[ 22 luglio 2017 ]
L'altro giorno avevamo pubblicato di Domenico Moro L'IDEOLOGIA DOMINANTE É IL COSMOPOLITISMO NON IL NAZIONALISMO. Si trattava della prima parte di un breve saggio. Qui la seconda.
[9-9-1931.
Nella foto il simbolo della resistenza libica senussita contro il
colonialismo fascista, Omar al-Mokhtar, in catene. Sarà poi impiccato]
Le ragioni dello scetticismo nei confronti della nazione
La
diffidenza verso il concetto di nazione e la tendenza europeista,
entrambe diffuse in diversi settori della società italiana, sono il
prodotto della nostra storia recente e meno recente. L’imperialismo
italiano, tra gli anni ’80 dell’Ottocento e gli anni ’40 del Novecento,
ha fatto della nazione, nella forma ideologica estremistica del
nazionalismo, il substrato della sua politica espansionistica. Lo stato
liberale e lo stato fascista, senza alcuna soluzione di continuità tra
di loro, hanno generato una serie di guerre, dalle prime spedizioni
coloniali in Eritrea, Somalia e Libia, alla Prima guerra mondiale, alle
guerre d’Etiopia e di Spagna e, infine, alla disastrosa partecipazione
alla Seconda guerra mondiale.
L’esito
di questa tendenza espansionistica è stato devastante sia per le
condizioni delle masse popolari sia per le ambizioni dell’élite
capitalistica. L’Italia, precedentemente annoverata fra le grandi
potenze, subisce nel ’43 una sconfitta pesantissima e umiliante, che ne
declassa il rango internazionale. Si è così prodotto un diffuso rigetto
verso ogni forma di nazionalismo, che si è esteso al concetto stesso di
nazione anche all’interno della sinistra, nonostante la Resistenza
contro il nazi-fascismo fosse in primo luogo una lotta di liberazione
nazionale.
Ma
le ragioni dello scetticismo nei confronti della nazione sono più
lontane e collegate allo scetticismo nei confronti dello Stato. L’Italia
fu, tra XII e XVII secolo, la culla del capitalismo e il paese centrale
del sistema economico dell’epoca, malgrado l’assenza di uno
Stato-nazione unitario o, secondo alcuni, proprio per quella ragione1.
Però, i limiti della mancanza di uno stato nazionale, che sostenesse
gli interessi del capitale italiano, finirono alla lunga per farsi
sentire negativamente.
A
partire dalla seconda metà del XVII secolo l’Italia entrò in una lunga
fase di decadenza economica, cedendo l’egemonia internazionale prima ai
Paesi bassi e poi all’Inghilterra, che si erano dotati una forma statale
nazionale ben strutturata e poderosa. Invece, in Italia la forma
statale prevalente fu prima quella della repubblica comunale e poi
quella della signoria locale o, al massimo, regionale. Inoltre, in
Italia, tra il XIV e il XV secolo si sviluppò il Rinascimento, che,
espressione delle corti delle città-stato, ebbe un carattere culturale
cosmopolita e non nazionale.
Gramsci
ha dedicato molte pagine a spiegare come storicamente la funzione degli
intellettuali italiani e le stesse tradizioni culturali siano state
cosmopolite2.
L’Italia è stata il centro dell’impero più cosmopolita della storia,
quello romano, e sede della sua erede, la Chiesa cattolica, la cui
dottrina è universalistica per definizione.
La
presenza in Italia del potere temporale cattolico, lo Stato della
Chiesa, fu una delle cause principali del ritardo della unità nazionale
italiana, completata soltanto con la conquista militare della Roma
papalina da parte delle truppe italiane nel 1871.
A
seguito di questo episodio, il Papa si confinò nel Vaticano e i
cattolici si tennero fuori dalla politica del nuovo stato unitario,
entrandovi con una loro formazione politica autonoma, il Partito
popolare, soltanto nel 1919. Ma è dopo la Seconda guerra mondiale che
essi, attraverso la Democrazia cristiana, saranno per quasi mezzo secolo
il perno della politica italiana e uno dei motori della integrazione
europea.
Un’altra
importante causa dello scetticismo verso la nazione è collegata alle
modalità con cui si è realizzato in Italia il processo di costruzione
dello stato unitario nazionale.
La
direzione del movimento di unificazione fu monopolizzata
dall’espansionismo della monarchia piemontese, e non si pose l’obiettivo
del coinvolgimento delle masse, all’epoca soprattutto contadine,
nell’unico modo in cui potesse farlo, cioè con la riforma agraria3.
Alla
fine, il Risorgimento fu egemonizzato dalla élite borghese del nord,
alleata con i latifondisti del Sud, e in opposizione alle masse
subalterne. Il Mezzogiorno venne definitivamente unito al resto del
Paese solo dopo una lunga guerra contro il brigantaggio, in realtà una
guerra civile, che costò all’esercito italiano più caduti della III
Guerra d’indipendenza contro l’Austria.
