ROMA – “Libia, Mali e Sudan, sono questi i Paesi africani dove bisogna impegnarsi di più“:
a parlare con la Dire è Abigail Hartley, capo della sezione politica di
Unmas, l’agenzia delle Nazioni Unite che coordina il contrasto alle
mine antiuomo. Il colloquio comincia dall’ultimo rapporto
dell’International Campaign to Ban Landimines (Icbl).
Un documento allarmante, che conferma un incremento del 25 per cento del numero dei morti e dei feriti causati dalle mine
e dagli ‘Ied’, acronimo inglese per ordigni improvvisati. Secondo
Hartley, l’incremento è dovuto a più fattori. Pesa anzitutto l’impiego
sempre più diffuso degli ‘Ied’, responsabili di circa il 20 per cento
delle 6461 vittime del 2015.
“Questi ordigni letali sono diventati le armi preferite per la gran parte dei gruppi armati”
spiega la dirigente di Unmas: “Il loro uso è diffuso in Afghanistan,
Iraq e Siria ma anche in Africa, in particolare Mali, in Somalia e in
Nigeria, dove opera Boko Haram”. Inevitabile, allora, che in un’ottica
di contrasto la regione subsahariana sia prioritaria. “Insicurezza e
conflitti si sono aggravati” dice Hartley, “e la diffusione sul territorio di ordigni esplosivi sta determinando un incremento del numero delle vittime“.
La responsabile delle Nazioni Unite
sottolinea che l’arco di crisi comincia dalla Libia post-Gheddafi,
secondo Paese più colpito al mondo nel 2015 dopo l’Afghanistan, e
prosegue nel cuore del Sahel. Secondo Unmas, in Mali 188 civili sono stati uccisi o feriti dall’esplosione di mine dal luglio 2013,
quando si è conclusa l’offensiva francese contro i gruppi ribelli di
matrice islamista. “Ordigni inesplosi e uso diffuso di ‘Ied'” da parte
delle formazioni armate radicate nelle regioni del nord minacciano sia
la popolazione civile che gli operatori umanitari, in particolare coloro
che viaggiano su strada”.
A rendere il 2015 un anno da incubo è stata d’altra parte la diminuzione dei fondi a disposizione per l’assistenza alle vittime, le bonifiche dei terreni e la distruzione degli arsenali.
Impegni, questi, previsti da un trattato per la messa al bando delle
mine firmato nel 1997 e sottoscritto ormai da 162 Paesi. Tra il 2014 e
il 2015 il calo a livello globale è stato di circa il 25 per cento. Per la prima volta dal 2005 i fondi non hanno raggiunto i 400 milioni di dollari.
Un dato aggregato, che nasconde progressi e impegni nuovi assunti da
singoli donatori. Tra questi l’Italia, che negli ultimi due anni ha
incrementato il suo contributo del 35 per cento.
“Il vostro Paese è presidente del Mine
Action Support Group (Masg)”, sottolinea Hartley, “e accresce il proprio
sostegno nella consapevolezza che il momento è decisivo e i bisogni
enormi”. Più delle parole dicono i numeri. Nel 2015 Roma ha
stanziato un milione e 350 mila euro per le attività di Unmas nella
Striscia di Gaza, in Colombia, in Siria e in Sudan. Quest’anno
l’impegno è stato ancora superiore, con un fondo da un milione e 979
mila euro a beneficio anche di nuovi Paesi, in particolare Libia e Iraq.
Tra i programmi citati da Hartley quelli finanziati in Sudan: “Un
contributo di 250 mila euro per le attività di bonifica, il sostegno al
Centro nazionale per l’azione di contrasto alla mine e il supporto al
reinserimento psicologico e socioeconomico delle vittime”.
14 dicembre 2016
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