Il panturchismo e' una ideologia diffusa nei
Balcani, dalla quale dipende molto delle sorti della pace, ed e' strano che in
questi anni i nostri commentatori ne abbiano parlato cosi' poco. Non ci
riferiamo qui all'idea di unificare tutti i popoli che appartengono al gruppo
linguistico turcofono (turchi, tartari, kasachi, usbechi, turkmeni, azeri, altri
caucasici ecc.), esplicitamente perseguita dai Lupi Grigi e dai loro sponsor,
bensi' della espansione dell'influenza economica e culturale turca anche
all'interno dell'Europa. Piu' precisamente, le ambizioni pan-turche conprendono
tutti quei popoli convertiti al credo islamico sotto l'Impero Ottomano,
indipendentemente dalla loro origine "etnica". Percio piu' che di
pan-turchismo si deve forse parlare di neo-turchismo, una politica che e'
divenuta politica ufficiale dello Stato turco da anni ed e' stata formulata in
termini espliciti da alti esponenti delle istituzioni e della cultura, a partire
dal presidente della republica Süleyman Demirel quando ha affermato che la
Turchia si estende dal mare Adriatico alla muraglia cinese ("Politika"
25/2/1992).
E' un progetto che riguarda l'area jugoslava ed
albanese, ma anche Cipro, Grecia e Bulgaria. Ricordiamo in particolare che la
occupazione militare di Cipro continua ormai da piu' di venti anni.
Per quanto riguarda la ex Repubblica Federativa
Socialista di Jugoslavia le zone interessate sono la Bosnia Erzegovina, il
Sangiaccato, la provincia di Kosovo e Metochia (Kosmet) e la Macedonia. Gli
Stati Uniti d'America, oggi unica superpotenza mondiale, esprimono
dichiaratamente da anni il loro sostegno alla Turchia come potenza regionale e
nei Balcani hanno appoggiato e continuano a sostenere la secessione dei suddetti
territori e la creazione di una catena di protettorati
che alcuni definiscono "trasversale" o "dorsale
verde" (cfr. LIMES 4/1998).
Queste aree assumono un particolare valore
strategico come futura direttrice per il trasporto delle materie prime dall'Asia
Centrale ex-sovietica all´Europa, attraverso lo storico "corridoio"
Turchia-Bulgaria-Macedonia-Albania che taglierebbe fuori definitivamente la
Russia. Questo quadro strategico e'anche all'origine dell'accanimento repressivo
contro il popolo Kurdo, che ha la sola colpa di vivere nel posto sbagliato, e
della crescente instabilita' dell'area caucasica.
Questo avviene grazie alla potenza militare
americana ma anche grazie al sostegno di paesi islamici come l'Arabia Saudita,
che controlla fondamentali strutture finanziarie, lobby di pressione ed agenzie
di informazione. Contemporaneamente gli USA riescono in questo modo a
destabilizzare il polo imperialistico europeo. Ricordiamo anche che da alcuni
anni a questa parte lo Stato turco sta sviluppando legami militari, politici ed
economici con Israele, ad esempio il progetto della diga dell'Eufrate che
concentrerebbe nelle mani dei due Stati i "rubinetti" idrici di tutto
il Medio Oriente.
Nel breve termine gli USA mirano alla costituzione
di una grande Albania che comprenda il Kosovo, e di uno Stato islamico dei
musulmani di Bosnia e Sangiaccato. Questo progetto implica la scomparsa della
Republica Federale di Jugoslavia, la riduzione della Serbia e dei serbi ad
entita' irrilevante, la destabilizzazione della Macedonia e la costrizione di
Grecia e Bulgaria nella morsa del pan-turchismo. Ha scritto il giornalista Nazmi
Arif sul giornale turco "Turkiye Gazetesi" (citato su "Politika",
21/2/1993): "I popoli turchi, cui e' stato impedito fino a poco tempo fa di
esprimere i loro sentimenti nazionali e religiosi... in Bulgaria, Romania"
potranno ora liberarsi "alla condizione, che questi popoli a breve si
riuniscano alla madre patria". Questo spiega perche' la Turchia si sia
prodigata per la indipendenza di Bosnia Erzegovina e Macedonia come primo passo
per altri tipi di pressioni sui popoli dell'area. Per questo la Turchia non puo'
accontentarsi di manovrare la piccola minoranza turca della ex RFS di Jugoslavia
(centotrenta mila persone secondo il censimento del 1971) ma deve fare leva sui
sentimenti di slavi e schipetari di religione musulmana. Tra questi ultimi il
turco e' ormai la prima o la seconda lingua straniera, le comunicazioni ed i
commerci sono massicciamente orientate in direzione di Ankara cosi' come i
rapporti politici, finanziari, commerciali e militari delle leadership islamiste
locali a cominciare dal Partito di Azione Democratica [SDA] di Alija Izetbegovic
in Bosnia.
Particolarmente forte e' il senso di appartenenza
al mondo turco nella cultura e nella ideologia schipetara tradizionale, oggi
strumento dei leader albanesi "democratici" dell'anticomunismo
post-ottantanove.
"Noi vediamo come impossibile vivere sotto una
amministrazione qualsivoglia, piu' indipendente o piu' autonoma, che non sia la
amministrazione ottomana, ne' di poter essere cittadini di alcuno che non sia il
sultano", scrissero alla fine del secolo scorso i rappresentanti politici
degli albanesi di Tetovo, oggi in Macedonia, in un telegramma all'ambasciatore
francese a Costantinopoli in un momento critico per il loro futuro politico
("La lingue albanaise de Prizren 1878-1881", Documents I, Tirana,
1988, pag. 21).
Durante la prima Guerra mondiale, tra il 1914 e il
1915 al centro dell'Albania, gia' Stato indipendente,
esplose una rivolta contadina che tra le altre rivendicazioni espresse
quella della unione con lo Stato ottomano. Dopo la guerra una parte rilevante
degli schipetari del Kosovo preferi' trasferirsi in Turchia anziche' rimanere a
far parte della Jugoslavia monarchica, optando per lo Stato di Kemal Ataturk
piuttosto che per lo Stato albanese e per la lingua turca piuttosto che per
quella albanese. In seguito al "Patto balcanico" del 1934 ancora
200mila albanesi del Kosmet si trasferirono in Turchia, ed oggi si calcola che
circa tre milioni di turchi siano di origine albanese.