La
sfiducia verso la nazione da parte degli italiani, che hanno oggi, a un
secolo e mezzo dall’unità, una identità culturale e linguistica definita
e omogenea forse più di quella di altri popoli europei, rientra nel
generale senso di sfiducia verso lo Stato, che, per ragioni diverse
(genuine ma anche strumentali), investe sia le classi inferiori e
subalterne sia quelle superiori e dominanti della società italiana.
Nella
classe dominante il trauma della sconfitta della Seconda guerra
mondiale, la consapevolezza di non poter portare avanti una politica di
potenza nei nuovi rapporti di forza internazionali nonché il
peggioramento dei rapporti di forza all’interno (forte presenza di un
partito comunista e rapporti di forza sindacali e politici favorevoli
alla classe operaia) hanno generato la convinzione della insufficienza
(non certo della inutilità) dello stato nazionale e una tendenza a
avvalersi anche di forze esterne, sovrannazionali (Nato e Ue), per
riequilibrare i rapporti di forza esterni e soprattutto interni.
A
tutto ciò si aggiunge, come Marx ha fatto notare più volte, l’avversione
tradizionale della classe capitalistica per lo Stato in quanto fonte di
spese, che, dal suo punto di vista, sono faux frais, cioè spese superflue, specialmente allorché si traducono in imposte sui profitti e sulle proprietà mobiliare e immobiliare. Infatti,
l’avversione verso le spese statali in Italia si è tradotta in una
diffusa elusione fiscale da parte delle imprese fino alla rivolta
fiscale di cui la Lega si è fatta espressione negli anni ‘90, ed è stata
particolarmente accesa, essendo motivata dalla dilatazione e dalla
corruzione Pubblica amministrazione (Pa), giudicate come anomale
rispetto al resto d’Europa.
Tale
presunta anomalia è stata enfatizzata sin dagli anni ’70, allo scopo di
favorire le privatizzazioni del welfare e delle partecipazioni statali e
ridurre l’autonomia del ceto politico ad esse legato. Inoltre, le
inefficienze e la dilatazione della Pa registrata in certe aree del
Paese dipende dalla incapacità del settore privato di generare una
sufficiente occupazione, dalla mancanza di un adeguato reddito di
disoccupazione e da un divario economico tra Nord e Mezzogiorno molto
più profondo di quelli presenti negli altri stati europei.
A
ciò si aggiunge il fatto che la Pa nel passato è stata utilizzata per
rafforzare la stabilità sociale e politica, mediante l’inglobamento di
alcuni settori di piccola borghesia all’interno del blocco
politico-sociale che la Democrazia cristiana e altri partiti di governo
avevano costituito in funzione anti-comunista. Ad ogni modo, oggi, dopo
anni di blocco del turn over, gli occupati nella Pubblica
amministrazione (Pa) in Italia risultano, in assoluto e in rapporto alla
popolazione, inferiori a quelli di Francia, Germania e Spagna4.
Infine,
non possiamo non ricordare, sia pure di sfuggita, che il rigonfiamento
del debito pubblico è stato dovuto non a un eccesso di spese sociali in
rapporto a quelle di altri Paesi, bensì al basso livello di imposizione
fiscale (in primis alle imprese), alle spese di socializzazione delle
perdite delle imprese private, e soprattutto, a partire dai primi anni
’80, alla crescita della spesa per interessi, dovuta alla separazione
tra Banca d’Italia e Tesoro, avvenuta sempre con l’obiettivo di ridurre
l’inflazione per poter ridurre i salari5.
In
ultimo, ma non per importanza, la necessità, dopo la Seconda guerra
mondiale, di un adeguato mercato di sbocco alle merci della manifattura
italiana e poi la globalizzazione negli anni ‘90 si sono aggiunte a
rafforzare, agli occhi dell’élite capitalistica italiana, l’utilità
dell’Europa e dell’integrazione economica e valutaria, che ha
trasformato o sta compiutamente trasformando le imprese maggiori da
prevalentemente nazionali a internazionali.
In
sintesi, l’Europa è stata vista (o venduta così all’opinione pubblica)
come un necessario fattore esterno di costrizione all’efficientizzazione
della Pa e alla moderazione del bilancio e della esagerata spesa
statale, che gli italiani da soli avrebbero avuto difficoltà a
realizzare.
Il
punto, però, è che né l’euro né la Ue rappresentano un correttivo alle
carenze dello Stato, tantomeno in direzione della sua efficientizzazione
e contro la corruzione.
Al
contrario, l’Europa rappresenta la riduzione degli aspetti “pubblici” e
redistributivi dello stato e una accentuazione del suo carattere di
dominio di classe, al servizio dei privati, che, anziché eliminare i
vecchi sprechi e corruzioni, ne determina di nuovi, proprio a causa
dell’aumento della commistione tra pubblico e privato a seguito delle
privatizzazioni e delle esternalizzazioni dei servizi pubblici.
