A otto anni dalla morte dei rais libico Muhammar Gheddafi la Libia non è mai stata così vicina alla divisione come oggi. Dopo 14 settimane di scontri a Tripoli e dintorni, 1.093 morti
(inclusi 106 civili), 5.752 feriti (tra cui 294 civili) e oltre 100
mila sfollati, il confronto militare tra le forze dell’ovest che fanno
capo Governo di accordo nazionale (Gna) del premier Fayez al Sarraj le
milizie dell’est inquadrate nell’Esercito nazionale libico (Lna) non
accenna a diminuire.
È una guerra a bassa intensità,
combattuta con pochi miliziani sul campo e molti aiuti stranieri. Un
conflitto che si gioca su più livelli: uno che coinvolge gli attori
locali divisi fra milizie, tribù, clan e municipalità rivali; un altro
relativo agli attori regionali, che sostegno attivamente l’una o l’altra
parte, in particolare Turchia e Qatar contro Emirati Arabi Uniti e
Egitto; infine ci sono gli attori esterni, comunque influenti, come
Italia, Francia, Russia, Stati Uniti senza dimenticare la Cina, che con
la caduta di Gheddafi ha perso importantissime commesse nell’ex
Jamahiriya. Per i diplomatici internazionali e i politici locali è un
tabù, quasi una blasfemia: eppure la partizione della Libia non è una
mera ipotesi, ma una realtà di fatto sul terreno.
La sensazione che si sia oltrepassato “l’orizzonte degli eventi” è emersa con chiarezza poco dopo la Conferenza di Palermo
“per” e “con” la Libia, organizzata dall’Italia più per contrastare
l’iniziativa francese che prendere realmente in mano un dossier di
natura strategica per il nostro paese. I segnali che si fosse
oltrepassata la linea rossa avrebbero dovuto essere colti quando Khalifa Haftar, invece di togliersi la divisa militare e indossare la cravatta Talarico che
gli aveva regalato a Palermo il nostro premier Giuseppe Conte, ha
cominciato a conquistare uno a uno i pozzi petroliferi (inclusi quelli
dell’Eni) e le basi aeree del Fezzan. Quello stesso Fezzan
dove l’Italia aveva saputo giocare in apparenza brillantemente le sue
carte sotto il “governatorato generale” di Marco Minniti. Non deve
essere stata un’impresa facile portare a Roma i rappresentanti delle
tribù Tebu e Awlad Suleiman, alla presenza dei Tuareg, per firmare un accordo di pace dopo anni di violenze e ammazzamenti vari. E’ stato invece facilissimo mandare tutto in malora: è bastato non fare niente.
La domanda è: come se ne esce? Sul tavolo ci sono almeno tre “iniziative” nazionali.
Una avanzata dal premier di Tripoli Sarraj, che prevede una grande
conferenza intra-libica (con l’esclusione però di Haftar) ed elezioni
entro il 2019: una soluzione che al momento non ha trovato un grande
seguito e che deve fare i conti con la realtà del conflitto armato sul
terreno. La seconda proposta è quella avanzata da Haftar, che include
sostanzialmente un’azione militare per conquistare la Tripolitania e la
successiva creazione di un “governo di unità nazionale”, sottoposto
all’autorità militare, con sede in una città che potrebbe anche non
essere Tripoli. Infine, c’è l’iniziativa della Camera dei
rappresentanti, il parlamento libico con sede a Tobruk, nell’est del
paese, che propone
una “transizione pacifica del potere regolata dalla dichiarazione
costituzionale e dai suoi emendamenti” in colloqui con Tripoli e
Misurata simili, per certi versi, alla mediazione intra-palestinese tra
Hamas e Fatah e ai negoziati siriani.
