L’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump produce i suoi effetti in Libia, dove il “governo d’unità nazionale” di
Faiez Al-Serraj, creato dall’amministrazione Obama riverniciando la
precedente giunta islamista di Tripoli, è agli sgoccioli: la capitale,
dilaniata dalle lotte tra fazioni, sta scivolando verso il caos.
La crescente influenza di Mosca sulla Cirenaica si è invece tradotta in
un primo accordo petrolifero, cui è seguito un disperato attacco delle
milizie islamiste per strappare al generale Khalifa Haftar il controllo
dei giacimenti. Il governo Gentiloni, indissolubilmente legato all’era
Obama, si ostina ad appoggiare un esperimento, quello di Faeiz
Al-Serraj, ormai abortito: all’Italia non rimane che affidarsi alla
Rosneft, nella speranza che il colosso russo restituisca all’Eni il
favore ricevuto in Egitto.
“Governo d’unità nazionale”: un bluff cui crede solo più l’Italia
“Errare humanum est, perseverare diabolicum” è una massima che si adatta perfettamente alla sciagurata posizione assunta dal governo italiano sul dossier libico: già
nel nostro ultimo articolo sull’argomento ci eravamo chiesti se non
fosse stato più conveniente per la tutela degli interessi nazionali
sulla “Quarta sponda” se Palazzo Chigi e la Farnesina fossero rimasti
senza inquilini. Il rischio, intuibile da subito e poi concretizzatosi nei primi “100 giorni” del governo Gentiloni, era infatti che Roma continuasse la disgraziata politica del governo Renzi, senza prendere in dovuta considerazione il cambiamento apportato dall’elezione di Donald Trump e le sue molteplici ricadute, compresa la Libia.
Senza analizzare nuovamente il processo di “balcanizzazione” della Libia, scientemente perpetrato dalla NATO dal 2011 in avanti,
ne riportiamo le tappe salienti: nell’estate 2014, formazioni islamiste
appoggiate da angloamericani, turchi e qatarioti, conquistano con un colpo di mano Tripoli, obbligando il legittimo parlamento a rifugiarsi in Cirenaica; il governo di Tobruk, laico e nazionalista, entra nell’orbita dell’Egitto e, nonostante goda per un lungo periodo dell’appoggio di Parigi, intensifica i rapporti con Mosca man man che i francesi sono rimessi in riga;
con il vertice di Shikrat del dicembre 2015, gli angloamericani
“riverniciano” la giunta islamista creando il governo d’unità nazionale,
installato a Tripoli e presieduto da Faiez Al-Serraj. Con questa
mossa, l’amministrazione Obama persegue due obbiettivi: sancire la
divisione della Libia in due entità e coprire i maneggi in Tripolitania
con un manto di legalità. La regione, infatti, resta sotto il controllo
della Fratellanza Mussulmana ed è impiegata dalla NATO come trampolino di lancio dei flussi migratori verso l’Europa. È la cosiddetta “rotta mediterranea centrale” , quella che regala all’Italia la cifra record di 181.000 sbarchi nel 20161.
Le fortune del “governo d’unità nazionale” sono legate alle presidenziali americane dell’8 novembre: solo l’elezione di Hillary Clinton, vicina agli ambienti islamisti ed espressione di quell’establishment liberal che, dal papa Bergoglio allo speculatore George Soros,
incentiva l’immigrazione selvaggia, garantierebbe la sopravvivenza nel
medio termine di Faiez Al-Serraj, offrendogli la necessaria copertura diplomatica e militare. I rivali di Tobruk non perdono tempo, infatti, stringendo alleanze “pesanti”: nel gennaio del 2017 il generale Khalifa Haftar è ospitato sulla porterai russa Kuznetsov di ritorno dalla Siria. L’insediamento di Donald Trump rappresenta quindi uno spartiacque nelle vicende libiche: una netta frattura rispetto al passato, una
frattura che avrebbe dovuto indurre Roma a rimodulare prontamente i
suoi piani, alla luce dei mutati equilibri internazionali. Il governo
Gentiloni prosegue invece come se nulla fosse, potendo contare su quelle
istituzioni che non riconoscono la vittoria di Trump: Dipartimento di Stato americano, NATO ed Unione Europea.