Il
problema dell’euro non solleva la questione della nazione ma la natura
di classe dello Stato. La questione dell’uscita dall’euro non è una
questione inerente alla difesa della nazionalità bensì inerente alla
democratizzazione dello Stato e, più precisamente, alla modificazione
del rapporto tra Stato e classi subalterne al capitale.
In
qualche modo, gli oppositori di sinistra all’uscita dall’euro vengono
rafforzati nelle loro convinzioni dai cosiddetti sovranisti nazionali,
che pongono l’accento sul recupero della sovranità nazionale anziché sul
recupero della sovranità popolare o, meglio ancora, democratica.
Per
la verità, una certa confusione tra i due aspetti si ingenera in modo
abbastanza naturale. Infatti, visto che il problema è rappresentato
dall’esistenza di organismi sovrastatali europei, il loro superamento
implica necessariamente il ritorno allo stato. E, dal momento che lo
stato territoriale classico è quello a base nazionale, ciò che risulta,
almeno in apparenza, è che “si ritorni alla nazione”.
Ciononostante,
il nodo della questione dell’uscita dall’euro continua a non risiedere
nella nazione ed è bene che lo si ribadisca. Sarebbe facile considerare
che alcuni stati europei non sono stati nazionali nel senso puro, ad
esempio la Spagna e il Belgio, che riuniscono nazionalità diverse con
lingue a volte di ceppo diverso (castigliano, catalano e basco, oppure
francese e neerlandese). Più importante è chiederci verso chi la Ue e la
Uem svolgono una funzione di oppressione o di sfruttamento.
Se,
cioè svolgano una tale funzione verso una o più nazioni, intese come
l’insieme delle classi di un dato Paese, oppure se svolgono tale
funzione verso una o più classi sociali di tali nazioni, ma non verso
l’insieme delle classi ossia della nazione.
In
effetti, in Europa non c’è una nazionalità oppressa in quanto tale.
L’azione della Uem colpisce alcune classi, che rappresentano la
maggioranza della popolazione, ma non tutte con la stessa intensità.
L’euro è diretto, in primo luogo, a neutralizzare la capacità di
resistenza della classe salariata, in particolare di quella direttamente
impiegata dal capitale (soprattutto nella manifattura), che subisce la
deflazione salariale come conseguenza dei tassi di cambio fissi. Certi
settori stipendiati o salariati ne sono colpiti di meno o meno
direttamente, ad esempio il lavoro salariato non dipendente dal
capitale.
Tuttavia,
anche il settore pubblico ha subito, attraverso il blocco dei contratti
e del turn over, conseguenze negative dell’austerity europea.
Secondariamente tende a colpire anche alcuni settori piccolo-borghesi
intermedi, nel commercio e nell’artigianato, e persino settori di
imprese capitalistiche, quelle piccole e medie, che non riescono a
inserirsi nelle catene internazionali del valore, dominate dalla grande
impresa globalizzata, e sono state penalizzate dal crollo del mercato
domestico a seguito di deflazione salariale e austerity.
Invece,
i grandi e medi rentier generalmente beneficiano dell’euro.
Soprattutto, per lo strato capitalistico di vertice, le grandi imprese
industriali e le banche internazionalizzate, l’introduzione dell’euro ha
rappresentato un vantaggio enorme. Alcuni hanno posto in rilievo,
giustamente, il ruolo egemone della Germania in Europa e i benefici che,
come Paese, ha ricavato dall’euro.
Tuttavia,
per quanto la Germania abbia beneficiato dell’euro, non è possibile
parlare di oppressione nazionale di questo Paese sugli altri. I benefici
dell’euro si estendono, anche se non in modo uniforme, a tutta l’élite
capitalistica europea, anche a quelle dei Paesi cosiddetti periferici.
In
Italia, sebbene in un contesto di contrazione non solo del Pil ma
soprattutto della base produttiva manifatturiera, il margine operativo
lordo delle imprese manifatturiere esportatrici è cresciuto e, in
rapporto al fatturato, risulta superiore a quello di Germania e Francia6.
Del resto, come ho avuto occasione di far notare altrove,
l’integrazione valutaria rende più facile l’azione di quelli che Marx
chiama i fattori antagonistici alla caduta del saggio di profitto
(riduzione del salario, esportazioni di merci e capitale, concentrazione
delle imprese, ecc.)7.
Infatti,
non è un caso che tra le classi dominanti di Spagna, Francia e Italia
le posizioni a favore di una uscita dall’euro non trovano udienza presso
i media controllati dalle élite economiche “nazionali”. Ad esempio, il
confindustriale Sole24ore, per quanto ospiti interventi critici verso
gli “eccessi” rigoristici tedeschi, contrasta decisamente ogni ipotesi
di fine dell’euro come fosse una catastrofe.
In
ogni caso, le imposizioni della Uem non sono dirette contro
l’autoderminazione “nazionale”, in quanto gli stati nazione non sono
aboliti. Per la verità alcune loro attribuzioni sono state rafforzate e
lo sono state proprio in funzione nazionale.
