9 marzo 2017
Il patriarcalismo in
Europa esiste solo come residuo di un tempo ormai trascorso, al di fuori
forse di alcune comunità musulmane immigrate in cui padri-padroni
cercano di imporre alle mogli e alle figlie le loro scelte religiose e
matrimoniali. La tendenza generale della società capitalistica è quella
del superamento del patriarcalismo, che pure ha caratterizzato non solo
le società precapitalistiche, ma anche la prima fase proto-borghese
del capitalismo stesso, in cui ci imbattiamo nel sospetto positivistico
verso le donne (Comte, Nietzsche, Weininger), seguito dalla
sistematizzazione psicoanalitica di Freud, che sarebbe
stata impossibile al di fuori del contesto borghese e patriarcale in
cui è stata concepita. Ma oggi il patriarcalismo, appunto per la sua
natura vetero-borghese, è del tutto incompatibile con un dominio
integrale della forma di merce, che non sopporterebbe tabù sorti in
un’epoca precedente.
Il modo in cui oggi il capitalismo affronta la questione femminile è fondato su una mescolanza di maschilismo e femminismo.
Lungi dall’essere opposte, queste determinazioni sono del tutto
complementari. Il profilo “maschilista” prevale nel processo di accesso
del sesso femminile a tutti i ruoli possibili all’interno della
produzione capitalistica. Questo profilo semplicemente inserisce nei
tradizionali ruoli maschili esseri androgini di entrambi i sessi.
Il profilo “femminista”, che nulla ha a
che fare con il vecchio e nobile processo di emancipazione femminile del
periodo eroico borghese e socialista, tende ad un
vero e proprio obiettivo strategico della produzione capitalistica, la
guerra fra i sessi e la correlata diminuzione della solidarietà fra
maschi e femmine. Per questa ragione, sono veramente illusi
coloro (penso a Immanuel Wallerstein) che inseriscono il femminismo
nel novero dei cosiddetti movimenti “antisistemici” e anticapitalistici.
Al contrario, il femminismo rappresenta una delle
correnti meno comunitarie e più organiche al capitalismo che esistano.
Questa tesi può sembrare scandalosa e perciò occorre dilungarsi un po’
per motivarla. A questo scopo, bisogna risalire ab ovo, cioè agli inizi
del processo storico (a mio avviso innegabile) di subordinazione del
sesso femminile all’ordine maschile della società.
Due mi sembrano essere le concezioni
teoriche che negano il carattere integralmente storico della
subordinazione delle donne all’ordine maschile della
società. In primo luogo, la teoria sociobiologistica del cosiddetto
“dimorfismo”, secondo la quale la subordinazione delle donne sarebbe
dovuta alla minore forza fisica del corpo femminile rispetto a quello
maschile, che si sarebbe poi duplicata in una gerarchia di ruoli fissi
di dominio e obbedienza.
In secondo luogo, ed in modo molto più sofisticato della precedente, la teoria strutturalistica di Lévi-Strauss,
per cui tutte le società umane si basano sulle leggi dello scambio, e
lo scambio fondamentale sarebbe appunto quello delle donne fra i diversi
gruppi. Senza scendere nei particolari, queste due concezioni mi
sembrano carenti, e lo sono per un unico motivo, che è quello della
sottovalutazione del carattere “generico” della produzione umana di
società.
I sostenitori del determinismo
del dimorfismo fisico, infatti, sottovalutano l’importanza del momento
sociale e simbolico nella fissazione dei ruoli umani nella divisione del
lavoro. I sostenitori dello strutturalismo, invece, finiscono con il
negare l’elemento dialettico che ad un certo punto modifica in modo
qualitativo le stesse forme comunitarie della riproduzione umana. Gli
esseri umani, infatti, non sono api, formiche e termiti che, per
informazione genetica acquisita, riproducono sempre lo stesso schema di
socializzazione etologica (alveari, formicai, termitai). Con questo,
ovviamente, non intendo affatto liquidare le argomentazioni dei
dimorfisti e degli strutturalisti che so essere molto sapienti e nutrite
di ripetute osservazioni comparative, ma solo affermare la mia
preferenza per una spiegazione di tipo storico-genetico.
È noto che i classici del marxismo,
ed in particolare Engels, si sono occupati dell’origine storica
dell’oppressione femminile, ma dovettero farlo all’interno dello schema
positivistico di spiegazione sociale. Già Bachofen, nel 1861 , aveva
fatto l’ipotesi di un primitivo matriarcato, ossia di un primitivo
potere delle donne sugli uomini, a partire da un’analisi comparativa dei
miti di fondazione e della presenza esorbitante di divinità femminili.
La mentalità positivistica odiava la contraddizione, e le pareva allora
assurdo che potessero coesistere potere degli uomini e fondamento
religioso matriarcale. Come può infatti un patriarcato materiale
fondarsi su un matriarcato ideale?