Il 9 gennaio riapre così l’ambasciata
italiana a Tripoli, mossa che scatena l’immediata ed accesa reazione del
governo nazionalista esiliato in Cirenaia (“è una nuova occupazione”2). Il profilo del nuovo ambasciatore è molto eloquente: si tratta di Giuseppe Perrone, capo del consolato generale a Los Angeles dal 2011 fino al 20143 e fedele alla linea pro-islamista e pro-Serraj
lasciata in eredità dall’amministrazione Obama. È una scommessa, quella
italiana, temeraria. Anzi, il termine più appropriato è “sciagurata”. Nonostante
il mutato contesto internazionale, Roma aumentata le puntate su un
cavallo che mostra inequivocabili segni di affaticamento: a distanza di
pochi giorni dalla visita del ministro Marco Minniti a Tripoli, esplodono in città violenti scontri tra le milizie fedeli a Serraj e quelli legate al precedente premier islamista Ghwell,
formalmente decaduto dopo la nascita del governo d’unità nazionale.
Sebbene l’ambasciatore Perrone si affretti a minimizzare l’episodio (“Non
mi risultano scontri in città, sembra che ci siano dei movimenti di
uomini vicini a Ghwell in alcuni uffici, più che in sedi del governo”4), la cruda realtà è che Faiez Al-Serraj controlla a stento qualche edificio.
Il “governo d’unità nazionale” non
dispone di alcuna forza militare e soffre di un grave male congenito:
essendo stato calato dagli angloamericani sull’enclave islamista di
Tripoli e dintorni, vive in balia delle milizie di Alba della Libia, le stesse che conquistarono la capitale nel 2014 e continuano a dettare legge nell’ovest del Paese, gestendo indisturbate i flussi migratori
per conto della UE/NATO. Non solo. Le ambizioni del premier Faiez
Al-Serraj sono rese ancora più velleitarie dal mancato controllo
dell’unica fonte di ricchezza nazionale, quella che consente al Paese di
importare beni di prima necessità e pagare i dipendenti pubblici: i campi petroliferi. La
“Mezzaluna petrolifera” che affaccia sul Golfo della Sirte è sotto il
controllo del governo di Tobruk e, sebbene i proventi della produzione
di greggio, risalita nell’autunno 2016 dai 200.000 ai 700.000 barili al giorno, siano incamerati dalla National oil corporation5,
super-partes ed ultimo retaggio dell’era Gheddafi, non c’è alcun dubbio
che l’estrazione dipenda in ultima analisi dal generale Khalifa Haftar.
È certamente il controllo della Mezzaluna petrolifera da parte di Haftar a indurre la National oil corporation a siglare il primo significativo contratto dalla caduta di Gheddafi con il maggiore sponsor del governo di Tobruk: la Russia. Il 21 febbraio, il presidente della compagnia statale libica firma un accordo preliminare con la russa Rosneft6, la stessa società che è entrata nel maxi-giacimento egiziano di Zohr, acquistandone una quota del 30% dell’ENI: Mosca
consolida così le posizioni non solo nel Mediterraneo orientale ma
addirittura in quello centrale, vanificando i tentativi, culminati con
l’intervento della NATO in Libia del 2011, di estrometterla dalla
regione. L’affronto è troppo perché l’establishment
atlantico, lo stesso che trama a Washington per estromettere Donald
Trump dalla Casa Bianca, non risponda: urge a tutti i costi strappare i
giacimenti petroliferi dal governo di Tobruk e, di riflesso, dalla
Russia.
