per questo il principio da cui
partire è che la questione della nazione va affrontata non in astratto
ma in concreto, cioè partendo dall’analisi dei rapporti di produzione,
per come essi si manifestano nella fase attuale del capitalismo. Il
timore di ricadere nel nazionalismo affonda le sue radici nella storia
del Novecento, quando i nazionalismi furono alla base dei fascismi e ad
essi si attribuì la causa dello scoppio della Prima e della Seconda
guerra mondiale.
Altiero
Spinelli e gli altri redattori del Manifesto di Ventotene, fino a oggi
punto di riferimento della sinistra europeista, estesero la loro
avversione dal nazionalismo allo stato nazionale, o meglio alla
“sovranità assoluta” dello stato nazionale, intesa come male assoluto,
origine della guerra e del fascismo. Infatti, secondo Spinelli, la linea
di demarcazione tra progressisti e reazionari non sarebbe dovuta più
passare per la maggiore o minore democrazia o per la forma dei rapporti
di produzione, cioè tra capitalismo e socialismo, ma tra l’essere o per
lo stato nazionale o per lo stato internazionale. Essi vedevano nello
sviluppo di un’Europa unita e nel superamento del capitalismo autarchico
verso il libero commercio non solo un antidoto alla guerra ma anche il
migliore mezzo di contrasto all’influenza dei partiti comunisti in
Europa.
Del
resto, nel Manifesto di Ventotene la socializzazione dei mezzi di
produzione viene vista come un’utopia e una “erronea deduzione” dai
principi del socialismo, che porta necessariamente alla dittatura
burocratica. Mentre l’Urss combatte una lotta feroce contro il nazismo e
a fianco degli angloamericani, il Manifesto sembra soprattutto
preoccupato di prendere le misure ai nuovi alleati in vista della
ridefinizione degli assetti politici del dopo-guerra: “Una situazione
dove i comunisti contassero come forza politica dominante
significherebbe non uno sviluppo in senso rivoluzionario ma già il
fallimento del rinnovamento europeo.”(2)
Il
nazionalismo, però, più che la causa primaria fu l’effetto di un
determinato contesto. Esso ha rappresentato la forma ideologica adeguata
a una specifica fase storica dei rapporti di produzione capitalistici,
che alcuni, come l’economista e dirigente del PCI Pietro Grifone, hanno
definito capitalismo monopolistico di stato (3).
Durante
quel periodo storico l’accumulazione capitalistica avveniva soprattutto
su base nazionale, mentre il suo espansionismo estero avveniva nella
forma dell’imperialismo nazionale e territoriale. La tendenza si
accentuò negli anni ’30 con l’economia cosiddetta autarchica. Gli scambi
di merci e di capitali avvenivano soprattutto tra la singola potenza
imperialista e le sue colonie.
È
ovvio che, in un tale contesto, lo stato avesse un ruolo più
interventista e diretto nell’economia. La causa scatenante delle due
guerre mondiali fu la crisi capitalistica e il conseguente acutizzarsi
delle contraddizioni inter-imperialistiche, nella forma della
competizione per la conquista di imperi territoriali.
Le
ideologie nazionalistiche, come lo stesso fascismo, furono lo strumento
per la mobilitazione delle masse per l’espansione del capitale
nazionale uscito dalla Prima guerra mondiale schiacciato dalle
condizioni di pace, come nel caso della Germania, o frustrato nelle sue
aspirazioni territoriali, come nel caso dell’Italia e del Giappone. Del
resto, il fascismo, dopo la prima fase movimentistica e piccolo
borghese, mutuò il suo programma e i suoi quadri dirigenti
dall’Associazione nazionalista italiana, di piccole dimensioni ma
espressione organica dell’imperialismo industriale del grande capitale
italiano.
Oggi,
la forma del modo di produzione capitalistico è molto diversa, in
quanto l’accumulazione non avviene che in parte su base nazionale. Dalla
forma di capitalismo monopolistico di stato si è passati alla forma di
capitalismo globalizzato (4). In quest’ultima il capitale realizza i
suoi profitti soprattutto su base internazionale, mediante investimenti
di portafoglio e investimenti diretti all’estero (IDE). L’obiettivo è
realizzare economie di scala a livello internazionale, basate sullo
spostamento di quote di produzione dai Paesi del centro a quelli
periferici, a basso costo del lavoro, e su operazioni di fusione e
integrazione dei capitali del centro a livello sovrastatale. Le imprese
che contano sono multinazionali o transnazionali e l’imperialismo non si
basa più su imperi territoriali, ma sulla capacità di comando mediante
il controllo dei movimenti internazionali di capitale, di merci, di
materie prime, di tecnologia.