Sono solo alcune attribuzioni quelle il cui controllo è delegato, mediante i trattati europei (Fiscal compact, Six e Two pack),
alla Ue o alla Uem. Infatti, la questione di fondo è che a essere
indebolito non è il carattere di classe dello stato, inteso come
perseguimento degli interessi specifici del capitale che ha base o opera
in quel dato territorio. Anzi, tale carattere, per quanto possa
sembrare paradossale, si rafforza e, del resto, né la Ue né la Uem
assomigliano neanche lontanamente a uno stato in senso compiuto.
A
questo punto, però, è necessario fare un passo indietro e chiederci: che
cos’è, nella sua essenza, lo Stato? La definizione più diffusa è quella
data da Max Weber: lo stato coincide con il monopolio dell’uso della
forza entro i confini di una certa area geografica. Quindi, organismi
statali per eccellenza sono quelli preposti a tale monopolio: Forze
Armate, polizia, magistratura e il loro apparato immateriale di leggi e
materiale di armamenti, caserme, tribunali, prigioni, ecc. Marx ed
Engels aggiunsero a tale definizione che il monopolio della forza è
esercitato in difesa dei rapporti di produzione dominanti. Pertanto, lo
Stato, dal punto di vista di classe, non è mai neutrale, compreso quello
formalmente più democratico, essendo sempre l’organismo della classe
dominante.
Nella
società divisa in classi, lo Stato rappresenta, per usare le parole di
Marx “la violenza concentrata e organizzata della società”8.
Tuttavia, Marx ed Engels dissero anche altro: lo Stato non è solo
oppressione mediante la forza fisica di una classe sulle altre ma anche
mediazione tra le classi, per evitare che la lotta tra di esse giunga
fino al punto di far collassare l’intero edificio sociale. In tal senso,
sempre secondo Marx e Engels, la repubblica democratica rappresenta
l’involucro migliore per l’esercizio del potere borghese9.
Con
il tempo, sia per l’evolversi di tale mediazione sia per l’evolversi e
il rendersi più complessa dell’economia e della società, nuove funzioni
si sono aggiunte alla macchina dello Stato, creando, accanto a Forze
Armate e corpi di polizia permanenti e professionali, enormi apparati
burocratici e amministrativi. Ma la combinazione dei due aspetti, forza e
mediazione, è sempre centrale. L’analisi di tale dialettica fu
approfondita da Lenin e da Gramsci, nel concetto di egemonia, e poi da
altri come Althusser e Poulantzas10.
Chi
studia oggi Gramsci dovrebbe porsi la questione di attualizzare i suoi
insegnamenti e mettere in pratica il suo metodo, che oggi non può
prescindere dall’analisi della forma dei sistemi politico-istituzionali e
di riproduzione del consenso, nel quadro della globalizzazione,
dell’ideologia del cosmopolitismo e, in Europa, dell’integrazione
economica e valutaria. Quindi, la forma che lo Stato assume è decisiva,
perché la forma non è un mero involucro bensì un principio di
organizzazione dei rapporti sociali.
Detto
più chiaramente, la forma che lo stato assume definisce i rapporti e le
modalità di mediazione tra le classi vigenti in un certo periodo
storico.
Dopo
la seconda guerra mondiale, la sconfitta militare del fascismo e della
classe dominante italiana e il protagonismo dei partiti legati alla
classe operaia avevano modificato i rapporti di forza, che furono
cristallizzati, in Italia (e nel resto dell’Europa occidentale), in una
nuova Costituzione antifascista e nella definizione di una forma di
stato repubblicana e democratico-parlamentare.
Lo
stato non aveva perso il suo carattere di classe ma la forma che
assumeva garantiva alla classe lavoratrice un terreno di lotta più
favorevole. Con gli anni, il confronto competitivo con l’Urss e le lotte
di classe interne, combinate con una fase espansiva del capitalismo,
portarono all’allargamento della democrazia e del welfare.
Il
grande capitale, però, non poteva accettare i nuovi rapporti di forza a
lungo, soprattutto quando si ripresentò la caduta del saggio di profitto
con la prima grande crisi strutturale del ’74-’75. Da allora, infatti, i
think tank e le organizzazioni dell’élite del capitale occidentale,
come la Trilaterale, cominciarono a riflettere su come ridurre
l’”eccesso di democrazia” che ormai, dal punto di vista delle classi
dominanti, affliggeva gli stati europei11.
Bisognava
modificare i rapporti di forza e, per farlo, bisognava neutralizzare le
Costituzioni e subordinare il Parlamento, eletto con un sistema
elettorale proporzionale puro e presidiato da partiti di massa e
organizzati, al governo, che era più facilmente influenzabile dalla
classe dominante. La controffensiva neoliberista cui si assiste in tutto
il mondo capitalistico avanzato dall’inizio degli anni ’80 si basava,
sul piano politico, su questa strategia.
In
Italia, si ricorse alla modifica in senso maggioritario delle leggi
elettorali e, anche grazie all’operazione “mani pulite”, alla
modificazione/distruzione dei partiti di massa tradizionali, cercando di
adottare il sistema bipartitico anglosassone.