Questi fatti illustrano la possibile
identificazione, in certi settori della cultura albanese, della antica
conversione religiosa con la fedelta' verso lo Stato ottomano, legame che puo'
essere alla radice di rinnovati contrasti con il mondo slavo, innanzitutto con i
serbi ortodossi principali artefici della distruzione di quello Stato. Lo si
vede oggi nelle dichiarazioni di intellettuali e uomini politici, come Adil
Zulfikarpasic, fondatore della Libera Organizzazione dei Bosgnacchi (translitterazione
italiana del termine "bosnjak" con il quale si definiscono gli slavi
di religione musulmana, non solo della Bosnia, distinto da "bosanac" -
"bosniaco" - ovvero abitante della Bosnia) ed ex-vicepresidente della
SDA: "E' noto che fino alle guerre balcaniche su questi territori c'era lo
Stato turco ... era il nostro Stato. Uno Stato che faceva i nostri interessi...
cioe' la nostra emancipazione, la nostra prosperita', il nostro futuro erano
legati a questo Stato turco e miravano a rafforzarlo ... perche' noi, voglio
dire serbi e musulmani, eravamo allora grandi nemici. Quando l'Impero turco si
e' ritirato, abbiamo continuato ad essere avversari" ("Stav",
21.02.1992, Novi Sad, p. 21). In effetti nello Stato ottomano la conversione
all'Islam garantiva uno status sociale privilegiato, benche' le altre religioni
fossero tollerate nella misura in cui non mettevano in pericolo l'ordine
politico-sociale (nel qual caso la repressione poteva raggiungere livelli
disumani). Dopo l'assassinio negli anni Ottanta dell'ambasciatore turco nella
RFS di Jugoslavia, pure attribuito ad estremisti musulmani, i rapporti tra i due
Stati si deteriorarono ed aumentarono invece le relazioni tra Istanbul e Novi
Pazar, principale citta' e centro politico-culturale del Sangiaccato. Il numero
degli autobus di linea tra le due citta' e' cresciuto enormemente durante gli
ultimi anni insieme a traffici di ogni tipo, i cui intermediari sono spesso
bosgnacchi o albanesi con cittadinanza turca. Con l'introduzione del sistema
multipartitico in Jugoslavia tanti legami che prima esistevano in forma piu' o
meno clandestina sono venuti alla luce, e sono cosi' usciti allo scoperto i
referenti politici della influenza turca in questa parte dei Balcani.
Il principale partito politico di questo spettro e'
l'SDA, fondato e tuttora guidato dal Presidente bosniaco Izetbegovic che non ha
mai fatto mistero delle sue convinzioni islamiste, messe nero su bianco gia'
negli anni Settanta nel suo libro "Dichiarazione Islamica" (stralci
sono stati pubblicati su LIMES 1-2/1993; cfr. anche http://marx2001.org/crj/DOCS/alija.html
). L'SDA ha una ramificazione in Serbia, con centro a Novi Pazar dove i
personaggi piu' influenti sono Sulejman Ugljanin, Rizah Gruda, Alija Mahmutovic
ed altri. La cooperazione privilegiata e' dall'inizio quella con i partiti
islamisti e nazionalisti della Turchia, come il Partito del Benessere (Refah
Partisi) di Erbakan, la cui linea politica e' persino anticostituzionale in
Turchia perche' estremamente antilaicista. Ugljanin e' stato spesso in missione
politica ad Ankara, ospite anche del Refah. Questo fino a venire incriminato per
sospette mire insurrezionali e a dovervi dunque rimanere a lungo. La polizia
jugoslava aveva infatti trovato a Novi Pazar armi e munizioni presso diversi
militanti dell'SDA, e le armi provenivano soprattutto da Turchia ed Albania. Nel
giugno 1991 alla vigilia delle dichiarazioni di indipendenza di Slovenia e
Croazia, che diedero il via alla guerra, Ugljanin partecipo' ad Istanbul ad un
raduno del Refah dove retoricamente chiese alla folla "perche' la Turchia
non abbia mai sufficientemente aiutato i musulmani di Jugoslavia, ne'
politicamente ne' economicamente" ("Muslimanski glas" - Voce
Musulmana -, organo dell´SDA, 14/6/1991 p.18). In tutto il periodo successivo
si sono moltiplicate le dichiarazioni di questo tipo, volte in particolare ad
auspicare un intervento turco non solo nello scenario bosniaco ma nella stessa
Serbia: sempre Ugljanin dichiara nel 1992: "non appena [in Sangiaccato]
sara' sparato il primo colpo, Demirel arrivera' " (Vecernje Novosti,
26/7/1992).
Due mesi dopo il riconoscimento dell'indipendenza
della Bosnia Erzegovina (aprile 1992) Ugljanin ritorna a visitare la Turchia
incontrando il Ministro degli Esteri Hikmet Cetin e lo stesso Demirel. Il
crescendo di pressione anti-serba nell´opinione pubblica turca e' opera
soprattutto dai partiti dell´estrema destra, tanto che il 3 giugno 1992 il
consolato Jugoslavo a Istanbul viene preso a sassate dai manifestanti. Il primo
ministro Ecevit propone in quei giorni un patto militare per la sicurezza comune
tra Turchia e Bosnia Erzegovina, patto che avrebbe consentito l'invio di aiuti
militari e di truppe, come espressamente richiesto dai rappresentanti turchi
alla riunione della Conferenza Islamica tenutasi ad Istanbul (giugno 1992). La
richiesta di sollevare la Bosnia dall'embargo sui rifornimenti di armi viene
presentata anche all'ONU. Particolarmente pesante e' la pressione turca, a nome della Conferenza
Islamica, alla Conferenza di Londra, tenutasi nell'agosto 1992, e poi di nuovo
in occasione della visita al Consiglio di Sicurezza dell'ONU in novembre: l'idea
e' quella di rifornimenti di armi ai musulmano-bosniaci di Izetbegovic,
rifornimenti che in assenza di una iniziativa da parte dell'ONU i paesi della
Conferenza Islamica riunitisi in Senegal i primi di gennaio del '93 mostrano di
voler attuare unilateralmente. Ed in effetti forniture di armi e munizioni da
parte della Turchia avranno luogo per tutta la durata del conflitto in Bosnia,
sia per via aerea che attraverso il porto croato di Spalato.
I rapporti internazionali dell'SDA sono stati
rivolti anche alle minoranze turche e musulmane di altri paesi limitrofi, come
la Bulgaria dove esiste un "Movimento per i diritti e le liberta'". Il
dirigente di questo movimento Ridvan-Malik Kadiov visito' Sarajevo gia' nel '91,
dove fece visita ad una classe di scolari bulgari giunti a studiare presso gli
Imam della Bosnia ("Muslimanski Glas" 1/3/1991, pg. 10).
