di Malachia Paperoga
Philip Giraldi, ex ufficiale della CIA e direttore esecutivo del “Council for the National Interest”, fa una pesante autocritica alla politica estera USA
e al suo legame con la crisi dei rifugiati. Il mainstream finge di
ignorare che tale politica è la principale causa della crisi dei
rifugiati, e tenta di scaricarne la responsabilità e il peso su chi è
chiamato ad accoglierli. Questa manipolazione della verità che esenta da
colpe i carnefici e cerca di riscrivere la storia, ricorda all’autore
il romanzo di Orwell “1984” dove tutte le verità scomode finiscono
bruciate nel “buco della memoria” per scomparire dal sapere collettivo.
Di Philip Giraldi, 9 settembre 2015
Il 29 aprile 2008, ho avuto una folgorazione come quella di San Paolo sulla via per Damasco. Avevo aperto il Washington Post
e lì, in prima pagina, c’era una foto a colori di un ragazzo iracheno
di due anni, chiamato Ali Hussein, che veniva estratto dalle macerie di
una casa che era stata distrutta dai missili americani. Il ragazzo
indossava pantaloncini e maglietta e aveva infradito ai suoi piedi. La
testa era piegata all’indietro in una posizione che rivelava
immediatamente allo spettatore la sua morte.
Quattro giorni più tardi, il 3 maggio, una lettera proveniente da
Dunn Loring, Virginia di una donna chiamata Valerie Murphy è stata
pubblicata dal Post. La Murphy sosteneva che l’immagine del
bambino iracheno ucciso non avrebbe dovuto essere pubblicata, perché
aveva “rinfocolato l’opposizione alla guerra e nutrito un sentimento
anti-americano”. Suppongo che il giornale pensasse che fosse una buona par condicio pubblicare questa lettera, anche se non posso fare a meno di ricordare che il neoconservatore Post
era stato generalmente riluttante nel pubblicare gli elementi contrari
alla guerra, arrivando a ignorare un raduno di 300.000 manifestanti a
Washington nel 2005. Rileggendo la lamentela della donna e anche un
commento su un sito Web, che suggeriva che la foto del bambino morto
fosse stata una messa in scena, ho pensato tra me e me: “che mostri che
siamo diventati”. E davvero eravamo diventati mostri. Mostri bipartisan
avvolti nella bandiera americana. Il segretario di stato di Clinton,
Madeleine Albright, una volta disse che “era valsa la pena” di uccidere
500.000 bambini iracheni tramite le sanzioni. Oggi la Albright è una
rispettata ed esperta statista coinvolta nella campagna presidenziale di
Hillary Clinton.
Ho avuto un’altra epifania (ossia “rivelazione” ndVdE) la scorsa settimana quando ho visto la foto
del bambino siriano Aylan Kurdi che galleggiava su una spiaggia turca
come un relitto. Indossava una maglietta rossa e scarpe da ginnastica
nere. Ho pensato che molti americani avrebbero scosso la testa guardando
la foto ma poi avrebbero pensato ad altro, più preoccupati del debutto
di Stephen Colbert sul Late Show e dell’inizio della stagione di
football.
Questo ragazzino è uno delle centinaia di migliaia di rifugiati che
stanno cercando di arrivare in Europa. Il mondo dei media sta seguendo
la crisi concentrandosi principalmente sull’incapacità dei governi
locali, impreparati ad affrontare i numeri dei migranti, e chiedendo
perché qualcuno, da qualche parte, non “fa qualcosa” (il buon vecchio “qualcosismo” che conosciamo molto bene ndVdE).
Ciò significa che in qualche modo, di conseguenza, la grande tragedia
umana è stata ridotta a una statistica e, inevitabilmente, a una partita
di football politica.
Sopraffatta dalle migliaia di aspiranti viaggiatori, l’Ungheria ha sospeso i treni
diretti verso l’Europa occidentale mentre paesi come la Serbia e la
Macedonia hanno schierato i loro militari e la polizia lungo i loro
confini in un tentativo fallito di bloccare completamente i rifugiati.
L’Italia e la Grecia sono state sopraffatte dai migranti che arrivano
dal mare. La Germania, a suo merito, ha intenzione di accogliere
fino a 800.000 richieste di asilo di rifugiati, principalmente dalla
Siria, mentre anche l’Austria e la Svezia hanno manifestato la loro
disponibilità ad accettarne molti altri (va detto però che la situazione è in rapida evoluzione ndVdE).