In tale sistema i due partiti principali agiscono sui temi di fondo in base al cosiddetto bipartisan consensus,
cioè come ali di uno stesso partito, impedendo qualunque alternativa
reale. Ma fu l’integrazione europea e in particolare l’introduzione
dell’euro a fornire lo strumento decisivo per ribaltare i rapporti di
forza.
Il
Parlamento, in questo modo, viene bypassato dagli organismi sovrastatali
e i meccanismi oggettivi dell’euro costringono alla disciplina di
bilancio e alla compressione dei salari, permettendo l’imposizione di
controriforme (come quella delle pensioni della Fornero) che in
condizioni diverse non sarebbero mai passate.
In
questa trasformazione, a essere rafforzati sono gli esecutivi nazionali,
che, infatti, sono le uniche istituzioni statali ad avere un ruolo
diretto negli organismi sovrastatali europei, affermando così quel
principio di “governabilità”, ovvero la libertà dell’esecutivo di agire
senza essere vincolato dagli altri poteri dello Stato, tanto auspicato
dal capitale dagli anni ’70 a oggi.
Come
ha ben spiegato Agamben e come abbiamo visto con il commissariamento
europeo dell’Italia, all’epoca del governo di Mario Monti, tale
trasformazione si è realizzata, evocando lo stato di emergenza o di
“eccezione”, sotto il ricatto del default e dello spread.
Col tempo si è così passati da un sistema parlamentare, basato sulla centralità del Parlamento, a un sistema di fatto (anche se non formalmente) governamentale,
cioè basato sulla centralità dell’esecutivo e, all’interno di esso, del
premier, il quale governa con un uso massiccio della decretazione
d’urgenza (decreti legge)12.
Considerando,
però, che, attraverso l’esecutivo, il potere politico è influenzato più
direttamente dalle élite capitalistiche, possiamo definire la nuova
forma di governo, forse più precisamente malgrado l’ossimoro, come democratico-oligarchica. Dunque, non assistiamo all’indebolimento dello stato nazionale.
Viceversa, assistiamo al rafforzamento del carattere di classe borghese dello stato.
La
“governabilità” è il prodotto dello spostamento di certe decisioni a
livello europeo e della subalternità ai meccanismi dell’euro, ma anche
delle modifiche intervenute a livello statuale-nazionale. Infatti,
mentre alcune funzioni sono delegate a organismi esterni, altre funzioni
decisive non solo rimangono monopolio dello stato nazionale, ma vengono
rafforzate e adattate alle esigenze delle imprese maggiori.
Negli
ultimi anni gli apparati burocratici, polizieschi e militari degli
stati europei occidentali non solo si sono rafforzati, ma, per quanto
riguarda le Forze Armate, hanno assunto un ruolo sempre più
interventistico all’estero.
Del
resto, le Costituzioni antifasciste europee sono state bypassate o
modificate non solamente sul piano dei meccanismi di governo e sul piano
economico e in particolare su quello del bilancio pubblico
(introduzione dell’articolo 81 sull’obbligo del paraggio di bilancio).
Lo sono state anche sul piano dell’uso della guerra come strumento di
politica internazionale, soprattutto in Italia, ma anche negli altri
Paesi sconfitti della Seconda guerra mondiale, Germania e Giappone.
L’aspetto
del monopolio della forza, che, come abbiamo visto, caratterizza lo
Stato nazionale, non solo non è messo in comune, ma viene esercitato,
seppure non nella forma di scontro armato diretto, in modo funzionale a
una competizione tra Stati nazionali e tra capitali.
Esempio
lampante ne è l’aggressione contro la Libia, che è stata voluta e
preparata dalla Francia non solo contro Gheddafi ma indirettamente anche
contro l’Italia, con lo scopo di sostituire le sue imprese a quelle
italiane nello sfruttamento dei ricchi appalti e delle ampie risorse
petrolifere. Del resto, la vicenda libica è solo l’ultimo episodio di
una secolare competizione tra Italia e Francia in quell’area del
Mediterraneo, che è proseguita anche in epoche più recenti, dando luogo a
più di una guerra per procura13.
Eppure,
l’Italia e la Francia fanno parte della Ue e della Uem. Anzi, sono
proprio l’euro e l’austerity a accentuare le tendenze imperialistiche e
la competizione inter-imperialistica, già innescate dalla
sovraccumulazione e dalla conseguente caduta del saggio di profitto.
Infatti,
l’integrazione europea comprime i salari reali e la domanda interna
riducendo i mercati domestici europei. Ciò accentua la contrazione della
base produttiva domestica, rafforzando la spinta espansionistica
all’estero, per la conquista di sbocchi alle merci e ai capitali
eccedenti, oltre che di materie prime a basso costo. L’espansione
economica estera è sostenuta, come nel passato, dal potere statale, con
la diplomazia, gli incentivi economici e lo strumento militare. Quindi,
con strumenti statali e nazionali.