Un altro scenario assai delicato per i rapporti tra
mondo ortodosso e mondo islamico nei Balcani e' quello macedone. Nella
Repubblica ex-Jugoslava di Macedonia (FYROM) esiste una minoranza di lingua
albanese, concentrata nelle zone occidentali, nel seno della quale pure negli
ultimi 10 anni si e' sviluppata una tendenza irredentista-separatista che mette
in pericolo il sistema multinazionale su cui si fonda questo piccolo Stato. Nel
luglio 1997 ad esempio, mentre Ugljanin veniva arrestato in Serbia a causa di
certe dichiarazioni di segno secessionista, a Tetovo e Gostivar si verificavano
dimostrazioni ed incidenti con la polizia macedone. Due i problemi principali:
quello della "Universita' parallela" di Tetovo, gestita dai
nazionalisti panalbanesi con il sostegno di finanziatori occidentali (es: la
Fondazione Soros), e quello della esposizione delle bandiere albanesi e - per
l'appunto - turche sulle facciate dei municipi e di altre istituzioni locali. Al
centro dello "scandalo delle bandiere" esposte a Gostivar fu ad
esempio il sindaco Osmani, membro dell'ultradestra nazionalista di Xhaferri, che
dovette scontare un anno e mezzo di prigione fino all'inizio del 1999. Merita
attenzione il fatto che a questi settori e' andato in tutti questi anni il
sostegno del Partito Transnazionale Radicale di Pannella, che ha organizzato
campagne per la liberazione di Osmani, dunque contro il carattere multinazionale
dello Stato macedone.
Lo stesso dicasi per il Kosovo, dove dagli anni
Ottanta, nonostante l'alto grado di autonomia della provincia nella RFSJ, sono
riemerse le tendenze irredentiste. Dopo la abrogazione degli aspetti piu'
politici di detta autonomia, alla vigilia dello scoppio del conflitto
inter-jugoslavo, i settori panalbanesi guidati da Ibrahim Rugova, leader della
"Lega Democratica del Kosovo", hanno iniziato a praticare il
boicottaggio assoluto della vita politica e sociale jugoslava costruendo un
sistema "parallelo" in tutte le attivita' - dalla sanita'
all'istruzione - che ha configurato un vero e proprio "separatismo
etnico". Questo sistema parallelo e' stato visto con apprezzamento in
Occidente, anche dai settori "pacifisti" entusiasmati dal suo
carattere non-violento, ed e' stato sostenuto con finanziamenti di vario tipo
provenienti dall'estero, soprattutto Germania, Svizzera ed USA. Oltre alla lobby
albanese-americana, merita menzione in particolare il "governo in
esilio" di Bukoshi, con sede in Germania.
Rugova e' stato piu' volte in Turchia, dove ha
incontrato l'allora Presidente Özal che gli ha garantito il suo appoggio (Vecernje
Novosti, 17/2/1992). E' curioso che da noi di Rugova si sia detto solamente che
e' un "pacifista", mentre nessuno ha mai citato le sue dichiarazioni,
piu' volte rilasciate agli organi di stampa stranieri, come lo zagrebino "Danas"
(1992), secondo le quali l'ideale per il Kosovo e' uno status transitorio di
protettorato internazionale, per poi unirsi all'Albania.
La collaborazione politica e militare tra Turchia
ed Albania e' nota da anni ormai. Lo scenario e' particolarmente
preoccupante a causa dell'aggravarsi della situazione nel Kosmet, dove a
partire dal 1997 si e' scatenata l'attivita' terroristica, gia' presente,
dell'UCK ("Esercito di Liberazione del Kosovo"), sostenuto dalla
lobby albanese negli USA (spec. la Albanian-American Civil League legata a
J. Dioguardi e Bob Dole) attraverso la destra di Sali Berisha in Albania.
Cristophe Chiclet rivela su "Le Monde
Diplomatique" di gennaio 1999 che il nucleo fondatore dell'UCK fu
costituito dal Movimento Popolare del Kosovo (LPK), una organizzazione
apparentemente marxista-leninista in conflitto con le dirigenze della
provincia autonoma del Kosovo, ai tempi di Tito, e con la leadership di
Rugova successivamente.
In effetti pero' il Movimento Popolare del Kosovo
e' stato fondato nel 1982, nella citta' TURCA di IZMIR (Smirne). Non ci
vuole molto a capire il perche'.
Nel 1982 in Turchia governava una feroce cricca
militarista-fascista che aveva effettuato un golpe due anni prima contro
il legittimo governo socialdemocratico. Questa cricca era (e')
specializzata nel reprimere i movimenti, i partiti e le organizzazioni di
sinistra, comuniste, marxiste, leniniste, socialiste, rivoluzionarie e
operaie dei popoli turchi, alawiti, kurdi, armeni e siriani.
Poteva il governo militar-fascista di Ankara
concedere graziosamente, al sedicente movimento "marxista-leninista"
kosovaro, di indire il suo congresso di fondazione? Piu' realisticamente l'UCK
deve essere visto come uno strumento della guerra a bassa intensita' contro la
Repubblica Federale di Jugoslavia, atto alla sua destabilizzazione.
In questa organizzazione sono stati arruolati
mercenari da svariati paesi islamici; nel 1998, nei giorni della caccia ad Osama
Bin Laden, la CIA ha dovuto persino fare irruzione nella rappresentanza UCK a
Tirana, in cerca di documenti.
Tuttavia la strategia della tensione in Kosmet ha
mostrato di non dare immediatamente i suoi frutti, pertanto nella seconda meta'
del 1998 si e' andati ad un crescendo di minacce di bombardamenti contro la RF
di Jugoslavia, fino al reale, brutale attacco del 24 marzo 1999, giustificato
con la non accettazione da parte jugoslava dell'"accordo"-capestro di
Rambouillet, che prevedeva la occupazione militare NATO nel Kosmet ed una
consultazione popolare che avrebbe portato alla secessione della provincia nel
giro di tre anni. Durante i bombardamenti i diplomatici USA (es. E. Luttwak alla
trasmissione televisiva italiana "Pinocchio") hanno incominciato a
dire apertamente che la loro cessazione e' condizionata alla rinunzia da parte
jugoslava alla sovranita' sulla provincia. Ma il Kosmet, oltre ad essere il
cuore storico-culturale della Serbia, e' anche ricco di materie prime e nelle
sue centrali a carbone si produce una rilevante quantita' di energia elettrica,
della quale deve viceversa usufruire tutta la popolazione della Repubblica
Federale.
IL RUOLO DELLA GERMANIA NELLA
DISTRUZIONE DELLA JUGOSLAVIA
[l'articolo, di Rudiger Göbel, è comparso sui
Marxistische Blätter - Fogli marxisti - del marzo 1995]
Secondo la propaganda occidentale, la convivenza
dei popoli della Jugoslavia era stata imposta attraverso la repressione di Stato
sotto il "regime monopartitico", perciò lo sfascio ed i conflitti
armati erano inevitabili con la crisi del sistema socialista. Questa tesi è
priva di qualsivoglia fondamento. Viceversa: la Jugoslavia si formò dopo la II
Guerra Mondiale come unione libera e volontaria di tutte le popolazioni. La
guerra civile è iniziata in seguito alla divisione del paese nel 1991/'92.
