2/5/19
La spallata finale di Juan Guaidó non c’è stata, la rivolta non è
andata oltre qualche immagine sui social. Nicólas Maduro è ancora al potere,
appoggiato dalla gran parte delle forze armate. A poche ore
dall’annuncio della sua liberazione dai domiciliari, scrive Rocco
Cotroneo sul “Corriere della Sera”,
il leader oppositore Leopoldo López è dovuto correre a rinchiudersi
nuovamente, stavolta nell’ambasciata spagnola con moglie e figlia, per
evitare la quasi certa vendetta del chavismo. Intanto a Caracas si sono
verificati nuovi scontri tra manifestanti e la Guardia Nazionale
Bolivariana, mentre sono in corso le marce contrarie di sostenitori di
Maduro e oppositori. Anche per Guaidó non sono ore tranquille, aggiunge
il “Corriere”: l’autoproclamato presidente ad interim potrebbe essere
arrestato in qualsiasi momento, e vive in una sorta di
semiclandestinità. Ma perché la giornata della rivolta finale (o del
golpe, secondo il regime) si è afflosciata nel giro di poche ore? Chi ha
sbagliato? O meglio: come ha fatto Maduro a liquidare la questione
senza nemmeno aver bisogno di una forte repressione? Se fossero vere le
parole di John Bolton, il consigliere per la Sicurezza Nazionale Usa,
ci troveremmo di fronte ad una vera e propria stangata ai danni di
Guaidó. «C’era un accordo dietro le quinte», ha detto Bolton: «Alcuni
uomini chiave del regime avrebbero dovuto disertare, spianando la strada
alla caduta di Maduro».
Parole rafforzate dalla ricostruzione dei fatti (anch’essa da
prendere con le pinze) del segretario di Stato Mike Pompeo: «Maduro era
pronto a salire su un aereo, per scappare a Cuba. Poi è stato fermato
dai russi». Secondo Cotroneo siamo di fronte «a uno scenario da post guerra
fredda, in grado di far impallidire quella vera, con tutto il contorno
dei film di spionaggio». Se così fosse, prosegue il giornalista del
“Corriere”, gli Usa
avrebbero erroneamente dato il via libera all’operazione finale di
Guaidó e López, fornendo loro però informazioni fasulle: non esisteva
uno scenario di deposizione di Maduro all’interno del regime stesso. E
alla “fregatura” avrebbero partecipato attivamente uomini di Mosca. I
militari venezuelani infatti non si sono spaccati, tranne poche
diserzioni di soldati semplici. «Il quadro del fallimento era già chiaro
nel primo pomeriggio ora di Caracas, a otto ore dall’inizio
dell’operazione. A quel punto – e Maduro non era nemmeno apparso in
pubblico – López aveva già deciso di chiedere aiuto diplomatico (prima
al Cile, infine alla Spagna) e una ventina di militari ribelli avevano
fatto lo stesso con il Brasile».
Non secondaria, infine, la mancata risposta della piazza, osserva il
“Corriere”: «C’erano poche migliaia di manifestanti nelle strade, i
venezuelani sono esausti. Fine della sfida». Non per questo, però, gli Usa
molleranno la presa sul Venezuela: la decisione dell’amministrazione
Trump di non desistere dalla partita venezuelana resta chiara. «Pur
preferendo una transizione democratica, l’opzione militare resta in
piedi», ha insistito Pompeo. È stato un fallimento o una prova
generale? Se lo domanda, sul suo blog, un analista geopolitico come Gennaro Carotenuto:
«Intorno all’autoproclamato Juan Guaidó – scrive – è come se si
svolgessero da mesi dei ripetuti “stress test”, dove quello che non si
vede è ben maggiore di quello che è visibile in superficie. Se così non
fosse, a cento giorni di distanza dalla giocata, vorrebbe dire che
davvero l’opposizione non abbia la forza né politica né militare per rovesciare il governo di Nicolás Maduro». Quello di martedì 30 aprile «è stato uno stress
test sull’esercito per vedere, come già a Cúcuta a fine febbraio, se
c’è un punto d’inflessione oltre il quale un numero decisivo di
esponenti degli stati maggiori possano rivoltarsi, giocando con una guerra civile dietro l’angolo».
Secondo Carotenuto, è stato uno stress test anche per la società
civile, che è servito – come per i blackout di marzo – a misurare chi
scende in piazza, e chi tra i leader dell’opposizione è coerente e
accetta l’attuale leadership, che ora sembra «tornata ufficialmente a
Leopoldo López, al quale Guaidó scaldava il posto». Aggiunge Carotenuto:
il “golpetto” di fine aprile è piaciuto «alla parte destra
dell’opposizione», pronta alla violenza. Ma gli scontri sono spenti
velocemente, come già nel 2014 e nel 2017: «Ancora una volta – per
fortuna – la società civile, chavista e anti-chavista, polarizzata
quanto si vuole, si è tenuta lontana dalla violenza». Ogni attore ha la
sua agenda, scrive Carotenuto. Ma di agende, in Venezuela, sembrano
essercene troppe, in queste ore: da una parte gli Usa, la Colombia e il Brasile, dall’altra Cuba, la Russia e la Cina. L’Europa? Pressoché assente. «L’unica soluzione non drammatica e non violenta, in
Venezuela, l’aveva sfiorata Zapatero col tavolo fatto inopinatamente
saltare ad accordo fatto, prima delle presidenziali di maggio 2018.
