14 aprile 2017
Lo chiamano il “ghetto di Alì” a Sabha, una
fortezza nel deserto nel sud est della Libia, mura alte e filo spinato,
miliziani armati di mitragliatrici lungo tutto il perimetro, dentro due
gironi danteschi, uno per uomini, l’altro per donne e bambini, dove da
mesi vengono tenuti prigionieri un migliaio di migranti, sottoposti a
violenze di ogni genere, torture in diretta telefonica con le famiglie
rimaste nei villaggi, filmate e inviate per spillare altri soldi. Il
mare, il miraggio di quella costa dove sono diretti per imbarcarsi su un
gommone fatiscente o su una qualsiasi carretta che li porterà in
Italia, è ancora molto ma molto lontano da lì, quasi 800 chilometri. E’
la prigione “privata” dei trafficanti di uomini, impenetrabile e
feroce, quella in cui le milizie delle organizzazioni criminali che
portano in Europa centinaia di migliaia di migranti, torturano,
violentano, stuprano, uccidono senza pietà: qualsiasi cosa pur di
incassare, e su banche estere, altri soldi, un riscatto per la vita di
uomini, donne e bambini rapiti nel deserto lungo la rotta del centro
Africa, Costa d’Avorio-Burkina Faso- Niger-Guinea Bissau, o portati lì
con l’inganno da presunti mediatori del viaggio.
Chi può paga e, se
resiste, nel giro di qualche mese è fuori con segni indelebili sul corpo
e nella mente, chi non può viene ucciso. Chi prova a scappare viene
stroncato alle spalle da colpi di mitragliatrici.
E’
un racconto dettagliato e atroce quello che alcuni sopravvissuti,
arrivati a Lampedusa, i corpi martoriati dalle sevizie, hanno fatto agli
investigatori della squadra mobile di Agrigento diretti da Giovanni
Minardi dopo aver avuto il coraggio di indicare e far arrestare uno dei torturatori, il ventenne ghanese Eric Ackom,
che, alla fine, si era imbarcato con loro su un gommone poi soccorso
nel Canale di Sicilia da una nave umanitaria. Un arresto, con tentativo
di linciaggio, che non conclude l’inchiesta della Procura di Palermo che
ora, sperando nella collaborazione delle autorità libica, vorrebbero
individuare questa fortezza-prigione per salvare centinaia di vite
umane.
“Eravamo in mezzo al deserto – racconta uno dei prigionieri
sopravvissuti – era una grande struttura, recintata con dei grossi e
alti muri in pietra, costantemente vigilata da diverse persone, di varie
etnie, in abiti civili e armati di fucili e pistole. La struttura è
suddivisa in tre blocchi: nel mio eravamo 200 migranti di varie
etnie…Giunti nel ghetto, i membri dell’organizzazione ci dissero che
avremmo dovuto fargli pervenire, altri 1200 euro per essere liberati.
Ogni giorno telefonavano alla mia famiglia e mentre avanzavano le
richieste di denaro mi torturavano e seviziavano in maniera tale da
fargli sentire le mie urla strazianti”. Migranti appesi a testa in giù
flagellati con tubi di gomma in tutto il corpo, i “ribelli” trattati con
cavi elettrici applicati nelle parti intime, donne stuprate e
seviziate. “Durante la mia permanenza nel ghetto, da dove è impossibile
uscire, ho visto uccidere persone. So che mio cugino e altri hanno
provato a scappare e che sono stati ripresi e ridotti in fin di vita.
Temo che anche lui sia stato ucciso”.
Un altro migrante spiega l’inganno con cui uomini e donne che hanno già
pagato per il viaggio verso l’Italia finiscono nel ghetto. “Sono partito
dalla Costa d’Avorio e in Niger ho conosciuto un facilitatore. Lo
abbiamo pagato per raggiungere Tripoli. Eravamo circa cento. Malgrado
gli accordi erano di condurci a Tripoli, siamo arrivati a Sabha nel
deserto dopo quattro giorni. Ci dissero che saremmo rimasti lì solo un
paio di giorni, ma eravamo in prigionieri. All’interno della grande
recinzione ci hanno perquisiti e spogliati di qualsiasi nostro avere. Vi
era un grande muro in pietra alto tre metri, all’interno quattro
containers, tre per gli uomini e uno per le donne. Eravamo quasi 800
persone. Il carcere era vigilato ininterrottamente da guardie armate di
fucili mitragliatori. Porto ancora addosso i segni delle violenze
fisiche subite, in particolare delle ustioni dovute all’acqua bollente
che mi versavano addosso. Sono rimasto lì cinque mesi fino a quando i
miei familiari non hanno versato su Money gram la somma richiesta per
riscattare la mia libertà”.
Preso da: http://www.repubblica.it/cronaca/2017/04/14/news/sabha_il_lager_dei_migranti_nel_deserto_della_libia-162951614/
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