La crisi della Jugoslavia e la conseguente guerra
civile nella ex Bosnia-Erzegovina certo non si lasciano spiegare soltanto
adducendo la politica interventista degli Stati imperialisti, e da sola la
spinta al riconoscimento di Croazia e Slovenia da parte della diplomazia tedesca
non è certo ragione e cagione dello smembramento della Jugoslavia (1). Tuttavia
essa ha esercitato un influsso determinante per lo scoppio della crisi e
l'escalation di questi giorni, rendendo i problemi connessi davvero
irrisolvibili. Gli interessi perseguiti in questo caso non sono così
univocamente riconoscibili come ad es. nella guerra contro l'Iraq. Gli Stati
imperialisti perseguono chiaramente molteplici obiettivi, in parte persino
differenti. Erano tutti d'accordo sulla necessità di farla finita, anche in
Jugoslavia, con i resti di una società socialista, e sulla cancellazione del
paese in quanto soggetto autonomo nello scenario internazionale. Tutti gli Stati
hanno ora la possibilità di avere un'influenza la più grande e diretta
possibile sugli avvenimenti dei Balcani.
Gli interessi più facili da riconoscere sono
quelli dell'imperialismo tedesco, che si riallaccia immediatamente alla sua
politica per l'Europa del Sudest dalla seconda metà del XIX secolo sino al
1945. Proprio come allora, questo guarda ai Balcani come al suo naturale
"cortile" e ponte verso la Turchia e più avanti, fino al Medio
Oriente. Pertanto si è potuto riportare in vita il tradizionale stereotipo dei
"Serbi assetati di sangue", utile a sostegno della politica estera
tedesca.
GERMANIA
- LA POTENZA CENTRALE D'EUROPA
Lo storico conservatore e biografo di Adenauer
Hans-Peter Schwarz apre il suo ultimo lavoro sul ruolo della Germania in quanto
"potenza centrale d'Europa" con la considerazione che tra le grandi
svolte della storia tedesca è da annoverare il 1 Settembre 1994, giorno della
partenza delle ultime unità russe dalla Germania. "Con ciò un'epoca,
iniziata mezzo secolo prima, volge alla fine" (2). Cosicchè, quattro anni
dopo l'annessione della RDT, la RFT è di nuovo tre cose in una: è uno Stato
nazionale, è una grande potenza europea ed è la potenza centrale d'Europa.
"Perchè esiste un solo paese che, grazie alla sua posizione geografica,
alle sue potenzialità economiche ed alla sua influenza culturale, grazie alle
sue dimensioni ed ancora grazie al dinamismo di cui dispone può sentire il
compito di una potenza centrale - e questo è proprio la Germania" (3). La
Germania è già una grande potenza europea. Ma poichè il concetto di
"grande potenza" risveglia il ricordo di sfrenata politica egemonica,
guerra ed annientamento, Schwarz propone il nuovo concetto di "potenza
centrale d'Europa" - che vuol dire la stessa cosa.
E puntualmente, proprio il giorno della grande
svolta, 1 Settembre 1994, il leader della frazione CDU/CSU Wolfgang Schäuble
insieme con il portavoce per la politica estera del gruppo parlamentale, Lamers,
hanno pubblicato un documento strategico contenente "Riflessioni sulla
politica europea". Ivi sono formulati gli obiettivi della nuova politica
tedesca da grande potenza - proprio nello stesso senso di Schwarz - e ci si
pronunzia a favore della costruzione di un "nocciolo duro europeo"
comprendente Germania, Francia e gli Stati del Benelux come nocciolo, mentre
Germania e Francia sarebbero il "nocciolo del nocciolo duro" - con
l'intenzione di risorgere finalmente dopo quasi 50 anni d'astinenza come potenza
ordinatrice nel continente. Di fianco alla "stabilizzazione dell'Est"
Schäuble e Lamers citano l'accesso allo spazio mediterraneo e lo sviluppo di
una partnership strategica con la Turchia come ulteriori obiettivi strategici.
Il loro testo di 14 pagine può essere considerato
come abbozzo strategico di base per il salto della RFT a potenza mondiale. I
suoi autori ritengono che il paese sia destinato a diventare una grande potenza
"in base alla sua posizione geografica, alle sue dimensioni ed alla sua
storia". E se la Francia e gli Stati del Benelux non dovessero essere
d'accordo sulla costruzione del nocciolo europeo, la RFT potrebbe "essere
tentata, in base a considerazioni sulla propria sicurezza, di effettuare da sola
la stabilizzazione dell'Europa orientale, nella maniera tradizionale" (4).
Le "tradizionali" risistemazioni tedesche dell'Est in questo secolo
hanno causato al mondo per due volte milioni di morti ed anni di oppressione e
distruzione bellica.
Per le loro tesi sull'"Europa del nocciolo
duro" Schäuble e Lamers hanno trovato sostegno nel portavoce della
direzione della Deutsche Bank, Hilmar Kopper, che nell'edizione domenicale della
FAZ [Frankfurter Allgemeine Zeitung, il più influente quotidiano tedesco,
legato all'apparato industriale-finanziario, ndt] rendeva noto che nel documento
della Unione era stato detto solamente ciò che tutti in effetti già
"pensavano, sapevano o temevano". Nello stesso tempo il presidente
della Bundesbank, Hans Tietmeyer, riproponeva alla discussione il concetto dei
"cerchi concentrici", relativamente al futuro della politica europea
della Germania (5).
In conclusione del turno di presidenza tedesco
della UE il governo Kohl, in occasione del vertice di Essen del Dicembre '94,
decideva un "approccio strategico" per gli Stati dell'Europa
orientale, mirante all'estensione ad Est dell'Unione Europea - attualmente la
Polonia, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, l'Ungheria, la Romania e la Bulgaria
sono associati all'Unione, mentre con gli Stati Baltici e la Slovenia si
preparano i relativi accordi. Sarà innanzitutto la RFT a trarre profitto
dall'allargamento della Unione, visto che il 50 per cento degli scambi
commerciali della UE con l'Europa dell'Est toccano alla RFT. Pertanto l'Est è
visto come "campo d'azione della politica estera tedesca".
LA
FINE DEL BLOCCO DELL'IMPERIALISMO TEDESCO
Con la fine della contrapposizione Est-Ovest e lo
scioglimento dell'Unione Sovietica, dopo circa 50 anni di interdizione in
politica estera nella RFT si discute apertamente delle ambizioni politiche da
grande potenza in direzione Est, e si passa anche alle azioni concrete. Il
riconoscimento di Croazia e Slovenia nel Dicembre 1991 - contro gli intendimenti
degli alleati occidentali - doveva dimostrare a tutti il ritorno della Germania
nella sua posizione di potenza mondiale a tutti gli effetti. I vecchi piani di
pressione verso Est poterono esser nuovamente tirati fuori dal cassetto.
Già Friedrich Naumann sapeva bene che la
costruzione di uno spazio d'influenza economica sarebbe stata possibile solo
sfruttando le tendenze indipendentiste di parte dei Cechi, degli Slovacchi, dei
Croati, degli Sloveni e così via. A lui parevano essenziali due elementi
chiave: l'unione economica dell'Europa centrale e gli "Stati del nocciolo
mitteleuropeo" (6). Al presente questi due elementi chiave sotto un certo
punto di vista sono l'Unione Europea ed i già esposti pensieri sugli Stati del
nocciolo duro, attraverso i quali si perseguirebbe una estensione ulteriore
dell'egemonia tedesca. Dopo il 1945 tutto questo non era ancora stato possibile.