Gli immediati vicini della zona del conflitto, in particolare la
Turchia, il Libano e la Giordania stanno ospitando più di 3 milioni di
persone in fuga, ma i ricchi paesi arabi del Golfo e l’Arabia Saudita
hanno fatto poco o nulla per aiutare.
Crescono le richieste di una strategia unitaria europea per
affrontare il problema, inclusi l’istituzione di confini a tenuta stagna
e la dichiarazione che i mari al largo dei punti di partenza più
utilizzati in Nord Africa e in Asia diventino zone militari dove navi e
viaggiatori senza documenti saranno intercettati e portati indietro.
Dobbiamo anche considerare la possibilità che la crisi dei rifugiati
potrebbe essere sfruttata da alcuni politici europei per giustificare un
intervento “umanitario” della NATO di qualche tipo in Siria, una mossa
che dovrebbe essere supportata da Washington. Ma mentre continuano i
battibecchi e le schermaglie, aumenta il conto dei morti. La recente
scoperta di 71 aspiranti immigranti, morti soffocati nel retro di un
camion bloccato trovato in Austria, inclusi cinque bambini e un neonato,
hanno sconvolto il mondo. E questo era prima del bambino di tre anni morto sulla spiaggia turca.
Molti degli aspiranti immigrati sono giovani uomini in cerca di
lavoro in Europa, un fenomeno consueto, ma la maggior parte dei nuovi
arrivati sono famiglie che sfuggono agli orrori della guerra in Siria,
Iraq, Afghanistan e Yemen. La situazione è stata descritta nei media in
termini grafici, famiglie che arrivano con niente e non si aspettano
nulla, che fuggono da condizioni anche peggiori a casa loro.
Gli Stati Uniti hanno accolto solo un piccolo numero di rifugiati e
la sempre volubile Casa Bianca è stata insolitamente tranquilla riguardo
al problema, forse rendendosi conto che accogliere un sacco di
stranieri sfollati, in un momento in cui c’è un sempre più acceso
dibattito sulla politica di immigrazione in generale, semplicemente
potrebbe non essere una buona mossa, politicamente parlando. Ma forse
dovrebbe prestare qualche attenzione a ciò che ha causato il problema in
primo luogo, un po’ di introspezione che è largamente carente sia nei
media mainstream sia nei politici.
Infatti, assegnerei a Washington la maggior parte della colpa per ciò
che sta accadendo in questo momento. Visto che la classe dominante è
particolarmente abituata a dare giudizi basati su dati numerici,
potrebbe essere interessata a conoscere il prezzo della guerra globale
dell’America al terrore . Secondo una stima non irragionevole,
oltre 4 milioni di musulmani sono morti o sono stati assassinati a
seguito dei conflitti in corso che Washington ha avviato o di cui ha
fatto parte dal 2001.
Ci sono, inoltre, milioni di sfollati che hanno perso le loro case e i
mezzi di sussistenza, molti dei quali sono tra l’onda umana che sta
attualmente abbattendosi sull’Europa. Ci sono attualmente circa
2.590.000 rifugiati che hanno abbandonato le loro case dall’Afghanistan,
370.000 dall’Iraq, 3.880.000 dalla Siria e 1.100.000 dalla Somalia.
L’agenzia dei rifugiati delle Nazioni Unite prevede almeno
130.000 rifugiati dallo Yemen, dato che i combattimenti in quel paese
si intensificano.Una cifra compresa tra 600.000 e 1 milione di libici
stanno vivendo precariamente nella vicina Tunisia.
Il numero di sfollati all’interno di ogni paese è all’incirca doppio
rispetto al numero di coloro che sono effettivamente scappati e stanno
cercando di risistemarsi fuori dalle loro patrie. Molti di questi ultimi
finiscono in accampamenti temporanei gestiti dalle Nazioni Unite,
mentre gli altri stanno pagando dei criminali per farsi trasportare in
Europa.
Un dato significativo è che i paesi che hanno generato la maggior
parte dei rifugiati sono tutti luoghi dove gli Stati Uniti hanno invaso,
rovesciato governi, supportato insurrezioni o sono intervenuti in una
guerra civile. L’invasione dell’Iraq ha creato un vuoto di potere che ha
messo il terrorismo al comando nel cuore del mondo arabo. Il sostegno
ai ribelli in Siria ha solo aggravato la situazione del paese.