A distanza di oltre un secolo,
l’antropologia attuale si è fatta più cauta e sofisticata. Mancando qui
lo spazio per una discussione delle diverse tesi proposte, arriverò
subito alla conclusione che mi sembra più plausibile. Mi pare che si
possano distinguere tre diversi momenti evolutivi, tutti interni a una
strutturazione ancora “comunitaria” della società. In
un primo momento storico, durato probabilmente molto a lungo, la
scarsissima divisione del lavoro e la terribile brevità della vita umana
comportarono una fortissima eguaglianza di mansioni e di consumi fra i
due sessi, per cui si può dire che non solo in quelle comunità non c’era
ancora classismo, ma neppure una vera divisione funzionale del lavoro
fra i sessi. In un secondo momento storico, con l’invenzione delle armi
da lancio, di nuove tecniche di caccia da un lato, e dell’agricoltura
dall’altro, ci fu presumibilmente un approfondimento nella divisione del
lavoro nella comunità.
Questo non portò ancora a un ordine
sociale di classi, ma forse già di “Iignaggi”, cioè di discendenze
materne e paterne con annesse abitudini generalizzate di abitazione e di
convivenza familiare. In proposito, per aprire una breve parentesi
sulla società greca, la condizione sociale migliore delle donne
nell’aristocratica Sparta piuttosto che nella democratica Atene,
era dovuta proprio alla sopravvivenza di costumi prevalenti in questa
seconda fase, dal momento che gli spartiati mangiavano e dormivano in
comunità maschili ma le donne non erano escluse né dagli spettacoli, né
soprattutto dalla ginnastica (come peraltro avviene anche nella
dittatura eugenetica di Platone).
In un terzo momento, infine, si stabilizzarono effettivamente (anche se non in tutte le società del mondo) le classi sociali,
la proprietà privata e l’ordine simbolico maschile della società, che
peraltro coesistette sempre con l’esistenza di divinità femminili.
Trascuro qui i pur affascinanti dettagli della storia degli ultimi due
millenni, in cui le donne non cessarono mai di resistere e di
rivendicare le loro sfere indipendenti di azione e di movimento, per
giungere all’oggi.
Faccio solo notare che il sesso femminile,
pur oppresso e discriminato in vari modi, ha spesso esercitato il ruolo
di “custode simbolico della comunità” contro le derive
individualistiche. Questo non può essere ridotto alla spiegazione per
cui gli uomini avrebbero “costretto” le donne a occuparsi di cose
comunitarie come i bambini e i vecchi, mentre loro si davano ad
occupazioni più nobili. Al contrario, ritengo che l’esercizio del ruolo
comunitario da parte delle donne sia stato proprio frutto di una
autonoma “saggezza di specie”, che lo storicismo non può capire e non
capirà mai, ma che resta un imprescindibile elemento di spiegazione
materiale della storia.
Il passaggio storico dalla tarda società signorile europea
alla prima società capitalistica proto-borghese vide un peggioramento
della posizione sociale delle donne. Anche questo non è un fatto
sorprendente. L’accumulazione capitalistica primitiva mette in primo
piano virtù militari e competitive fortemente maschili, ed è del tutto
normale che una concezione fortemente proprietaria e individualistica
porti ad estendere il diritto di proprietà anche alla moglie e ai figli.
L’Ottocento ci offre un incredibile florilegio antologico di
pregiudizi e di banalità verso il sesso femminile, per cui è utile porsi
delle domande storiche radicali.
O tutti questi personaggi ottocenteschi
erano solo dei misogini, oppure, se vogliamo evitare spiegazioni
virtuose ma tautologiche, dobbiamo concludere che l’instaurazione
originaria dell’ordine capitalistico non poteva che accompagnarsi a un
raddoppiamento simbolico patriarcale fondato sull’illusione
dell’eternizzazione dell’ordine maschile. Si trattava però di un momento
temporaneo e non certo di una caratteristica permanente del funzionamento dell’ordine capitalistico.
Come il capitalismo ha bisogno, per il
suo “innesco”, di un soggetto sociale collettivo denominato “borghesia”,
così ha bisogno di un ornamento simbolico patriarcale, non a caso
caratterizzato da uomini muniti di barba e baffi, da un lato, e di donne
strette e soffocate in busti di stecche di balena, dall’altro. Se
guardiamo gli sbiaditi dagherrotipi color seppia delle foto di fine
Ottocento, notiamo che i caratteri sessuali maschili e femminili, sia
pure coperti, sono infinitamente più marcati di quanto avviene in
qualunque immagine pornografica di oggi.
AI contempo, il corpo femminile non è ancor trasformato in oggetto di consumo,
ma è caratterizzato da una estremizzazione della femminilità sia
fisica che spirituale. Prostituta e/o madre di famiglia, la donna non
cerca ancora di mimetizzarsi in un ruolo maschile e non ha neppure
bisogno di dichiarare una guerra compensativa contro il maschio.