La "'Mitteleuropa' appariva come pallida immagine di una storia
irriproponibile" (7).
Il pensiero di una "Mitteleuropa" tornò
in auge solamente negli anni '70 ed '80 - esso doveva essere usato solo in
funzione della destabilizzazione degli Stati del blocco dell'Est. La "Mitteleuropa"
fu invocata dagli intellettuali ungheresi, croati e polacchi tanto apprezzati
qui in Occidente, poichè d'opposizione, a partire dalla metà degli anni '80. A
ciò aveva contribuito l'allora Vicepresidente degli USA, George Bush, che nel
Settembre 1983 dopo un viaggio in Jugoslavia, Romania ed Ungheria tenne una
conferenza nella Hofburg viennese, proclamandosi a favore di una politica della
differenziazione regionale, allo scopo di favorire l'indipendenza di questi
Stati - già allora quindi la sovranità jugoslava era messa apertamente in
questione. Il concetto per mezzo del quale egli identificava questa regione -
Ungheria, Slovenia, Croazia, Cecoslovacchia, Polonia, ecc. - era espresso dalla
parola tedesca "Mitteleuropa" (8). Tra gli intellettuali di quell'area
"Mitteleuropa" divenne così una specie di parola in codice che doveva
segnalare che si sentivano parte della cultura politica dell'Ovest.
Nel 1991 veniva pubblicato un discorso, nel quale
si dava rilievo al ruolo della Germania per il futuro. "Se le difficoltà
dell'unificazione verranno superate - tra cinque, dieci o venticinque anni - la
Germania non eluderà affatto la penetrazione economica dell'Europa orientale, e
probabilmente le toccherà su questa strada di arrivare a ciò che il Terzo
Reich con alcune centinaia di divisioni non aveva raggiunto - il predominio su
quelle aree estese a perdita d'occhio tra Weichsel, Bug, Dnjepr e Don".
Questa la predizione dell'editore conservatore Wolf Jobst Siedler. E per di più
questi sosteneva che la Germania sarebbe nuovamente la potenza egemone di tutta
la Mitteleuropa: "essa sarà per i Cecoslovacchi, per gli Ungheresi ed in
parte anche per i Polacchi la potenza-guida" (9).
"Per lungo tempo in Europa orientale non ci
sarà più di fatto alcuno Stato veramente sovrano; tutti, chi più chi meno, si
dovranno inchinare dinanzi al dettato del Leviatano germanico. No, la futura, già
avviata germanizzazione dell'Europa orientale non avverrà più per mezzo della
guerra e della violenza, bensì sarà una versione allargata della 'Mitteleuropa'
concepita nei primi decenni di questo secolo da Friedrich Naumann, una specie di
costruzione k.u.k. ingrandita [kaiserlich und königlich - imperiale e reale,
detto dell'Impero Austroungarico, ndt]", secondo il pubblicista spagnolo
Heleno Saña nel suo libro "Il quarto Reich - la vittoria ritardata della
Germania" (10).
I rapporti economici con la Polonia, la Repubblica
Ceca, la Slovacchia, l'Ungheria, la Bulgaria e la Slovenia già oggi riportano
al modello degli anni '30: con bilanci commerciali asimmetrici, a favore della
RFT, che rappresenta in questa area l'effettiva potenza economica, insieme alla
Francia. Il consulente imprenditoriale tedesco Roland Berger ha descritto il
ruolo della Germania proprio nel senso della politica dei "cerchi
concentrici", di intensità e pressione economica via via minore, in una
intervista allo Spiegel nel 1992: "I tedeschi dovrebbero rendersi conto
della propria forza ed innanzitutto lasciar stare ciò che altri già possono (perdipiù
con minori costi). (...) Noi siamo forti in tutti i lavori ad alta intensità di
sapere ed in quelli creativi, nell'inventare, nello sviluppare, nel costruire,
nella realizzazione di parti essenziali e prodotti tecnologici all'avanguardia.
(...) Il nostro futuro in quanto paese industriale è quello di un cervello del
sistema, non quello d'un produttore di profilati in alluminio o d'un sarto di
camicie. (...) Il mercato mondiale diviene unitario, pertanto dobbiamo
riorganizzare la divisione del lavoro tra i vari paesi, secondo il motto: il
know-how in Germania, più componenti da fuori ed assemblaggio sul posto (dentro
o fuori il paese)" (11).
L'INTERVENTO
DELLA RFT NELLA GUERRA CIVILE JUGOSLAVA
Negli ultimi anni uno slogan essenziale della
politica tedesca riguardo l'attuazione dei suoi interessi in Europa orientale e
meridionale è stato quello del "diritto all'autodeterminazione dei
popoli". Con questo la RFT cerca di ricollegarsi ai conflitti esistenti tra
gruppi di diversa lingua o Weltanschauung all'interno di uno stesso Stato o di
una Federazione di Stati. Conflitti, che riportano più che altro a problemi e
diseguaglianze di tipo economico - diverso livello di sviluppo tecnico o
industriale, mancanza di beni di consumo, ecc. -, sono esplicitati per il loro
carattere etnico (la "etnicizzazione del sociale"). Così è stato ad
es. per le Repubbliche baltiche della ex Unione Sovietica o per le Repubbliche
slovena e croata all'interno dello Stato federale jugoslavo, che pure avevano
una posizione economica privilegiata. "La politica della RFT si riallaccia
a queste contraddizioni interne dei paesi, con l'obiettivo della frammentazione
o della riduzione dello Stato o Federazione, oppure con l'obiettivo della
cancellazione o separazione della parte in questione dalla Federazione di
Stati" (12). Questo tuttavia soltanto allo scopo di portare le parti
distaccate verso la dipendenza economica e politica.
Possiamo attualizzare meglio le riflessioni che
fanno da sfondo riferendoci forse alla teoria "dell'arancia" di Paul
Rohrbach, politico del colonialismo: essa intendeva portare l'Impero russo a
sciogliersi nelle sue varie componenti, o perlomeno ridurlo in parti
controllabili dalla Germania; l'Impero degli Zar, secondo Rohrbach, era
scomponibile nelle sue varie parti come un'arancia - se si suddivide abilmente
un'arancia non si ottiene un insieme caotico inutilizzabile, nè distruzione,
bensì i vari spicchi restano intatti ed appetibili (13). Dietro la politica
della RFT di sconvolgere la Jugoslavia tramite "il piede di porco (...) del
riconoscimento di Croazia e Slovenia" (14) nel Dicembre 1991 non c'è
nient'altro che l'antica tattica del divide et impera - niente a che vedere con
l'"umanità", i "diritti umani" o il "diritto
all'autodeterminazione dei popoli".
