Andrea Purgatori 13/1/2016
Voli fantasma di aerocisterne per il rifornimento dei caccia sul
Canale di Sicilia. Segnalazioni di bombardamenti mirati su alcune
roccaforti dell'Isis. Un attacco armato non confermato ufficialmente ai
cancelli dell'hub Eni a Mellitah, respinto dalle forze di sicurezza
dell'impianto (ma quali?). Un blitz italiano con un aereo militare a
Misurata per raccogliere alcuni feriti gravi dell'attentato kamikaze di
qualche giorno fa a Zliten (74 morti). I segnali di una vigilia di guerra in Libia si
moltiplicano, mentre è partito il conto alla rovescia per il varo del
Governo di unità nazionale, e sul campo procede la mappatura degli
obiettivi Isis da colpire.
È una corsa frenetica contro i tempi
estenuanti della politica e contro le fazioni alleate del Califfato
quella che si consuma in queste ore da Tripoli a Tobruk, per non parlare
della fascia sahariana a Sud. E i primi a mettere gli stivali sul
terreno sono stati al solito gli uomini delle forze speciali. Da tempo,
quelli dello Special Air Service (Sas) britannico e i francesi del 2e
Régiment Etranger Parachutistes della Legione (2° Rep). Ma lungo il
confine orientale anche l'Unità 999 Cobra dell'Esercito egiziano.
Obiettivo comune: drenare le aree conquistate o infiltrate dai jihadisti
locali e stranieri e posizionare gli strumenti di puntamento per i
cacciabombardieri quando il nuovo governo chiederà formalmente
all'Occidente aiuto militare per riconquistare le città su cui
sventolano i vessilli neri dell'Isis.
E l'Italia, cosa fa? La
momentanea posizione "no combat" espressa al termine della riunione del
premier Renzi con i vertici diplomatici e militari era scontata: nessuna
azione militare senza una richiesta esplicita del nuovo governo, poi si
vedrà. In realtà, tra voci e smentite, con mezzo piede in Libia ci
saremmo già. Non solo perché alcune unità della Marina con un piccolo
contingente di uomini incrociano lungo la linea delle acque nazionali
(ricordate la protesta di qualche settimana fa, di un oppositore
dell'accordo tra i governi di Tobruk e Tripoli?), ma perché più di una
segnalazione racconta di militari delle nostre forze speciali (quelli
del Comsubin, che misero in sicurezza le piattaforme petrolifere dopo la
caduta di Gheddafi?) piazzati in segreto a protezione degli impianti
dell'Eni.
In segreto, appunto. È la parola chiave del prologo a
quello che potrebbe essere il primo scontro face to face tra Occidente e
Califfato (anche se in franchising). Un confronto che finora europei e
americani hanno evitato in Siria e Iraq, ma che verosimilmente non potrà
essere surrogato allo stesso modo dalle bombe dei caccia anche sulla
Libia polverizzata da anni di guerra civile. Ormai lo prevedono molti
analisti, soprattutto dopo che l'Occidente ha ottenuto una parziale
vittoria riunificando le due anime maggioritarie del paese (quella,
diciamo così, laica e quella islamica, entrambe comunque devote al
potere e ai ricchi proventi del petrolio), e prevedono che difficilmente
l'Italia potrà mantenere una posizione di neutralità lasciando ad altri
il compito di sporcarsi le mani sul terreno.
Non sarà una scelta
facile per il governo, anche se il dispositivo militare è già pronto da
mesi. Ma intanto, la verifica sul peso politico del nostro ruolo nel
processo negoziale che sembra aver conciliato i due contendenti è attesa
a giorni, forse ad ore, con la liberazione dei quattro tecnici che
lavoravano per un subcontractor dell'Eni, sequestrati nel luglio scorso
nella zona di Mellitah.
Preso da: http://www.huffingtonpost.it/andrea-purgatori/strana-attivita-militare-libia_b_8971940.html#
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