Senza
trascurare, però, la capacità di intervento militare “fuori area” e
l’uso di guerre per procura. Naturalmente anche l’ideologia si è
adeguata a tali trasformazioni abbandonando il nazionalismo, ormai
desueto, e abbracciando il cosmopolitismo. Nella misura in cui
l’integrazione europea (specie monetaria) favorisce i suddetti processi
del capitale, l’ideologia europeista è articolazione diretta, in Europa,
dell’ideologia cosmopolita, che non va assolutamente confusa con quella
internazionalista.
I
classici del marxismo, compresi Luxemburg e Lenin (5), hanno definito
quella nazionale come la forma statuale tipica del capitalismo. Ciò è
sicuramente vero soprattutto per quanto riguarda la fase di sviluppo del
capitalismo industriale moderno, avvenuta nel corso delle lotte
democratico-liberali tra 1789 e 1871, e nella quale essi vivevano e
lottavano. L’unione statale su base nazionale è stata fondamentale per
il passaggio del capitalismo a una fase superiore di sviluppo, perché
consentiva di riunire i mercati frammentati degli staterelli allora
esistenti, partendo da un fattore di unificazione molto forte, la
lingua.
In
questo modo, l’Italia e soprattutto la Germania riuscirono a decollare
dal punto di vista industriale, raggiungendo e superando (nel caso della
Germania) gli stati nazionali più vecchi come la Gran Bretagna e la
Francia. Tuttavia, si trattava di una forma necessaria e sufficiente in
quella fase. Nelle fasi storiche precedenti il capitalismo aveva assunto
altre forme, tanto che, secondo Giovanni Arrighi, nella sua storia il
capitalismo oscilla tra due tipologie, il capitalismo monopolistico di
stato, il cui tipo ideale era la Repubblica di Venezia, e il capitalismo
cosmopolita, il cui tipo ideale era il capitalismo finanziario della
Repubblica di Genova (6).
Nella
prima la stato era forte e aveva un ruolo importante nell’economia,
nella seconda lo stato era quasi inesistente e lasciava l’iniziativa
economica, compresa quella coloniale, ai privati.
Ovviamente
si tratta di due estremi e, di solito, le concrete manifestazioni dello
Stato e dei rapporti produzione capitalistici contengono, a seconda dei
periodi, quote dell’una e dell’altra forma in percentuali variabili.
La
Ue e più ancora l’Unione economica e monetaria (Uem) sono la
manifestazione di una fase del capitalismo nella quale l’elemento
cosmopolita ha maggiore peso sia rispetto alla fase classica
dell’imperialismo territoriale degli anni tra il 1890 e il 1940, sia
rispetto alla fase di decolonizzazione e di pre-globalizzazione tra 1945
e 1989. La Uem, infatti, favorendo e accentuando la fuoriuscita dei
meccanismi dell’accumulazione dal perimetro di controllo dello stato,
asseconda lo spostamento del baricentro dell’accumulazione dal livello
nazionale al livello sovranazionale.
Un
movimento verso cui il capitale tende spontaneamente in un fase di
sovraccumulazione e di crisi strutturale, durante la quale sconta una
tendenza cronica all’abbassamento della redditività degli investimenti
nei Paesi più sviluppati, che, non a caso, sono quelli che in Europa
fanno parte della Uem. L’euro è stato lo strumento principale di
riorganizzazione dell’accumulazione nella fase del capitalismo globale,
non in assoluto ma nelle specifiche e particolari condizioni economiche e
politiche dell’Europa occidentale.
È
per queste ragioni che l’ideologia avversaria dominante, cioè
l’ideologia della classe dominante, oggi non è quella nazionalista,
bensì quella cosmopolita.