A Slovenia e Croazia era assegnata una particolare
e specifica funzione nel mercato interno della Jugoslavia. Lo standard di vita
di queste regioni industrializzate era più alto che in qualunque altra parte
della Federazione jugoslava. Mentre durante la crisi politico-economica degli
anni '80 lo sviluppo era in stagnazione, i rapporti di scambio con le
Repubbliche più povere avuti fino allora furono percepiti come
"zavorra" e si cercarono prospettive nell'annessione al mercato CEE o
a quello mondiale.
Che la strada di Slovenia e Croazia verso la
"autodeterminazione" avrebbe portato alla rovina lo avevano
pronosticato già il FMI e la Banca Mondiale nell'estate del 1991. Il
Vicepresidente della Banca Mondiale, Wapenhans, aveva detto allora:
"Secondo la nostra opinione non sussiste alcun dubbio sul fatto che nessuna
delle parti componenti la Jugoslavia trarrà profitto dallo sfascio della
Jugoslavia o della sua economia nel breve e medio periodo" (15). In tale
maniera egli ammetteva indirettamente che con la salvaguardia della Federazione
e del mercato interno jugoslavo era sì dato un fondamento per la sopravvivenza
anche di Croazia e Slovenia, piuttosto che con uno status slegato da questa base
comune - cioè l'"indipendenza", che sfocia per forza di cose nel
legame con l'area tedesco-europea.
Sicuramente esiste anche una continuità storica,
che ha determinato la spinta e l'appoggio di una grande parte della popolazione
slovena e croata alla svolta verso la Germania. L'antico legame nella
"divisione del lavoro" con l'economia globale tedesco-imperiale e
pantedesca è rimasta nella coscienza di parte di quelle popolazioni come un
fatto positivo. L'odierno Presidente croato Tudjman potè trovare parecchi
sostenitori promettendo che alla separazione dalla Federazione jugoslava sarebbe
conseguito l'"appoggio" della Comunità Europea, ed in particolare
della vecchia amica Germania. Gli slogan anticomunisti hanno fatto il resto.
Il giornalista americano John Newhouse aveva reso
noto sulla rivista The New Jorker dell'agosto 1992 che "Genscher era stato
quotidianamente in contatto col Ministro degli Esteri croato. Egli incitava i
Croati ad abbandonare la Federazione e a dichiarare l'indipendenza" (16). E
questo benchè i leader politici della Bosnia premessero sulle potenze
occidentali perchè si ritirasse il riconoscimento di Slovenia e Croazia,
altrimenti sarebbero stati costretti essi stessi a chiedere l'indipendenza. La
loro sicurezza, dicevano, era fondata sull'esser parte di uno Stato
multinazionale (17).
Nel Novembre 1991 il Presidente bosniaco
Izetbegovic' aveva fatto visita al Ministero degli Esteri di Bonn. Egli si
opponeva alla politica dei riconoscimenti, poichè era convinto che questa
avrebbe "invitato" Serbia e Croazia ad aggredire la Bosnia, con la
conseguenza di un inimmaginabile bagno di sangue. Anche l'Ambasciatore tedesco a
Belgrado considerava il riconoscimento come una cattiva idea ed aveva fornito ad
Izetbegovic' argomenti per il suo colloquio con Genscher, ci informa Newhouse
(18). Ciò che ad Izetbegovic' fu promesso da Genscher non ci è ancora dato di
sapere: fatto sta che, dopo il colloquio, egli aveva ripiegato dalla sua
iniziale posizione apprensiva.
Prima ancora delle sanzioni ufficiali da parte del
Consiglio di Sicurezza dell'ONU la RFT, durante l'inverno, poco prima del suo
riconoscimento di Croazia e Slovenia, aveva imposto unilateralmente il blocco
dei traffici con la RFJ; poi, puntualmente a Natale, ebbe luogo il promesso
riconoscimento - e la prevedibile e fino ad oggi proseguita escalation della
guerra civile jugoslava. In tal modo l'imperialismo tedesco manifestava il suo
ritorno alla "normalità" dopo la fine del "blocco". Il 23
Dicembre 1991 va pertanto segnato sul calendario - analogamente al 1 Settembre
1994 di Hans-Peter Schwarz - tra le "svolte importanti" della storia
tedesca.
LA
JUGOSLAVIA E LA "NORMALIZZAZIONE" TEDESCA
La discussione sui riconoscimenti ed il conseguente
dibattito sulla Bosnia è nel segno del "ritorno alla normalità", un
obiettivo dello Stato preordinato dall'alto con il quale dovrebbe concludersi la
fase quarantennale di interdizione della Germania dai traffici di politica
estera.
In politica interna, sin dall'inizio della guerra
in Jugoslavia, si persegue "una quasi-normalizzazione del
Nazionalsocialismo per mezzo della moltiplicazione delle sue forme di
apparizione", e la corrispondenza giornalistica tedesca mira a creare
"una, due, tante Auschwitz" per poter gettare finalmente nella
spazzatura dodici anni di storia propria. Così esistono persino "campi di
sterminio serbi", "campi di concentramento", la "Grande
Serbia", una "Endlösung" [soluzione finale, detto per
l'Olocausto degli Ebrei, ndt] operata dai Serbi e la "follia di
dominio" serba, stese a copertura della propria storia (19). Con
l'istituzione, su iniziativa della RFT, di un Tribunale internazionale per i
crimini di guerra a L'Aia, si cerca da parte tedesca di relativizzare finalmente
lo "smacco di Norimberga". Naturalmente a Bonn si nega ogni
corresponsabilità nei crimini e nella guerra in Jugoslavia: nella versione
ufficiale c'è solo un gruppo di responsabili e criminali di guerra - i Serbi.
Quale sia lo scopo dell'arresto e dell'atteso processo contro Dusko Tadic', un
serbo abitante a Monaco, lo ha chiarito un avvocato di Amburgo, che avrebbe
condotto le autorità tedesco-federali sulle tracce di Tadic', nel corso di una
trasmissione speciale della ARD: Tadic' sarebbe in effetti soltanto un Hess, un
guardiano di campi di concentramento; per suo tramite si vuole arrivare ad
Himmler - Karadzic' - ed Hitler - Milosevic'.
Questo genere di demagogia e revisionismo storico
hanno permesso al giornalista americano David Binder, pure conservatore, di
chiedere che anche Kohl e Genscher vengano messi nella lista dei criminali di
guerra in un procedimento giudiziario sulla guerra in Bosnia, poichè questi
"hanno preso decisioni che hanno portato all'estensione e
all'intensificazione della guerra" (20).