Tanto c’è Maduro, al quale si possono dare tutte le colpe».
Il mondo, riassume Carotenuto, ha guardato per 24 ore al Venezuela
per la diserzione di una trentina di soldati di grado medio, con alla
testa un solo generale di peso, Manuel Ricardo Figueroa, subito rimosso.
E tutto soltanto per liberare Leopoldo López dai domiciliari? Troppo
poco per essere vero: «Il senatore Marco Rubio, già protagonista del
disastro di febbraio a Cúcuta, per giorni ha chiamato le Forze Armate
Nazionali Bolivariane, Fanb, al golpe. Lo ha fatto con un discorso a
metà strada tra l’invito, la minaccia e la promessa. Invito a restaurare
la democrazia,
minaccia di far passare l’esercito a essere parte del problema in caso
di intervento esterno, promessa di prebende infinite e amnistia tombale
in caso di golpe». Il problema, aggiunge Carotenuto, è che minacce e
promesse non possono ripetersi all’infinito: «A Cúcuta, le poche decine
di militari che disertarono, lamentarono che Marco Rubio in persona
avesse promesso loro 20.000 dollari a testa. Ovviamente mai visti». La
realtà è che gli Usa
non sono affatto onnipotenti, come spesso vengono rappresentati (da
amici e nemici). Cose simili a quelle di Rubio le ha dette il “miles
gloriosus” Mike Pompeo, «sempre con la mano alla pistola», e così John
Bolton e lo stesso Elliott Abrams, «il più sinistro dei personaggi
coinvolti, conclamato terrorista di Stato, massacratore delle guerre in
Centroamerica, che ha sostenuto che i presunti militari golpisti
avrebbero a un certo punto spento i cellulari».
Certamente a Pompeo, Bolton e Abrams «la soluzione militare piace»,
ma – di fronte alla fallito golpe – non sanno più cosa tentare, sostiene
Carotenuto, secondo cui si sta ripetendo la stessa situazione di
Cúcuta, «altro stress test», quando si scomodò il vice del presidente
brasiliano Jair Bolsonaro, il generale Hamilton Mourão, per chiarire
oltre ogni ragionevole dubbio che il Brasile non accetta interventi
esterni. Non saranno né statunitensi né colombiani a intervenire in
quello che Brasilia considera il proprio spazio strategico amazzonico.
«Diverso è solo il caso dei 5.000 mercenari che Blackwater avrebbe
reclutato, pagati da prominenti multimilionari venezuelani, sui quali
molto ha scritto la “Reuters”». I mercenari «potrebbero infiltrarsi in
mille modi e commettere le più odiose delle azioni terroristiche,
sabotaggi, assassinii». Aggiunge Carotenuto: «Se c’è qualche
liberaldemocratico che, pur di liberarsi di Chávez, fa il tifo perfino
per i tagliagole che già agirono in Iraq, alzo le mani». E’ grave
che ora i disertori avessero alla loro testa Manuel Ricardo Figueroa,
il capo del Sebin (i servizi venezuelani). Doveva essere un’azione
suicida, oppure la partita è davvero sul terreno militare come in Cile
nel 1973? Altra domanda: la liberazione di Leopoldo López è servita più
che altro a tamponare il declino dell’insignificante leadership di
Guaidó?
Carotenuto ricorda che, durante il fallito colpo di Stato del 2002,
proprio López condusse l’assalto all’ambasciata di Cuba. «Da allora dosa
il ruolo di oppositore tra violenza e politica, contando sulla connivenza dei media
che continuano a rappresentarlo come una specie di John Kennedy
caraibico e di perseguitato politico. Pensa di essere più utile
dall’estero che ai domiciliari?». E Guaidó? Adesso chiama a uno sciopero
generale, ma scaglionato: «Tutt’altro che la spallata finale a un
regime descritto nuovamente sul predellino dell’aereo che deve portarlo
in esilio». Può Maduro fare ancora finta di niente o si caricherà del
costo politico di arrestarlo, con la grande stampa internazionale pronta
a considerare Guaidó un martire? «In vent’anni di rivoluzione
bolivariana, con una buona dozzina di crisi
maggiori, abbiamo visto che sul breve termine l’opposizione ha grande
capacità di convocazione, ma col passare delle settimane sono i chavisti
quelli che restano in piazza a difendere quello che continuano a
considerare il governo popolare e il mandato di quello che è stato il
più popolare e amato leader latinoamericano degli ultimi decenni». Anche
stvolta i chavisti stanno dimostrando compattezza, scendendo in piazza
in numeri almeno comparabili a quelli dell’opposizione. «Il golpetto di
Caracas lascia più domande che risposte – conclude Carotenuto – ma che i
chavisti esistano e continuino e continueranno a resistere è una delle
poche certezze che questi tre mesi ci hanno donato».
Preso da: http://www.libreidee.org/2019/05/prove-di-guerra-sventato-dalla-russia-il-golpe-in-venezuela/
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