L’Afghanistan continua a sanguinare 14 anni dopo che gli Stati Uniti
sono arrivati e hanno deciso di creare una democrazia. La Libia, che era
relativamente stabile quando intervennero gli Stati Uniti e i loro
alleati, è ora nel caos, un caos che sta debordando nell’Africa
sub-sahariana.
Ovunque le persone fuggono la violenza, fatto che, tra gli altri
“benefici”, ha praticamente cancellato l’antica presenza cristiana in
Medio Oriente. Anche se mi rendo conto che il problema dei rifugiati non
può essere addebitato completamente a una sola parte, molti di quei
milioni sarebbero vivi e i rifugiati sarebbero per la maggior parte
nelle loro case, se non fosse stato per le catastrofiche politiche
interventiste perseguite dalle amministrazioni sia democratiche sia
repubblicane degli Stati Uniti.
Forse è venuto il momento per Washington di cominciare a diventare
responsabile di ciò che fa. I milioni di persone che vivono duramente o
in tende, se sono fortunati, hanno bisogno di aiuto, e non basta che la
Casa Bianca si trinceri nel suo silenzio, una posizione che sembra
suggerire che i rifugiati siano in qualche modo un problema di qualcun
altro. Essi sono, in effetti, un nostro problema. Un briciolo di onestà
da parte del presidente Barack Obama sarebbe apprezzato, magari
un’ammissione che le cose non sono andate esattamente come previsto
dalla sua amministrazione e da quella del suo predecessore. E servono
soldi. Washington spende miliardi di dollari per combattere guerre che
non andrebbero combattute e per sostenere finti alleati in tutto il
mondo. Tanto per cambiare potrebbe essere una soddisfazione vedere il
denaro dei contribuenti speso in qualcosa di buono, collaborando con gli
Stati più colpiti nel Medio Oriente e in Europa per riassestare i
senzatetto e facendo un vero sforzo per concludere positivamente i
negoziati atti a porre fine ai combattimenti in Siria e Yemen, che
possono solo avere esiti indicibilmente brutti se dovessero continuare
sulla strada attuale.
Ironia della sorte, i falchi americani stanno sfruttando l’immagine
del ragazzo siriano morto per incolpare gli europei per la crisi
umanitaria, chiedendo nel frattempo anche uno sforzo decisivo per
deporre Bashar al-Assad. Nel Washington Post dello scorso venerdì l’editoriale principale si intitolava “L’abdicazione dell’Europa” e inoltre c’era un editoriale indipendente
di Michael Gerson che sollecitava un cambiamento immediato del regime
in Siria, dando la colpa della crisi esclusivamente a Damasco.
L’editoriale inveiva contro gli europei “razzisti” riguardo la
situazione dei rifugiati. E non è chiaro come Gerson, un neoconservatore
evangelico, ex autore dei discorsi di George W. Bush, possa credere che
permettere alla Siria di cadere in mano all’ISIS porterebbe vantaggi a
qualcuno.
Noi americani ci stiamo avvicinando a qualcosa simile alla completa
negazione di come sia veramente orribile l’impatto recente che la nostra
nazione ha avuto sul resto del mondo. Siamo universalmente odiati,
anche da coloro che stendono la mano per ricevere la loro mancetta, e il
mondo sta senza dubbio scuotendo la testa mentre ascolta la bile che
esce dalla bocca dei nostri candidati presidenziali. Shakespeare ha
osservato che il “male che gli uomini fanno, sopravvive dopo di loro,”
ma non conosceva gli Stati Uniti. Noi scegliamo di mascherare le cattive
scelte che facciamo, e poi raccontiamo bugie per giustificare e
attenuare i nostri crimini. E nonostante questo, il male che facciamo
alla fine scompare nel “buco della memoria”. Letteralmente.
Mentre scrivevo questo pezzo ho guardato Ali Hussein, il bambino
iracheno che è stato ucciso dalla bomba americana. E’ stato “obliato” da
Google, così come pure la sua foto, presumibilmente perché la sua morte
non si accordava col politicamente corretto. Verosimilmente, è stato
allo stesso modo eliminato dall’archivio del Washington Post. Immediatamente, mi è venuta in mente la vicenda di Winston Smith in “1984” di Orwell.
Preso da: http://vocidallestero.it/2015/09/14/una-crisi-di-rifugiati-prodotta-dagli-usa/
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