In questo contesto, che era classista
ma in parte ancora comunitario, era inevitabile che si sviluppasse un
movimento per l’eguaglianza dei diritti fra donne e uomini, che
interessò parallelamente sia il movimento operaio e socialista che le
correnti liberali e democratiche dette “borghesi”. Questo movimento
portò progressivamente il sesso femminile non solo al
suffragio universale e alla eleggibilità delle cariche, ma anche e
soprattutto all’accesso alle professioni maschili più prestigiose.
Naturalmente, il fatto che le donne arrivassero prima all’insegnamento e
soltanto dopo alla facoltà di medicina, ci permette di stabilire senza
errori la gerarchia simbolica e soprattutto di reddito che l’ordine
maschile aveva organizzato nei secoli precedenti.
I movimenti fascisti e nazionalsocialisti
cercarono, tranne eccezioni, di ricacciare le donne nella sfera del
privato familiare e della irrilevanza pubblica. Si trattava di una
posizione antistorica perché nessun comunitarismo moderno può essere
proposto senza tener conto di alcuni dati irreversibili dello sviluppo
umano, fra cui – sintomo sicuro del processo di universalizzazione
mondiale in corso – c’è prima di tutto l’eguaglianza sia giuridica che
simbolica tra i sessi. E ricordo qui la lotta di Hegel, pensatore fino
in fondo comunitarista, contro il comunitarismo retrogrado e gerarchico
dei “vecchi ceti” signorili e feudali.
Lo scenario attuale, che deve essere
compreso fino in fondo nella sua dinamica disgregativa di ogni possibile
comunità umana, è quello della complementarietà, raramente avvertita
come tale, fra il maschilismo mimetico e il femminismo separatistico. Il
primo si copre sotto l’ideologia economica del produttivismo
e dell’aziendalismo, mentre il secondo si copre sotto una metafisica
astorica del differenzialismo e della guerra tra i sessi. Bisogna dunque
studiare non solo queste due forme ideologiche separate, ma soprattutto
la loro essenziale complementarietà.
Per la prima volta nella storia dell’umanità la figura asessuata
dell’imprenditore realizza i sogni (o gli incubi) dell’androgino puro.
Il ruolo dell’imprenditore capitalistico, che in origine era un ruolo di
tipo maschile esemplificato sui precedenti ruoli maschili del guerriero
e del mercante, si apre al sesso femminile, ma pretende da questo sesso
una iniziazione che lo porti infine a una forma di maschilismo
mimetico. In questo senso, le pubblicità televisive di donne in
carriera sono assolutamente esilaranti.
L’irruzione, alcuni decenni fa, del femminismo separatistico
deve essere fatta oggetto di ipotesi storica e genealogica. Proprio
quando il processo di emancipazione femminile si stava realizzando,
anche sulla base della coltivazione del complesso di colpa del maschio,
si delinea uno strano movimento che nega la storia ed adotta una
ideologia astorica di tipo differenzialistico, che assomiglia
sinistramente al dimorfismo ontologico e biologico dei tradizionali
sostenitori della legittimità del dominio maschile sulle donne.
Da un punto di vista generale, il
femminismo di tipo universitario si situa all’interno di una
generalizzata reazione contro la storia che percorre il ventennio
1970-1990, e che non può essere disgiunto dalla ricaduta delle
delusioni rivoluzionarie del decennio precedente. Il femminismo
ci aggiunge una reazione furiosa contro l’intero universo sociale e
comunitario (necessariamente composto da uomini e donne). Come avviene
per tutti i miti differenzialistici dell’origine, il femminismo presenta
una natura estremamente individualistica. Una delle prime teoriche del
femminismo italiano, Carla Lonzi, debutta con un libro intitolato
Sputiamo su HegeL. Mai obiettivo fu scelto tanto bene, in quanto
colpendo Hegel si colpisce al cuore la migliore forma filosofica di
comunitarismo moderno.
Laddove la guerra fra le classi
disturbava pur sempre l’economia, la guerra fra i sessi non la disturba
affatto. Oggi sembra che – per fortuna – il femminismo sia in declino e
le residue femministe vengono mobilitate per avallare i bombardamenti
sull’Afghanistan in nome della liberazione dal burka e dal chador. Il
senso della storia universale non è più orientato dall’ideale di una
comunità umana senza classi e senza sfruttamento, ma dal passaggio dal
velo islamico alla minigonna. E chi si contenta gode.
(da “Elogio del comunitarismo” di Costanzo Preve. “Controcorrente”, Napoli, 2006)Preso da: http://www.oltrelalinea.news/2017/03/09/preve-femminismo-organico-al-capitalismo/
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