Allora,
ci si domanderà, perché si assiste alla rinascita del nazionalismo,
accompagnata dalla rinascita della xenofobia? In primo luogo, bisogna
dire che non tutto ciò che accade è il risultato meccanico e necessario
dei piani della classe dominante, anche se certamente è la conseguenza
dialettica dei rapporti di produzione dominanti.
L’introduzione
dell’euro e le politiche europee sono state funzionali a permettere la
riduzione del salario e del welfare, ma anche a ridurre quella che Marx
chiamava la pletora di imprese, ovvero le imprese e le unità produttive
che la stessa accumulazione rende ridondanti e superflue. Così facendo
l’euro e le politiche di austerity hanno allargato i divari in termini
di crescita e ricchezza tra gli stati europei. Nel contempo, all’interno
di essi, hanno prodotto o accentuato, insieme all’aumento della povertà
e della disoccupazione di massa, la concorrenza tra indigeni e
immigrati per il welfare e il lavoro e lo scollamento tra una parte
dell’elettorato e il sistema politico tradizionale bipartitico ed
europeista.
Ma,
l’euro non colpisce solo il lavoro salariato impiegato direttamente dal
capitale (la classe operaia). Esso, in quanto strumento facilitatore
della riorganizzazione complessiva dell’accumulazione, colpisce anche
altre classi sociali, tra cui alcuni strati intermedi (artigiani,
piccoli commercianti, piccoli professionisti) e persino alcuni settori
di impresa capitalistica. Infatti, la riorganizzazione e l’accorciamento
delle catene di fornitura e subfornitura manifatturiera hanno
comportato l’eliminazione di molte imprese piccole, medie e, in certi
casi, anche grandi, rendendo difficile la vita alle rimanenti che non
riescono a stare sul mercato internazionale.
Queste
imprese, a differenza delle imprese multinazionali, non traggono
beneficio dall’esistenza di una moneta unica a livello europeo, ma ne
sono danneggiate. Non è un caso che la Lega, espressione storica della
piccola impresa del Nord, abbia una posizione anti-euro, combinata con
una posizione xenofoba anti-immigrati. Si tratta di un posizionamento
articolato e, a suo modo, abile che, tende a mettere insieme settori
diversi, piccola impresa e operai, in un nuovo blocco corporativo di
destra.
Significativamente,
dopo vent’anni, la Lega in salsa salviniana ha mandato in soffitta la
secessione del Nord, riciclandosi come forza nazionale, a dispetto delle
lamentele del vecchio Bossi.
Una
dimostrazione ulteriore dei cambiamenti dei rapporti di produzione (la
struttura) e di come questi si riflettano sulla politica e sulla
ideologia politica (la sovrastruttura). Viene da chiedersi, a questo
punto, se la Lega stia usando l’uscita dall’euro come, per circa
vent’anni, ha usato la secessione, cioè come specchietto per le allodole
e arma di ricatto per ottenere maggiori risorse statali per certi
settori imprenditoriali del Nord. Ad ogni modo, la piccola borghesia,
come ricordava Marx e come provano la storia (ad esempio quella del
fascismo) e i risultati di venti anni di esistenza della Lega, non ha
reale capacità di azione autonoma e presto o tardi viene subordinata al
movimento oggettivo del capitale, quello vero.
Dunque,
il nazionalismo e la xenofobia, così come il successo di partiti
cosiddetti populistici o di estrema destra, sono la risposta immediata a
una situazione, determinata dal capitale, di aumento dei divari di
crescita economica tra Paesi della Uem e della polarizzazione sociale
tra le classi di ciascun Paese. Ma il nazionalismo e la xenofobia non
sono l’ideologia dell’élite capitalistica, cioè delle imprese
multinazionali e transnazionali che rappresentato il vertice
dell’accumulazione capitalistica in Europa occidentale e in Italia.
Così
come il fascismo, inteso per come si è manifestato storicamente in
Italia e in Germania, non è la forma di governo o di stato adeguata al
capitale in questo momento storico. Anche perché i meccanismi oggettivi
dell’euro e i vincoli europei sono tanto più efficaci quanto più
appaiono politicamente neutrali e progressisti, in particolar modo
rispetto al fascismo, al nazionalismo e alla xenofobia.