Ai primi di marzo è condotto così un disperato tentativo per riconquistare la Mezzaluna fertile: partecipano all’operazione gli islamisti espulsi da Bengasi dopo lunghi e feroci combattimenti con le truppe di Haftar (ora ridenominati “Brigate di Difesa di Bengasi”), le milizie altrettanto radicali di Misurata, che lavorano gomito a gomito con le truppe inglesi7 e gli estremisti del Libyan Fighting Group,
da sempre al soldo degli angloamericani. L’attacco sortisce in un primo
momento discreti risultati, tanto che, galvanizzati dalla rapida
avanzata, i miliziani promettono addirittura di marciare fino a Bengasi
per “liberarla” dall’Esercito Nazionale Libico. Il governo italiano,
sempre adagiato alla linea atlantica, saluta con favore l’effimero successo delle milizie islamiste: “la scommessa dell’Italia: puntare sulla capacità di Serraj di controllare le milizie filo-islamiche”8 scrive la Repubblica, riportando che sia Giorgio Starace, inviato speciale del governo italiano per la Libia, sia l’ambasciatore Giuseppe Perrone, guardano con soddisfazione agli sviluppi in corso. “L’Italia
saluta con favore il fatto che il Governo di accordo nazionale di
Tripoli abbia ristabilito il pieno controllo sui terminal della
Mezzaluna petrolifera”: è inutile dire che le esternazioni italiani scatenano dure critiche a Tobruk.
Il successo degli islamisti si rivela però un fuoco di paglia: assistito, secondo quanto sostengono il Pentagono ed i media statunitensi9, dalla Russia, che gli avrebbe messo a disposizione mercenari, corpi speciali e droni,
il generale Haftar riconquista il 14 marzo la Mezzaluna petrolifera,
infliggendo un duro colpo alle milizie islamiste ed al “governo d’unità
nazionale”. La scommessa del governo e della diplomazia italiani,
totalmente al rimorchio dell’establishment atlantico timoroso che Mosca
possa “interferire” in Libia, si rivela così un clamoroso fallimento,
reso ancora più umiliante da quanto avviene quasi in contemporanea a
Tripoli: nella capitale riesplodono gli scontri tra milizie pro-Serraj e
milizie islamiste, precipitando la città nella guerriglia urbana, dopo settimane di scontri a bassa intensità.
Chiunque, a questo punto, avrebbe colto
la necessità di abbondare il premier Faiez Al-Serraj e l’effimero
“governo d’unità nazionale” al suo destino: chiunque, ma non il premier Paolo Gentiloni, che
si ostina a riconoscere come unico interlocutore il governo di Tripoli,
in ossequio alle direttive ricevute dall’amministrazione Obama. È anche
decisamente sfortunato il presidente del Consiglio: quando il 20 marzo
si riunisce a Roma il gruppo di contatto Europa-Africa, fortemente
caldeggiato dal governo italiano per fronteggiare l’emergenza
migratoria, il premier Faiez-Al Serraj raggiunge l’Italia lasciandosi
alle spalle una Tripoli in preda all’anarchia, dilaniata
da faide e scontri tra fazioni, tanto da rendere incerta la sua partenza
fino all’ultimo. La capitale è lo specchio di un “governo d’unità
nazionale” che esiste soltanto più sulla carta: un bluff sin dalle origini e durato più di anno. Un bluff cui nessuno crede più, tranne Roma.
Di fronte all’incapacità della nostra
politica di difendere gli interessi nazionali, si può solo auspicare che
Mosca ed il Cairo, contando sul disinteresse di Donald Trump per le
sorti del “governo d’unità nazionale”, forniscano il sostegno necessario
al generale Haftar ed alle forze armate di Tobruk per riunificare il
Paese, attuando quella “marcia verso Tripoli” più volte annunciata negli
ultimi due anni. Come Mosca è entrata in Egitto tramite l’ENI e l’acquisto di una quota del giacimento Zohr, così Roma potrebbe a quel punto tornare in Libia tramite la Rosfnet e
lo sviluppo congiunto delle concessioni: in mancanza di una politica
estera, bisogna accontentarsi dei surrogati e della capacità del cane a
sei zampe di supplire alla Farnesina.
Nessun commento:
Posta un commento