Oggi,
non esiste alcun esercito europeo né l’Europa interviene militarmente,
in quanto Europa, in nessun luogo, se si eccettuano le missioni di
scarso rilievo e importanza di Eufor.
Se
stati europei intervengono insieme lo fanno come singoli stati sovrani,
su mandato Onu o all’interno di alleanze, con o senza il cappello Nato,
che sono quasi sempre a egemonia Usa. Né esistono una polizia e
tantomeno una intelligence europea.
Del resto, la Ue non è capace di esprimere una sua vera politica estera, che senza Forze Armate europee non avrebbe senso.
Gli
stati nazionali sono gelosi custodi di queste funzioni, peraltro non
accessorie ma decisive e caratterizzanti la sovranità statale o
nazionale che dir si voglia. Persino su altre tematiche, ad esempio
sull’immigrazione, come si è visto recentemente, l’Europa è tutt’altro
che prevalente sugli stati nazionali. Gli aspetti sui quali l’Europa è
nettamente prevalente sul livello statale sono quelli relativi al
bilancio pubblico e alla emissione valutaria.
Soprattutto
sono la moneta unica, proprio per il suo carattere di meccanismo
“neutro”, e la Bce, per il suo carattere sovrannazionale, a collocarsi
al di sopra dello stato nazionale.
La
Bce, infatti, è autonoma dai poteri statali e i governi esercitano su di
essa un’influenza limitata: persino il governo più potente, quello
tedesco, ne condiziona solo fino a un certo punto le decisioni.
In
conclusione la Ue e la Uem sono molto lontane dall’essere organizzazioni
statuali o sovrannazionali in senso proprio. Sono organismi intergovernativi,
dal momento che le decisioni sono prese da organismi cui partecipano i
capi di governo (Consiglio europeo) e i loro ministri (Consiglio
dell’Unione europea), specie quelli economici e finanziari.
Anche
le nomine all’interno della Bce sono frutto di mediazioni e
negoziazioni tra i governi europei, che comunque non sopiscono le
contraddizioni tra stati, di cui è stata manifestazione il costante
contrapporsi tra Draghi e il ministro delle finanze e la banca centrale
della Germania. La Commissione europea è tutt’altro che un governo
europeo e anzi la tendenza è a diminuirne la forza, se dobbiamo
interpretare la proposta tedesca di trasformare l’Esfm14 in
una sorta di Fondo monetario europeo, come un modo per ridurre
l’influenza della Commissione nelle decisioni su come affrontare il
debito pubblico dei Paesi europei maggiormente in difficoltà.
Esiste un imperialismo europeo?
Questo
è lo stato dell’arte. Bisogna, però, cercare di capire come la
situazione evolverà o, almeno, quali sono le principali prospettive
evolutive.
Una
prospettiva si identifica con la tendenza verso la più o meno rapida
disgregazione della Uem, a seguito dell’accentuazione della divergenza
economica tra la Germania, da una parte, e gli altri Paesi, soprattutto
Francia, Italia, Spagna, Portogallo e Grecia. Ma anche a seguito delle
pessime performance della Uem rispetto alle altre economie avanzate
mondiali, e a seguito delle difficoltà a gestire in modo unitario le
varie problematiche, a partire dall’immigrazione.
La
seconda prospettiva è quella auspicata da molti governi, soprattutto da
quelli dei Paesi più in difficoltà, che ritengono che la soluzione ai
problemi dell’Europa sia più Europa, cioè la prosecuzione della
integrazione europea, verso una maggiore centralizzazione sul piano
economico, sul piano militare e della politica estera.
Questa
strategia, che trae nuove speranze dalla elezione di Macron, punta
sulla capacità, specie francese, di imbrigliare la Germania in un
rinnovato asse franco-tedesco, e sembrerebbe aver trovato una sponda
involontaria in Trump. Al vertice del G7 di maggio si è determinata una
spaccatura tra il presidente Trump e i governi europei a causa del
disavanzo commerciale statunitense nei confronti della Ue e in
particolare della Germania e del ridotto contributo europeo al budget
della Nato.
La
risposta di Angela Merkel agli attacchi di Trump è stata tale (“Noi
europei dobbiamo prendere il nostro destino nelle nostre mani”) che
alcuni vi hanno visto una storica rottura con l’alleato atlantico,
interpretandola come il possibile avvio di un processo di
autonomizzazione europeo. In realtà, Europa occidentale e Usa sono così
l’integrate, sul piano economico, politico e militare, che risulta
difficile parlare di rottura, almeno in un periodo breve.
Se
ci limitiamo al piano statale per eccellenza, quello militare, basti
pensare alla diffusa presenza di basi militari americane in tutto il
territorio europeo occidentale, dall’Italia alla Germania. Inoltre, una
Europa militarmente autonoma dagli Usa presupporrebbe una sua capacità
di dissuasione nucleare, il cui raggiungimento non sembra realistico,
anche considerando l’uso della force de frappe francese.