Attraverso il riconoscimento della
anticostituzionale secessione delle Repubbliche ex-jugoslave alla politica
tedesca ed occidentale era riuscito di internazionalizzare un conflitto
essenzialmente di carattere interno, impegnandosi più apertamente per un
intervento nel senso di "garantire la pace". Persino Genscher ha
potuto farsi passare da critico difensore dei diritti umani, mentre spingeva gli
alleati europei al riconoscimento: "Anche nel futuro la Germania si porrà
dalla parte dei diritti umani, dei diritti delle minoranze e del diritto
all'autodeterminazione, contro l'aggressione e l'oppressione. (...) Alla Comunità
Europea si impone di aprire una prospettiva europea ai popoli della Jugoslavia
per il futuro" (21). Avendo sottolineato, come premessa, che soltanto ai
popoli della Jugoslavia spetta di decidere sul proprio futuro, egli metteva poi
in guardia esplicitamente: "Non possiamo lasciare da sole le Repubbliche
indipendenti (...). Non le possiamo spingere nell'isolamento rispetto alla
comunità internazionale degli Stati!". Con ciò egli riusciva a dare al
"futuro dei popoli jugoslavi" una precisa prospettiva nel quadro
comunitario, con l'obiettivo (suddetto) della decomposizione o del
rimpicciolimento di quello Stato, e della conseguente annessione di queste parti
distaccate ad una vasta area di influenza in qualità di soggetti economicamente
e politicamente dipendenti, nel quadro della gerarchia raffigurata dal già
citato Roland Berger.
L'Handelsblatt [importante quotidiano economico e
finanziario, ndt] descriveva nel Settembre 1991 lo sviluppo economico
dell'Europa nella seguente maniera: la "storia dell'economia [insegna] che
la dinamica economica non si sviluppa mai in senso superficiale-orizzontale,
bensì di regola a partire da centri le cui attività si estendono verso
l'esterno come anelli che si allargano. Così lo sviluppo economico del
continente ha potuto evolvere secondo i seguenti binari: i centri mitteleuropei
si irradiano verso Est, conquistando innanzitutto gli ex paesi satelliti. Solo
in seguito verranno raggiunte le regioni di confine dell'impero sovietico.
Tralasciando alcuni punti di forza industriali propri presenti sul territorio
dell'Unione Sovietica, attorno al nocciolo duro europeo si formeranno anelli
concentrici con livelli di attività economica decrescente, il cui standard
produttivo fluttua nel contatto con l'Europa..." (22).
Per poter esercitare più influenza su questi
"anelli concentrici che circondano il nocciolo dell'Europa con attività
economica decrescente", e per controllarli meglio, tramite lo slogan
dell'"autodeterminazione" è stata distrutta la Repubblica Federativa
Socialista di Jugoslavia.
"L'attuale politica interventista contro la
Jugoslavia, in interazione con gli attuali meccanismi di formazione della
opinione pubblica all'interno della RFT, ancora non si configurano come uno
stato di guerra [palese, nda]. Si mira però a raggiungere una capacità di
mobilitazione bellica, tanto all'esterno quanto all'interno" (23).
Come questo può avere luogo ce lo indica la
seguente considerazione: "Le circostanze mi hanno costretto per anni a
parlare quasi soltanto di pace. Solo tramite la costante proclamazione del
desiderio tedesco di pace e delle intenzioni pacifiche mi è stato possibile
procacciare al popolo tedesco la libertà, pezzetto per pezzetto, e
l'equipaggiamento che fu sempre necessario come condizione per poter fare il
passo successivo (...). E' stato altresì indispensabile mutare a poco a poco la
psicologia del popolo tedesco, e chiarirgli lentamente che esistono cose che
vanno ottenute per mezzo della violenza, se non possono esserlo con mezzi
pacifici. Tuttavia a tale scopo si è reso necessario non solo propagandare la
violenza in quanto tale, bensì illuminare il popolo tedesco in merito a certi
accadimenti di politica estera, in modo che nel cervello delle masse si
generasse lentamente la seguente convinzione: se questo non si può cambiare con
le buone, allora lo sarà con la violenza". Così si esprimeva Adolf Hitler
dinanzi alla stampa tedesca il 10-11-1938 (24).
La "illuminazione" sistematica e
persuasiva su avvenimenti di politica estera, compiuta in maniera tale da
indurre gran parte della popolazione ad esprimersi a favore di misure violente
contro un altro Stato, è un costituente essenziale della formazione di una
propria capacità bellica. E sotto questo aspetto vanno analizzati anche gli
ultimi tre anni di politica riguardo la Jugoslavia.
CONSIDERAZIONI
CONCLUSIVE
L'economista egiziano e teorico marxista Samir Amin
ha recentemente individuato quali compiti oggi si pongano concretamente nella
discussione riguardante interventi propagandati con la copertura
dell'umanitarismo e dei diritti umani: "Sotto ogni aspetto, in ogni tempo
ed in ogni forma, il fatto che il Nord si immischi negli affari del Sud (ed a
maggior ragione quando si tratta di un intervento violento, militare o politico)
è un fatto negativo. Gli eserciti occidentali non porteranno mai pace,
benessere o democrazia ai popoli di Asia, Africa ed America Latina. In futuro
come da cinque secoli a questa parte potranno portare solo schiavitù,
sfruttamento del loro lavoro e delle loro ricchezze, negazione dei loro diritti.
E' compito delle forze progressiste dell'Ovest capire questo" (25).
Mentre un tempo ampi settori della sinistra
solidarizzavano con i movimenti di liberazione, si preoccupavano dello
sfruttamento dei paesi del cosiddetto Terzo Mondo e dimostravano contro FMI e
Banca Mondiale, oggi in Occidente si è sviluppata una cultura di stampo
chauvinista che non ha origine dagli ambienti conservatori e nazionalisti, bensì
dal centrosinistra liberale - dal luogo politico cioè in cui era situato il
movimento pacifista. Sorprendentemente l'idea che la Germania sia una grande
potenza, che cerca senza riguardi di perseguire il proprio interesse, è
assolutamente scomparsa, anche in Germania - e nella stessa sinistra. Tanto
quanto il concetto di imperialismo è passato di moda (innanzitutto in relazione
alla società tedesca).
E così non sono stati nè gli incitamenti all'odio
di Herr Reißmüller sulla FAZ nè i racconti dell'orrore del deputato CDU
Stefan Schwarz a far sì che, dopo lo scoppio del conflitto in Jugoslavia, si
proclamasse da ogni parte ad alta voce e per la strada la necessità
dell'intervento occidentale contro i Serbi. Sono stati al contrario partiti come
i Grünen [Verdi, ndt] e fogli liberali (di sinistra) come la TAZ, il
Frankfurter Rundschau, Die Zeit, il francese Liberation e il britannico Guardian
a diffondere un panico antiserbo tale da influenzare fino ad oggi la percezione
del conflitto degli intellettuali occidentali. Frattanto il movimento pacifista
e terzomondista gioca qui un ruolo non sottovalutabile, rendendo popolari gli
interventi occidentali nei paesi del Tricontinente. Da questa parte è giunta la
maggioranza delle proposte, ad es. quella di porre termine finalmente al
conflitto jugoslavo attraverso un intervento (militare o meno). Purtroppo in
questi ambienti l'antico slogan del tempo della I Guerra Mondiale
"il principale nemico si trova nel proprio
paese" è finito nel dimenticatoio, e conseguentemente la protesta non è
diretta contro lo chauvinismo occidentale di fronte agli altri popoli, nè
contro l'intromissione del proprio Stato nelle faccende degli altri Stati
sovrani. Al contrario, le campagne dell'opposizione antimilitarista sono dirette
in primo luogo ad es. contro l'esportazione di armamenti, quindi contro la
fornitura di armi a regimi considerati particolarmente terribili, e non contro
il militarismo tedesco. Il messaggio lanciato da tali campagne può essere
considerato a tutt'oggi uno solo: ci sono due categorie di Stati - quelli per i
quali il possesso di armamenti è legittimo e senza problemi (l'Occidente), e
quelli per i quali è interdetto (i paesi del cosiddetto Terzo Mondo) (26).
