29/4/19
Ho superato il 25 aprile uscendo dalla culla di questo eterno
presente, dalla quale, a noi pupetti, i pupari non fanno né vedere
passato, né prospettare futuro.
Eterna sospensione tra l’unico pensiero possibile, quello attuale, e
l’unica tecnologia disponibile, quella digitale. Ho afferrato una radice
e mi sono ritrovato sotto il monumento sul Gianicolo alle vittorie di
Garibaldi sui francesi e alla memoria della Repubblica Romana (1848),
poi annegata nel sangue dei patrioti e del popolo romano dalle monarchie
francese, borbonica, austroungarica che Pio IX aveva invocato dal suo
esilio a Gaeta (i bersaglieri gli avrebbero reso la pariglia a Porta
Pia, vent’anni dopo). Priorità assoluta delle potenze, non diversamente
da oggi, stracciare una Costituzione che a quella di esattamente
cent’anni dopo poco aveva da invidiare e, dato l’ambiente europeo e la
sua affermazione di sovranità, era perciò anche più meritevole. Un
monumento che mi proteggeva dallo scroscio di toni enfatici e parole
declamatorie grandinate dal Quirinale e rimbombate nella camera dell’eco
che è la stampa italiana. Toni e parole all’apparenza del tutto
rituali, generiche e banali, altisonanti, proprio come si
retoricheggiava ai tempi di Lui, prendendo fiato a ogni periodo,
passando dal grave all’imperativo nobile e finendo sull’intimidatorio
per chi non dovesse darsela per intesa.
Insomma, discorsi da Balcone, dalla cui pomposa prosopopea
cerimoniale, nel caso specifico del tutto abusiva, immancabilmente
esalano i vapori dell’ipocrisia e dell’autorità fondata su chiacchiere e
distintivo. E a volte, su felpe e giubbotti,
abusivi pure questi. Tutte cose che con i fasti evocati da lontano,
sempre senza averne i titoli, abusivamente, hanno il compito di coprire i
nefasti del presente e dei presenti. Non ho partecipato ad alcuna
celebrazione, ufficiale o ufficiosa, trovandole tutte spurie e
inquinate. Dal Quirinale a un’Anpi che condivide con tutte le sinistre
la perdita di sé e che si mette ad arzigogolare sull’equivalenza tra
nazifascismo e quello che i superrazzisti dell’Impero e delle sue marche
definiscono razzismo.
Mistificando per tale quello di chi smaschera
l’operazione colonialista, detta globalizzazione,
ai danni dei dominati del Sud e del Nord. Gli sciagurati sovranisti,
identitari, refrattari alla levigatezza dell’uniformato. Seppure lo
definiscano tale, non ne fa sicuramente parte Matteo Salvini, sovranista
farlocco e sfascia-Italia del “prima gli italiani”, purchè si tratti di
trafficoni eolici, trivellatori di terre e mari, sfondatori di valli e
montagne, magna magna di ogni genere, cravattai lombardoveneti, insomma
tutti i missi dominici dell’Impero.
Genìa che è stata decisiva perché i risultati del 25 aprile fossero
consegnati nelle mani e nelle borse dei nuovi invasori. Genìa maledetta.
E’ stato lo spirito dei tempi coronati dal 25 aprile e subito
successivi che ha innalzato l’Italia – dal fascismo squadrista
frantumata in giovani obnubilati, popolo plebeizzato e impecoranato,
federali in stivali e loro mignotte, intellettualità sedotta, asservita e
abbandonata, brutalità ed elementarietà di azione e pensiero (salvo
grandi architetti) – ai livelli di un passato come quello dei Leopardi e
dei moti ottocenteschi. Che ha prodotto i Fenoglio, Calvino, Pavese, i
De Sica, Rossellini,
Monicelli, giganti che hanno nanificato, moralmente e culturalmente,
tutto quello che è venuto dopo e che formicola a petto in fuori nei
Premi Strega e Bancarella. Si può dire, e spiacerà ai nonviolenti, di
vocazione o altro, che quello Zeitgeist, così generoso, è uscito dalla
canna di un fucile.