Senza parlare della capacità di intervenire “fuori area” con adeguate
forze aeronavali, che in Europa, specie dopo la defezione britannica,
sono al momento risibili in confronto a quelle degli statunitensi.
La
Germania sarebbe disposta a stornare ingenti risorse economiche,
cambiando modello economico, per dotarsi e dotare l’Europa di forze
armate adeguate a un ruolo mondiale?
Come
ho avuto occasione di scrivere altrove, gli attacchi di Trump, più che a
scassare la Nato e a rompere con gli europei, sembrano orientati a
porre un freno al neomercantilismo tedesco, che è ritenuto non solo
foriero di pericolosi squilibri della bilancia delle partite correnti
Usa, ma anche un fattore di rallentamento del contrasto alla crisi
globale, all’interno della quale va collocato anche l’aumento della
spesa militare15.
Il
punto è che oggi in Europa (e all’interno del contesto mondiale) non
esistono le condizioni per una vera unità sovrastatale, né di tipo
federale e neanche di tipo confederale. Le divisioni sono molto forti e i
meccanismi di funzionamento dell’euro, che nessuno sembra intenzionato a
modificare, anziché favorire una unificazione statuale, la rendono
ancora più problematica.
Del
resto, la creazione di eventuali Stati Uniti d’Europa, per quanto a
nostro parere poco probabili, per lo meno in questa fase storica, non
sarebbero un risultato di cui essere contenti. Nelle condizioni e con i
rapporti di forza attuali, essi sarebbero egemonizzati dal capitale
europeo e rappresenterebbero lo strumento più potente per l’affermazione
dei suoi interessi e per l’esercizio della violenza concentrata e
organizzata nelle sue mani.
Tutto
ciò ci porta a porci una ulteriore questione: esiste un imperialismo
europeo o ne esistono le basi per il suo sviluppo? O meglio: esiste un
imperialismo europeo autonomo e unitario che sia qualcosa di più della
somma dei vari imperialismi dei Paesi europei?
La
sua esistenza presupporrebbe due condizioni: l’esistenza di un capitale
unitario con interessi convergenti, per quanto i capitali possano essere
unitari e avere interessi convergenti in un contesto capitalistico di
concorrenza, e l’esistenza di uno stato unitario.
In
effetti, la definizione marxiana di “fratelli nemici” affibbiata da Marx
ai capitalisti si attaglia piuttosto bene a quelli europei. Certamente è
vero che i Paesi imperialisti europei, a parte l’unità da bravi
fratelli contro i salariati europei, possono convergere e agire
unitariamente in altre occasioni internazionali.
Sul
piano commerciale e economico rispetto all’Europa orientale e, oggi,
nei confronti degli Usa, c’è una certa convergenza. Ma in generale in
queste e in altre occasioni gli interessi a un certo punto diventano
divergenti e spesso i capitali e gli stati europei agiscono da fratelli
nemici in concorrenza tra loro. Resta, infatti, da vedere quanto alcuni
stati si sentano tutelati in una Europa finalmente unita e egemonizzata
da una Germania, economicamente ingombrante e molto vicina, che non sia
controbilanciata dagli Usa, potenti ma lontani.
Sarebbe
sorprendente vedere le élite capitalistiche e politiche (e culturali)
italiane sganciarsi dagli Usa, cui sono legate da più di 70 anni di
relazioni, per aderire a un blocco egemonizzato dalla Germania (o anche
da un asse franco-tedesco), esperienza peraltro già sperimentata poco
positivamente nella Seconda guerra mondiale.
E
non si tratta solo del piano militare, anche su quello commerciale gli
interessi della Germania, ad esempio nel modo di rapportarsi con i dazi
da imporre alle importazioni cinesi, sono in contrasto, ad esempio, con
quelli italiani.
La
storia europea del Novecento e dei secoli precedenti – almeno a partire
dal XVI secolo – è una storia di lotte degli stati europei occidentali,
magari con l’aiuto di un alleato esterno (Impero ottomano, Russia e
Usa), contro qualunque stato continentale (Spagna, Francia, Germania)
abbia voluto di volta in volta imporsi come potenza egemone. La rottura
del balance of power, seguente al tentativo egemonico, è stata sempre prodromica al conflitto continentale, dalla guerra dei Trent’anni alla Seconda guerra mondiale.
Appare
poco probabile che si affermi una tendenza opposta, almeno in questa
fase, visto che siamo in assenza di un processo di maggiore unificazione
e che anzi ci sono molte tendenze centrifughe, a fronte di un
allargamento delle divergenze economiche e della conflittualità tra
Paesi europei.
E
questo vale anche e soprattutto per Francia, che pure dovrebbe essere
l’altro lato di un ricostituito asse franco-tedesco su cui rifondare
l’Europa. I transalpini, infatti, hanno subito più dell’Italia le
conseguenze dell’aggressività economica della Germania, registrando in
Europa forse la decadenza politica e economica relativa maggiore,
rispetto a quello che ancora all’epoca di Mitterand appariva ancora come
un partner di pari peso.
