22 novembre 2011
Sono molto legato alla Libia (e un po’ lo ero
anche a Gheddafi) perché ci sono nato, lì c’è stata la mia prima
formazione politica e diventai comunista (clandestino, governava
l’amministrazione militare britannica).
E fu in Libia che entrai nell’Associazione per i Progresso della Libia
di cui facevano parte compagni più anziani, come Cibelli, Prestipino,
Caruso, Manzani, i fratelli Russo e altri ancora. Il combinato disposto
dall’associazione per l’indipendenza della Libia e la clandestinità
comunista, nel dicembre del 1951 determinarono l’arresto e l’espulsione
dalla Libia mia e di un po’ di altri compagni.
Questo passato provocò, nel 1998, l’invito da parte del governo libico a
un soggiorno in Libia per me e mia moglie. Rivedere la Libia, Tripoli,
la mia casa, la mia scuola, i bar fu per me straordinario, ma lavorando
al Manifesto chiesi, e ottenni abbastanza rapidamente, un’intervista a
Muammar Gheddafi.
Per l’intervista (il 5 dicembre 1998) dovetti fare un
lungo viaggio a Sirte, l’ultimo caposaldo della resistenza dove Gheddafi
è stato ucciso.
Altri tempi. L’incontro e l’intervista furono molto interessanti. Mi
colpì innanzitutto la sua passione per Rousseau, dal quale derivava la
sua posizione per la democrazia diretta e i comitati del popolo, che
però (povero Rousseau) produsse un po’ di confusione, una inconsistenza
delle strutture statali e un Gheddafi (sono le sue parole) che era un
po’ come la regina d’Inghilterra, però comandava. Ed è mia impressione
che questo comando nel corso del tempo si sia deteriorato. In
quell’intervista Geddafi sottolineò l’importanza di aprire buoni
rapporti con l’Italia e con l’Unione europea, anche per contenere il
potere degli Usa. Si parlò anche di un suo scritto «Il comunismo è
veramente morto?», dove dubitava di questo decesso.
In quell’occasione girai per Tripoli e mi parve di registrare una sorta
di welfare petrolifero: non c’erano bidonville, non eri assalito dai
mendicanti, anzi non c’erano. Apprendevi dell’esistenza di una efficace
assistenza sanitaria e di un buon sistema scolastico, a giudicare almeno
dal numero di laureati che incontravi. I buoni rapporti con la Libia di
Gheddafi sono continuati e ho fatto anche la prefazione al volumetto
«Fuga dall’inferno», dove scrive che, in questo mondo, per trovare un
po’ di pace bisogna fuggire all’inferno. Invero non troppo ottimistico
sullo stato delle cose esistenti.
Oggi siamo all’epilogo. Nella sua Sirte, Gheddafi è stato catturato e
ucciso. Lasciarlo vivere, ancorché prigioniero, sarebbe stato
evidentemente un problema. Che dire, ora, a caldo, di questo esito?
La prima considerazione è che ci sono voluti otto mesi di guerra e
bombardamenti Nato a catena per abbattere il "tiranno", che evidentemente
aveva più di un sostegno nella popolazione libica. In secondo luogo,
viene da ripetere che lo stile è l’uomo. Gheddafi, come tanti altri capi
arabi, poteva fuggire in qualche paese africano e starsene tranquillo e
benestante. Invece è rimasto e ha accettato di morire sul campo, di
restare testimone della sua linea e della sua lotta. E qui mi viene da
aggiungere, sorprendentemente d’accordo con Berlusconi, «sic transit
gloria mundi». Gheddafi fino a otto mesi fa era accolto e onorato in
tante capitali, ricordo soprattutto l’accoglienza di Sarkozy a Parigi e
quella straordinaria a Roma, con la manifestazione di cavalleria e anche
(visto in tv) il bacio di Berlusconi.
Pur cosiderando tutti i limiti e gli errori di Gheddafi, la sua caduta -
sempre a mio parere - segnala la sepoltura delle "primavere arabe" e un
nuovo inizio di un intervento coloniale delle potenze occidentali in
Africa, e non credo si possano riporre molte speranze negli ex
gheddafiani che dovrebbero costituire il nuovo governo della Libia.
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