Da ex-direttore responsabile e inviato di guerra
del quotidiano “Lotta Continua” e militante (a lungo latitante) di
quell’organizzazione, che contro il fascismo aggiornato del
consociativismo di regime, con il suo terrorismo di Stato, pure qualcosa
ha fatto, mi permetto, nel mio piccolo e intimo, di ringraziare i
partigiani tutti. Formazione di popolo. Più di tutti quelli garibaldini,
e rigettare nel buco nero dell’esecrazione gli Alleati, che ai primi
hanno sottratto e pervertito la vittoria, poi procedendo a sottrarre e
pervertire ciò che di ogni vivente fa quello che è: la sovranità sua,
della sua comunità, del suo passato, presente, futuro,
nome. Di questo gli antifascisti da terrazzo, antisovranisti del re di
Prussia, non sanno e non dicono, bisognosi come sono dei cartonati in
camicia nera e saluto romano per occultare il fascismo
global-digital-finanziario che li ha reclutati e di cui si sono
inoculato il virus. Il che non mi impedisce, sia detto per inciso, di
trasecolare a fronte di chi insiste a definire Piazzale Loreto
“giustizia di popolo”.
Stessa matrice. Oggi si vedono sul palcoscenico della commedia
nazionale e occidentale, in grande spolvero, nuovi “antifascisti”. Ce ne
sono addirittura di patrocinati da George Soros, che non si fa scrupoli
di affiancarli all’altra sua creatura: “Me too”. Come sempre quando il
pifferaio riesce a riunire e riconciliare in un’unica truppa ratti e
bambini ignari, li si trovano, schiamazzoni e autocertificati,
dall’estrema sinistra
a quella vera destra che si dice vuoi centrosinistra, vuoi
centrodestra. Virgulti, balilla e giovani italiane del Nuovo Ordine
Mondiale, puntano quello che in artiglieria viene chiamato “falso scopo”
(e il puntamento indiretto verso un obiettivo non individuabile a
vista). In parole semplici, additando un chihuahua ringhiante nei
bassifondi ideologici urbani, si urla “al lupo, al lupo”, con l’effetto
di distogliere la nostra mira dal lupo mannaro vero che tiene al
guinzaglio chi urla. (Chiedendo scusa al lupo per la becera metafora
fiabesca. E ricordando che il ministro dell’ambiente 5 Stelle, Costa,
proibisce di abbattere i lupi, mentre Salvini, forte di mitraglietta, ne
autorizza l’abbattimento: fatto
che contiene in nuce tutto il significato delle temperie in cui il
post-25 aprile, tradito come nemmeno il presunto Giuda il presunto Gesù,
ci ha ingabbiato e nelle quali, o i 5 Stelle staccano la spina, o
rischiamo il corto circuito e il black out loro e di tutti noi).
Il discorso della Liberazione va ripreso ab imis fundamentis. E’ per
questo che ho spostato le mie commemorazioni-celebrazioni a due giorni
dopo, il 27 maggio del 1937. E il giorno tristissimo della morte di
Antonio Gramsci (io c’ero già e ricordo una serie di quaderni di mio
padre con sopra, imparai dopo, le immagini, tra altre, di Marinetti,
D’Annunzio, Gozzano, Leopardi e Gramsci). Non significa niente, ma sono
contento di esserci già stato quando ancora viveva Gramsci. E’
insensato, ma mi pare che così sono in qualche modo contemporaneo e,
quindi, più partecipe di quel “popolo” a cui questo sardo degno della
sua terra ha ridato un nome, un’identità, un progetto, nel tempo che più
lo ha visto conculcato, mistificato, sviato da una storia che era
iniziata con Dante, che aveva serpeggiato per secoli e che si era
rifatta prorompente con la Repubblica Romana e le altre affini,
incancellabili madri dei nostri partigiani. Come Anita Garibaldi, che,
sul colle Gianicolo, sparava ai francesi rinnegati, lo è specificamente
delle nostre partigiane. E come lo era anche delle brigate femminili
alla Comune di Parigi (dove c’erano pure i dai neoborbonici esecrati
garibaldini!). Che nessun movimento o gruppo femminista ricorda e onora,
preferendo icone tipo Hillary o Boldrini.
(Fulvio Grimaldi, “Quale 25 aprile. Quale 27 aprile. Quale liberazione”, dal blog di Grimaldi del 26 aprile 2019).
Preso da: http://www.libreidee.org/2019/04/quale-25-aprile-e-quale-liberazione-nella-colonia-italia/
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