Nazionalismo
e xenofobia sono una conseguenza non voluta e inattesa della
riorganizzazione capitalistica gestita dagli apprendisti stregoni
europeisti. Essi contrastano con gli interessi del grande capitale
europeo, i cui mezzi di comunicazione, dal confindustriale Sole24ore a
The Economist, controllato dalle famiglie tipicamente cosmopolite degli
Agnelli e dei Rothschild, propagandano una ideologia cosmopolita e
europeista, paventando come la peste in questi ultimi tempi il crollo
della Ue e della Uem. Tale ideologia cosmopolita e europeista è quella
che meglio si combina con il neoliberismo, esprimendo le necessità della
mobilità dei fattori produttivi, soprattutto del capitale ma anche
della forza lavoro, e affermando la progressività della globalizzazione.
Il
blocco sociale alla base di questa ideologia, come ha spiegato bene la
femminista americana Nancy Fraser (7), è l’alleanza tra élite
capitalistiche e ceti medi “progressisti”, che trova il suo cemento
ideologico nella combinazione di neoliberismo e diritti civili riferiti a
particolari categorie, viste in termini rigorosamente interclassisti.
Tale alleanza sociale sostituisce, a partire soprattutto da Clinton, il
blocco sociale keynesiano, disgregatosi negli anni ’80 a seguito della
globalizzazione, il quale si basava sull’alleanza tra i settori più
organizzati della classe operaia e la grande impresa.
L’ideologia
cosmopolita è ancora particolarmente forte in Europa occidentale tra
l’élite capitalistica, perché si confà alla natura dell’economia europea
che presenta una propensione maggiore agli investimenti di capitale
all’estero (IDE) e soprattutto all’export di merci, i quali pesano in
percentuale sul Pil europeo molto più che su quello statunitense (lo
stock di IDE in uscita il 62% contro il 37% e l’export di merci il 35%
contro il 9%) (8).
La
Uem, coerentemente con l’indirizzo impresso dallo stato-guida tedesco,
impronta la sua politica economica al neomercantilismo, cioè al
raggiungimento di forti surplus del commercio estero a scapito del
mercato e del consumo interno, contratti dalla crisi, dall’austerity del
Fiscal compact e dalla deflazione salariale imposta dall’euro. In tale
contesto, è particolarmente devastante per quella sinistra che voglia
rappresentare il lavoro salariato assorbire pezzi consistenti
dell’ideologia dominante cosmopolita. Ciò avviene in parte accettando
che la liberazione di certi settori sociali avvenga separatamente dalla
modificazione dei rapporti sociali e in parte confondendo la
globalizzazione con l’internazionalismo.
L’internazionalismo
si basa sul riconoscimento e il perseguimento degli interessi
collettivi del lavoro salariato contro le divisioni nazionali e il ruolo
dello Stato di potere concentrato del capitale. Il cosmopolitismo,
invece, è il rovesciamento dialettico in senso borghese
dell’internazionalismo. Esso si basa sulla affermazione globale degli
interessi individuali dell’élite capitalistica al di sopra dello
Stato-nazione di provenienza, mantenendone, però, l’utilizzo e ben salda
la natura di classe.
Note
(1) Toni Negri, Chi sono i comunisti. Relazione al convegno C17.
(2)
Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni, Il manifesto di
Ventotene. Per una Europa libera e unita, Ventotene, Agosto 1941.
(3)
P. Grifone, Il capitale finanziario in Italia, Einaudi, Milano 1972. P.
Grifone, Capitalismo di stato e imperialismo fascista, La città del
sole, Napoli 2006.
(4) Domenico Moro, Globalizzazione e decadenza industriale, Imprimatur, Reggio Emilia 2015.
(5) Lenin, Sul diritto delle nazioni all’autodecisione.
(6) G. Arrighi, Il lungo XX secolo, Il saggiatore, Milano 1994.
(7)
Nancy Fraser, Come il femminismo divenne ancella del capitalismo, The
Guardian, 14 ottobre 2013. Nancy Fraser, La fine del neoliberismo
progressista, in Sinistra in rete ttps://www.sinistrainrete.info/neoliberismo/9190-nancy-fraser-la-fine-del-neoliberismo-progressista.html
(8) Domenico Moro, op. cit.
* Fonte: Felce Rossa
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