Quello che era iniziato come un giorno
normale per una giovane e ordinaria donna qui in Libia si è traformato
in un incubo, quando una guardia di sicurezza dell’università pubblica
l’ha fisicamente e verbalmente aggredita, cercando di bloccare il suo
ingresso in classe perché non portava il velo.
L’assalto pubblico nel mese di aprile
alla donna, di nome Hind, non è unico, ma è piuttosto raro. Come i
libici a volte mi dicono, il loro Paese è formato da musulmani
conservatori – ma ancora moderati.
Come spesso accade in questi giorni in
Libia, la guardia e il suo compagno hanno preso la situazione nelle
proprie mani. Non c’era alcuna base giuridica per la loro azione. In
assenza di legge e ordine, e dopo due anni di vuoto di responsabilità,
individui, paramilitari e milizie impongono la loro “giustizia” secondo i
propri standard e credenze. Gli ultimi sforzi dell’ex generale Khalifa
Belqasim Haftar e della sua coalizione di forze per cercare di
intervenire e assumere il controllo favoriscono solo l’instabilità della
situazione.
In questo vuoto giuridico, ci sono altri fattori che influenzano il comportamento dei libici. Una fatwa
del marzo 2013 del gran mufti della Libia che prevede che le donne
possono frequentare un’università solo se strutturata secondo la
segregazione dei generi sessuali, ha recentemente causato un tumulto. Un
precedente appello del chierico era andato anche oltre, chiedendo la
segregazione di genere in tutte le istituzioni pubbliche, università e
ospedali. La fatwa del marzo 2013 ha anche invitato le
studentesse a vestire secondo le tradizioni islamiche, che comprendono
anche il coprire i capelli, per contrastare i pericoli di “mescolanza”
tra i sessi.
A diverse centinaia di miglia dalla
capitale Tripoli, c’è la città di Derna, un bastione per le milizie
dell’ideologia autoproclamatasi “islamista”. A Derna, come è stato
riferito, l’università ha cominciato la costruzione di un muro in mezzo
al campus per separare le femmine dagli studenti di sesso maschile,
interrompendone gli studi e limitandone l’accesso. Una milizia posta
sotto contratto per la protezione dell’università aveva previsto la
segregazione come condizione per garantire i suoi servizi.
Ci sono altri esempi. Dar-al Ifta,
principale istituzione religiosa della Libia, che emette editti
religiosi e alla quale appartiene il gran muftì, come riferito ha
chiesto lo scorso anno al governo di non approvare i contratti di
matrimonio tra donne libiche e uomini non libici, per paura che le donne
avrebbero potuto essere indotte in errore a sposare uomini di altre
confessioni religiose. Questi appelli hanno causato una levata di scudi e
non sono diventati legge, ma il governo ha momentaneamente fermato il
rilascio delle licenze matrimoniali. La stessa autorità religiosa ha
chiesto a una donna di essere accompagnata da un tutore se vuole
abbandonare il Paese.
Nel mese di aprile, un addetto alla
sicurezza dell’aeroporto di Tripoli ha cercato di evitare che la figlia
di un ex parlamentare di primo piano salisse a bordo di un aereo con i
suoi tre figli, chiedendo, secondo il racconto del fratello, che mi ha
riferito i dettagli dell’incidente, il “permesso” del marito affinché
lei potesse viaggiare. Sua madre, che era presente, ha minacciato ad
alta voce, di fronte all’ufficiale, azioni legali. La figlia è riuscita a
imbarcarsi quel giorno, ma solo dopo che il marito ha parlato per
telefono con il responsabile della sicurezza.
La gran parte delle molestie e degli
attacchi alle donne da parte delle milizie o di singoli individui non
vengono denunciati e sono incontrollati. Quando ho chiesto a una vittima
se avesse sporto denuncia alla polizia, la sua risposta fu l’eco di
quello che ho sentito già tante volte: «Quale polizia? La polizia non
può fare nulla per me, le milizie sono troppo potenti».
Giornalisti e attivisti sono spesso
vittime di molestie. Nel mese di aprile, le persone preposte alla
sicurezza, hanno chiesto alle giornaliste straniere di indossare il velo
quando hanno preso parte, a Tripoli, al processo contro ex funzionari
del governo di Gheddafi. All’inizio di quest’anno, due giornalisti
libici non sono stati autorizzati a partecipare a un processo presso la
stessa corte in quanto donne.
Sono passati oltre due anni
dall’assassinio e dalla fine di Muammar al-Gheddafi, e il panorama della
sicurezza in Libia è frammentato come la sua politica è polarizzata e i
suoi organi legislativi eletti mal funzionanti. Più di due anni di
impunito regno delle milizie hanno lasciato il segno, e la violenza
continua la sua spirale fuori controllo.
Queste restrizioni sempre più
preoccupanti interferiscono con il diritto delle donne all’educazione e
allo spostamento. Le autorità libiche devono chiarire alle istituzioni
educative e ai loro funzionari statali, così come agli attori sociali
non statali, che la discriminazione contro le donne non sarà tollerata. E
devono riformare le leggi e le pratiche discriminatorie.
Nel frattempo, la madre di Hind –
un’eminente scrittrice lei stessa vittima di molestie e minacce a causa
delle sue opinioni – mi ha detto che sua figlia, una studentessa, si era
sentita umiliata e terrorizzata quando la guardia l’ha espulsa dalla
classe. Lui le disse: «Ti seguirò fino a quando non indosserai l’hijab».
I genitori di Hind, disillusi come tanti
altri cittadini libici, stanno pensando di mandarla all’estero per
poter continuare a studiare. «Ho paura per mia figlia», mi ha detto la
madre. «Vorrei che se ne andasse». Hanan Salah è ricercatrice per la Libia di Human Right Watch.
Da Los Angeles Times - Traduzione di Paolo B. per CIVG
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