E
comunque, la mancanza di uno stato unitario, di una politica estera, di
forze armate e di polizia europee sono un limite pesante, per la cui
realizzazione non mi pare ci siano le condizioni, tantomeno in tempi
storicamente brevi. Quindi, è difficile dire che esista oggi un
imperialismo europeo in grado di porsi come polo imperialista autonomo o
che esistano le basi perché si realizzi in tempi storicamente brevi.
Più
probabile, invece, è la possibilità di realizzare alleanze o forme di
integrazione militare o di politica estera a geometria variabile, specie
tra la Germania e i suoi satelliti (Olanda, Austria, Romania), come in
effetti sembra stia accadendo.
L’impedimento
maggiore è proprio l’indisponibilità della Germania a essere vincolata
in una struttura politicamente più centralizzata, dove gli altri stati,
la Francia essenzialmente e, in misura minore, l’Italia e la Spagna,
conterebbero maggiormente e, soprattutto, la costringerebbero a
rinunciare a una parte dei suoi vantaggi competitivi e benefici
economici.
La
crisi del capitale non fa sconti a nessuno e la riduzione della
profittabilità degli investimenti e delle quote di commercio mondiale
non sono il migliore stimolo a dividere in modo concorde le prede con
gli altri concorrenti, specie se sono meno forti.
Per
il momento l’unico dato certo che va registrato è l’aumento delle
contraddizioni tra capitali e tra stati a tutti i livelli, all’interno
dell’asse atlantico e all’interno della Ue che a cascata si estendono
alle varie aree di influenza, dal Medio Oriente all’Africa, all’Asia
orientale. Ne consegue la necessità di seguire con attenzione
l’evoluzione di queste contraddizioni per capirne gli esiti futuri e le
implicazioni pratiche per le politiche delle classi subalterne, che,
sulla base di quanto detto fino a qui, devono ruotare attorno al
contrasto alla Ue e alla eliminazione della integrazione valutaria.
NOTE
1 Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo, Il saggiatore, 2003.
2 Antonio Gramsci, Intellettuali italiani all’estero, in (a cura di) Giovanni Urbani, “La formazione dell’uomo”, Editori Riuniti, Roma 1974. Antonio Gramsci, Interpretazioni del Risorgimento, e Direzione politico-militare del moto, in A. Gramsci, “Quaderno 19 Risorgimento italiano”, Einaudi, Torino 1977.
3 A. Gramsci, Interpretazioni del Risorgimento, Ibidem.
4 Aa. Vv., Una proposta contro la crisi, un milione di addetti nella Pa, Economia e politica, 11 maggio 2017. http://www.economiaepolitica.it/politiche-economiche/europa-e-mondo/una-proposta-contro-la-crisi-un-milione-di-addetti-nella-p-a/
5 Domenico Moro, Le vere cause del debito pubblico italiano, in Keynes blog, 31 agosto 2012. https://keynesblog.com/2012/08/31/le-vere-cause-del-debito-pubblico-italiano/
6
Nelle imprese della manifattura il Mol (margine operativo lordo) sul
fatturato delle imprese italiane al di sopra del livello di piccola
impresa è superiore a quello tedesco. In particolare in quella al di
sopra dei 250 addetti, tra 2008 e 2014, passa dal 5,8 al 6,9%, quello
della Germania passa dal 5,6 al 6,3%. Eurostat, Industry by employment
size class (Nace rev. 2 B-E).
7 Domenico Moro, Perché e come l’euro va eliminato, 14 aprile 2014. https://www.sinistrainrete.info/europa/3598-domenico-moro-perche-e-come-leuro-va-eliminato.html.
8 Karl Marx, Il capitale, Libro I, La genesi del capitalista.
9 Friedrich Engels, L’Origine della Famiglia, della proprietà privata e dello stato.
10 Nicos Poulantzas, Il potere nella società contemporanea, Editori Riuniti, Roma 1979.
11 “Eccesso di democrazia” è il termine utilizzato da Crozier e Huntington in The crisis of democracy, il
rapporto della commissione Trilaterale del 1975. Su questo e sul ruolo
dell’integrazione europea nel contrasto all’eccesso di democrazia vedi
Domenico Moro, Il gruppo Bilderberg, L’élite del potere mondiale, Imprimatur, Reggio Emilia 2014.
12 Agamben, Lo stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
13 Domenico Moro, La Terza guerra mondiale e il fondamentalismo islamico, Imprimatur, Reggio Emilia 2016.
14
Meccanismo di stabilizzazione finanziaria europea. Si tratta di un
programma, gestito dalla Commissione europea, che recupera fondi sui
mercati finanziari per aiutare gli stati in difficoltà, usando come
collaterale il budget europeo.
15 Domenico Moro, Trump risposta alla crisi secolare e apertura della seconda fase della globalizzazione, Sinistra in rete https://www.sinistrainrete.info/geopolitica/8531-domenico-moro-trump-risposta-alla-crisi-secolare-e-apertura-della-seconda-fase-della-globalizzazione.html
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