Un "movimento per la pace" che incita il
proprio Stato ad immischiarsi nelle questioni di altri popoli non è un
movimento per la pace. Questo deve essere chiarito assolutamente. E
conseguentemente il vecchio slogan "combattere il nemico nel proprio
paese" deve essere rimesso all'ordine del giorno dell'agenda politica della
sinistra - contro qualsiasi forma di preparativo alla guerra, all'interno come
all'estero, sia essa di tipo economico, politico, militare o ideologico.
Rispetto al conflitto in Jugoslavia, ciò significa
concretamente schierarsi contro ogni tipo di intervento ed anzi chiederne la
cessazione. Perchè, come ci ha detto Samir Amin, una intromissione
dell'imperialismo non può mai portare nè pace, nè benessere nè democrazia
(27). Questa deve essere la posizione di partenza inalienabile di un lavoro
internazionalista ed antiimperialista, ed a partire da questa si possono
discutere ulteriori rivendicazioni e prospettive politiche.
NOTE
1. Sui retroscena del conflitto Jugoslavo sia a
livello politico che economico cfr. il contributo di Jochen Gester:
Retroscena economici del conflitto jugoslavo, sui Marxistische Blätter
1-'95, ppgg. 8-17.
2. H.-P. Schwarz: Die Zentralmacht Europas -
Deutschlands Rückkehr auf die Weltbühne [La potenza centrale d'Europa -
Il ritorno della Germania sul proscenio mondiale]. Berlino 1994. Pag. 7.
3. H.-P. Schwarz, op. cit., pag. 8.
4. Citato dai Politische Berichte 19-'94, pag.3.
5. Cfr. il Frankfurter Rundschau del 13-9-1994, a
pag. 1.
6. Cfr. Schwarz, op. cit., pag. 245.
7. Schwarz, op. cit., pag. 248.
8. Schwarz, op. cit., pag. 249.
9. Schwarz, op. cit., pag. 251.
10. Heleno Saña: Das Vierte Reich - Deutschlands später
Sieg. Amburgo 1990. Pag. 108.
11. Der Spiegel n.18-'94, pag. 154. Queste
considerazioni non sono nuove, bensì sono in continuità con la
costruzione di una vasta area d'influenza durante il fascismo. Già nel
1941 Theo Suranyi-Unger aveva formulato riflessioni di questo tipo sulla
Zeitschrift für die gesamte Staatswirtschaft - Rivista per l'economia
statale globale: "I paesi subordinati potranno coprire non soltanto
il loro fabbisogno (...) bensì anche quello del paese-guida, mentre
quest'ultimo si dedicherà sempre più a quei rami dell'industria che
richiedono manodopera altamente qualificata e processi produttivi
particolarmente lunghi...". Citato da: Hunno Hochberger,
Sull'intervento della RFT nella guerra civile jugoslava - Alcune
riflessioni sull'espressione "europa tedesca". In: A. Meurer, H.
Vollmer, H. Hochberger: Die Intervention der BRD in den jugoslawischen
Bürgerkrieg. Hintergründe, Methoden, Ziele. GNN-Verlag. Colonia 1992. Pag. 33.
12. Hochberger, op. cit., pag. 30.
13. Cfr. Wolf-Dieter Gudopp: Auf dem Weg in den
dritten Weltkrieg ? [Verso la terza guerra mondiale?] Verein Wissenschaft
und Sozialismus e.V.- Francoforte 1993, pag.18.
14. Schwarz, op. cit., pag. 156.
15.
Citato da: Hochberger, op. cit., pag. 31.
16. John Newhouse: Bonn, der Westen und die Auflösung
Jugoslawiens. Das Versagen der Diplomatie - Chronik eines Skandals [Bonn,
l'Occidente e il disfacimento della Jugoslavia. La sconfitta della diplomazia -
cronaca di uno scandalo]. In: Blätter für deutsche und internationale Politik
10-'92, pag.1195.
17. Newhouse, op. cit., pag.1193.
18. Newhouse, op. cit., pag.1196.
19. Tutte le citazioni da: Arthur Heinrich: Wunderbare
Wandlung. Die Nachkriegsdeutschen und der Bosnien-Einmarsch. Ein Frontbericht
[Metamorfosi miracolosa. I tedeschi del dopoguerra e la marcia sulla Bosnia. Un
reportage dal fronte]. In: Blätter für deutsche und internationale Politik
4-'93, pag.411.
20. Citato da: Heinrich, op. cit., pag. 413.
21. Citato da: Hochberger, op. cit., pag.32.
22. Hochberger, op. cit., pag. 33.
23. Hochberger, op. cit., pag. 42.
24. Gudopp, op. cit., pag. 3.
25. Samir Amin: Das Reich des Chaos - Der neue
Vormarsch der Ersten Welt [L'impero del caos - la nuova avanzata del Primo
Mondo]. VSA-Verlag. Amburgo 1992, pag. 18.
26. Cfr. Sabine Reul: Friedenslobby und politisch
korrekter militarismus [Lobby pacifista e militarismo politically correct]. In:
NOVO n.13, 11/12-1994, ppgg.
35-37; Ernst Woit: Imperialistische Ziele und Strategien [Obiettivi e strategie
imperialiste]. In: Marxistische Blätter 5-'94, ppgg. 55-59.
27. Fuori luogo è appellarsi ad una "razionalità
del capitalismo", e sperare in una "politica socioeconomica di pace a
livello globale", come fa Werner Ruf sui Marxistische Blätter 5-1994. Cfr.
Rüdiger Göbel in: Prokla n.95, 24-6-'94, ppgg. 287-301.
[Tratto
da: Jugoslawien-Bulletin 4-'95, raccolta di documentazione "contro le
sanzioni, l'incitamento guerrafondaio e la politica tedesca da grande
potenza". Per contatti, contributi e abbonamenti:
Jugoslawien-Bulletin
c/o Friedensladen, Schillerstr. 28, 69115 Heidelberg (Germania)]
Nessun commento:
Posta un commento