Scritto da adriano dirri – 8 gennaio 2014 – 14:51
sono passati 3 anni dalla "fine" della guerra civile e dell’intervento della coalizione dei volenterosi, in base all’ormai nota motivazione della “responsability to protect”, anche nota come R2P; essa è stata la norma sulla cui base è stata attaccata la Serbia nel 1999, poi formalizzata nel 2006 con Risoluzione del Consiglio di Sicurezza, in cui si afferma che lo Stato abbia la responsabilità di proteggere i propri cittadini dalle atrocità di massa (pulizia etnica, genocidio ecc.) e che, nel caso di negligenza nonché di incapacità, la comunità internazionale divenga la diretta responsabile nei confronti del popolo oppresso, con quindi il dovere di intervenire, anche militarmente, come ultima opzione. Tale questione tuttavia si interseca con una prassi in cui alcune questioni vengono amplificate, per interessi geopolitici ed economici, mentre altri minimizzati perché le relative entità statuali sono considerate partnership commerciali o semplicemente “amici”.
Gli sconvolgimenti attorno al bacino del Mediterraneo, ormai in essere da più di tre anni, offrono numerosi case study, come in primis la Siria, poi il Bahrein, l’Egitto e non ultima la questione libica, che offre ulteriori spunti di analisi – come già fatto qui, anche alla luce dei fatti che si susseguono in questi mesi. Vengono evidenziate ulteriori problematiche, in quanto, al già discutibile dossier libico intriso di interessi egemonici anglo-francesi, si aggiunge il famoso “e poi”, che inevitabilmente si presenta alla fine di qualsiasi ostilità, sopratutto quando si giunge ad un cambio di regime politico istituzionale, come nel caso in esame.
Il problema dello State building è di gran lunga la conseguenza maggiore dove si è cercato in adottare un Nation building (senza passare per la via del consolidamento delle istituzioni) con modalità proprie della nostra storia; in realtà dalla diversa connotazione sociale, in cui la Nazione è la tribù e non lo Stato, la questione State building si complica, soprattutto se la si trascura e la si lascia in balia delle divisioni settarie tra tribù, con l’aggiunta di sempre maggiori ed influenti elementi salafiti.
Non a caso, tipico di queste entità statuali post coloniali, sono stati leader più o meno carismatici che hanno instaurato regimi autoritari di vario genere e di varia longevità, capaci di coagulare la maggior parte delle tribù o clan che compongono il sostrato socio culturale delle relative società; era inevitabile che, la caduta di un regime più che quarantennale, portasse a divisioni settarie che sarebbero state difficili da gestire dalle nuove istituzioni libiche. Si cerca quindi di dare un quadro fattuale che renda, oltre le dissertazioni teoriche di cui sopra, abbastanza chiara la situazione nell’ex colonia italiana.
Negli ultimi mesi sono avvenuti fatti importanti il cui principale, dal punto di vista istituzionale, è stato sicuramente la autoproclamazione dell’autonomia da parte della Cirenaica dal governo di Tripoli, il 23 ottobre 2013; durante la monarchia precedente al regime di Gheddafi, la Libia era uno Stato federale, diviso in tre regioni, la Tripolitania, la Cirenaica e il Fezzan. Tripolitania e Cirenaica sono state sempre regioni con una rivalità che risale agli anni 50′, quando in Libia era presente la monarchia.
Elemento simbolico di tale situazione è stata l’istituzione di una nuova compagnia petrolifera in cirenaica, la Libya Oil and Gas Corporation (LOGC), istituita direttamente dal Political Bureau of Cyrenaica (PBC), governo della Cirenaica autonoma; inoltre il PBC è guidato da Ibrahim Said al-Jadhran, capo delle milizie preposte al controllo degli impianti energetici della cirenaica.
Oltre a problematiche istituzionali – nel caso in esame il delicato rapporto centro periferia, vi sono ulteriori tensioni legate alla composizione etnica per clan e alla presenza di gruppi salafiti/jihadisti, tanto che la nuova Libia ha già la propria giornata nera, ossia venerdì 15 novembre, quando a seguito di una manifestazione dei residenti di Tripoli sono scoppiati pesanti scontri con le milizie di Misurata, che hanno lasciato sul terreno circa 50 vittime.
Di natura salafita sono invece i problemi a Bengasi e a Derna, in Cirenaica, ove da mesi si susseguono una serie omicidi, rapimenti, attentati ed anche scontri ai danni delle forze di sicurezza libiche. Il 25 novembre è avvenuta una vera e propria battaglia a Bengasi tra forze di sicurezza e i miliziani di Ansar Al-Sharia, lo stesso gruppo a cui è attribuito l’assalto all’ambasciata USA l’11 settembre 2012, in cui morì l’ambasciatore statunitense Chris Stevens; il 5 dicembre è stato ucciso un altro cittadino americano, Ronnie Smith, insegnante della Scuola Internazionale di Bengasi, con altri tre importanti ufficiali dei servizi di sicurezza libici. Le ultime cronache risalgono al 20 dicembre, giorno dell’uccisione a Derna di Fethallah al-Fituri, capo dei servizi di intelligence militari di Bengasi, al 22 dicembre quando nella notte è esplosa un’autobomba in una base dell’esercito libico nei pressi di Bengasi, uccidendo 13 soldati e infine al 23 dicembre con l’uccisione di un altro ufficiale delle forze speciali.
Le Nazioni Unite, in una dichiarazione del Presidente del Consiglio di Sicurezza, hanno espresso recentemente «it’s grave concern at the worsening security situation and political divisions, which threaten to undermine the transition to democracy that meets the aspirations of the Libyan people»; oltre a ciò ha richiamato anche i principi tipici dello Stato moderno, ossia la sovranità, indipendenza, integrità territoriale e unità nazionale in Libia, rendendo evidente come sia molta la strada da percorrere per costruire un nuovo Stato.
Adattamento dall' originale: http://www.orizzonteuniversitario.it/2014/01/08/e-poi-il-tabu-dello-state-building-libico/
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