1/11/2014
L'intervista a Paolo Sensini autore di "Libia 2011" sull'incubo dimenticato dai media
di Francesca Morandi
Dopo l’ennesima guerra “boomerang” dell’Occidente, ora l’Isis è in Libia, a mille chilometri dall’Italia. L’allarme è stato lanciato dall’inviato speciale delle Nazioni Unite, Bernardino Leon che, lo scorso 7 ottobre, ha affermato: “Gli jihadisti dello Stati islamico sono già presenti in Libia e la loro minaccia è concreta”. Il governo italiano è silente ma l’emergenza per l’Italia è in atto. Dal Paese nordafricano, che si affaccia sul Mediterraneo e dista poche ore di navigazione dalle nostre coste, proviene la quasi totalità dei flussi di migranti che sbarcano in Sicilia. “Un’eventuale avanzata dei miliziani sunniti dello Stato islamico (Is o Isis) moltiplicherà i flussi di migranti in fuga dalle violenze – sostiene Paolo Sensini, autore di “Libia 2011” (ed. Jaca Book - 2011) e “Divide et impera. Strategie del caos per il XXI secolo nel Vicino e Medio Oriente” (ed. Mimesis - 2013) –. Continueranno i traffici di esseri umani con i quali le milizie libiche si finanziano la guerra e il rischio di infiltrazioni terroristiche diventerebbe altissimo. Inoltre, gli interessi energetici e commerciali dell’Italia in Libia sarebbero irrimediabilmente compromessi”.
- Cosa può fare la comunità internazionale?
“Le potenze occidentali, i loro alleati delle petro-monarchie del Golfo e la Turchia dovrebbero subito operare un embargo totale di armi verso le milizie islamiste, ma, considerato quanto accaduto finora, è del tutto utopistico che questo avvenga. Con la sola logica delle bombe non si può sconfiggere l’ideologia jihadista dell’Is, che fa leva su sentimenti anti-occidentali diffusi tra ampie fette delle popolazioni islamiche. Da anni era noto a tutte le intelligence che in Libia prosperavano gruppi terroristi. Penso a un pamphlet, redatto nel 2007 dalla prestigiosa Accademia Militare americana di West Point, in cui si affermava che un altissimo numero di terroristi islamici catturati dagli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan provenivano proprio dalla regione libica della Cirenaica.
- Tre anni fa Usa, Francia e Regno Unito sostenevano la necessità di una guerra in Libia per ragioni umanitarie nel corso della cosiddetta “Primavera araba”…
Con campagne mediatiche improntate alla disinformazione alcuni Stati occidentali e mediorientali hanno sostenuto un colpo di Stato in Libia. Si è trattato dell’ennesima guerra per far cadere il “tiranno sanguinario”, in questo caso il colonnello Muammar Gheddafi, e mettere le mani sulle riserve energetiche e monetarie libiche. I rischi di intromettersi in quel ginepraio erano altissimi: il Paese è sempre stato un complesso mosaico etnico-tribale, dove gruppi contrapposti innervano da sempre il tessuto connettivo della Libia. Eppure alcune potenze, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti in primis, hanno deciso un intervento militare.
L’Italia, che aveva siglato nel 2008 accordi energetici, commerciali e politici con Tripoli, non voleva inizialmente entrare in guerra, ma bastò una telefonata del presidente americano Barack Obama all’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e anche Roma appoggiò l’intervento della Nato. In Libia il governo italiano ha sostenuto una guerra contro i propri interessi e oggi siamo noi i più colpiti dal caos libico. Non è accettabile che l’Italia conduca una politica internazionale in cui non sia in grado di dialogare “alla pari” con gli alleati, di cui subisce i continui diktat.
- La settimana scorsa proprio i governi di Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Usa hanno avanzato una dichiarazione congiunta nella quale condannano le milizie in guerra in Libia e annunciano sanzioni. Serviranno?
E’ paradossale che oggi l’Occidente sanzioni coloro che ha sostenuto e finanziato tre anni fa, ovvero i “ribelli” libici in funzione anti-Gheddafi, che sono poi improvvisamente divenuti temibili terroristi. Questo senza nulla togliere alle gravi responsabilità di altri “attori” mediorientali. Le sanzioni sono l’ennesima boutade politico-mediatica che non sortirà alcun effetto.
- Una missione di interposizione dell’Onu in Libia è pensabile e opportuna?
Le decine e decine di milizie in campo in Libia non accetteranno alcun disarmo. Inviare “truppe di terra” è molto pericoloso, vista la situazione in atto. E, a fronte di quanto già accaduto in Iraq o Somalia, ritengo sia del tutto controproducente.
- In fasi acute della guerra libica Tunisia, Algeria e Egitto hanno chiuso le loro frontiere. L’Italia non l’ha mai fatto…
L’Operazione “Mare Nostrum”, che ha creato una sorta di “magnete” per i flussi di migranti, dovrebbe essere immediatamente sospesa. Mettere un limite ai flussi è una strada obbligata, ne va della nostra sicurezza per molteplici ragioni. Tuttavia non sono certo che si riuscirà a farlo, in quanto non abbiamo più la sovranità sulle nostre frontiere perché siamo all’interno dell’Unione Europea, che condiziona le scelte dei nostri governanti. L’Ue ci “suggerisce” di tenere le “porte aperte” ai flussi migratori, ma poi non vuole farsene carico con un’equa distribuzione dei migranti>.
- Che cosa fare?
Bisogna fermare immediatamente l’afflusso di armi verso la Libia, prima che diventi una nuova Siria o un nuovo Iraq. Ma ciò è complicato dal fatto che, come in Siria, non siamo di fronte a una classica “guerra civile”. In Libia continuano le ingerenze da parte di Stati esterni: Egitto e Emirati Arabi sostengono il governo in esilio a Tobruk, mentre i gruppi islamisti sono fiancheggiati da Qatar, Turchia, Sudan e dal cosiddetto Stato islamico. In altre parole, vi sono interessi e alleanze che confliggono a livello regionale incancrenendo sempre più la situazione.
- Dall’Iraq alla Siria fino alla Libia, i cristiani sono in fuga. Perché nessuno pare preoccuparsene tra i nostri politici?
La presenza dei cristiani in quei Paesi è millenaria. È dall’inizio del cristianesimo che essi vivono in quei luoghi ma oggi l’impressione è che si preferisca occuparsi di tutti i disperati del mondo ma non di loro, pur essendo parte integrante dell’identità europea. Va detto che anche gli islamici sono vittime della diffusione del wahabismo, un’interpretazione particolarmente brutale e dogmatica dell’Islam utilizzato come base dottrinale dagli jihadisti dell’Is, che considera infedeli gli sciiti ma anche quasi tutte le altre declinazioni del mondo sunnita. Attualmente sono in corso ferventi dispute di carattere teologico sul wahabismo che, secondo diversi osservatori, sta cercando di plasmare l’Islam sunnita a sua immagine e somiglianza connotandolo in maniera sempre più barbara e violenta.
Preso da: http://www.lantidiplomatico.it/dettnews.php?idx=6&pg=9234
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