L’Istituto per gli studi di politici internazionali (Ispi) ha pubblicato un interessante articolo in cui propone una soluzione alternativa di “tipo curdo”
applicata alla Libia: forte autonomia alla Cirenaica, a cui spetterebbe
circa il 30 per cento dei proventi delle risorse petrolifere, in cambio
della pace. Una proposta che ha il pregio di andare al nocciolo della
questione: l’opaca distribuzione dei proventi del petrolio – estratto
dalla National Oil Corporation, ma di fatto distribuito dalla Banca
centrale libica di Tripoli – è una delle principali concause che ha
portato de facto alla tragica situazione di guerra civile.
Nonostante il confronto armato, i
pozzi di petrolio in Libia continuano a pompare in modo consistente
toccando quasi i livelli pre-rivoluzione del 2011. L’output è
paradossalmente aumentato da quando le strutture petrolifere sono
protette dalle milizie del generale Haftar. A conferma che il punto non è
il petrolio in sé, ma la Banca centrale, i suoi proventi e la loro ripartizione. Non a caso il presidente della National Oil Corporation (Noc), Mustafa Sanallah
e il generale Haftar sono usciti sulla stampa internazionale con due
interviste molto simili. Parlando alla rivista settimanale specializzata
“Mees”,
il presidente della compagnia libica ha detto chiaramente che la Libia
si dividerà se la Cirenaica riuscirà ad esportare petrolio in autonomia.
Da parte sua, Haftar ha rilasciato un’intervista all’agenzia
d’informazione economica Bloomberg per
rassicurare i mercati (“L’Esercito nazionale libico ha dimostrato in
tutte le battaglie estrema attenzione per mettere in sicurezza le
strutture petrolifere e non intervenire nel loro lavoro) ma anche per
minacciare la Noc (“La compagnia non dovrebbe mettere le sue risorse al
servizio dei terroristi e di altre milizie armate, e dovrebbe evitare di
lavorare contro l’Esercito”).
La soluzione si scontra con alcune
problematiche. Quanti e dove sono i libici? È importante saperlo con
esattezza se si vogliono distribuire i proventi del petrolio e del gas
in base alla popolazione (o meglio, ai governi autonomi teoricamente
scelti dagli elettori al livello locale). L’ammontare dei proventi
petroliferi verrebbe infatti calcolato in rapporto alla percentuale
della popolazione libica delle tre macro-regioni del paese:
Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. L’ultimo censimento della popolazione
risale al 2006: bisognerebbe fare nuova rilevazione statistica con
soggetti super-partes i cui risultati vengano riconosciuti da tutti. Si
può fare? “Serve democrazia per quello. E nelle condizioni attuali non è
possibile”, spiega una fonte diplomatica europea presente in Libia, che
ha preferito mantenere l’anonimato per motivi di sicurezza.
In Iraq, le risorse petrolifere
propriamente “curde” (campi di Kirkuk, ancora contesi, esclusi) sono di
gran lunga inferiori a quelle del resto del paese (più o meno il 5 per
cento, ma è difficile trovare dati ufficiali dal momento che Erbil
continua a esportare petrolio sottobanco): questo è peraltro uno dei
principali motivi alla base delle spinte autonomistiche del
governatorato meridionale di Bassora, tanto ricco di petrolio quanto povero di sviluppo. E il Fezzan libico, che ospita il giacimento di petrolio
più grande del paese ma è paradossalmente poverissimo, come prenderebbe
questa ripartizione? “Male. Serve un piano per il meridione. Ma finché
sudanesi e ciadiani fanno quello che gli pare è tutto inutile”, aggiunge
la fonte.
La Cirenaica ospita
circa il 60 per cento delle risorse del paese e il 30 per cento della
popolazione, percentuali decisamente più consistenti rispetto alla
regione autonoma del Kurdistan (5 per cento delle risorse, 13 per cento
della popolazione): la leva negoziale di Bengasi è quindi molto più
importante di quella di Erbil e non è detto che Bengasi possa
accontentarsi del 30 per cento. Il “modello” curdo non ha impedito
una gravissima frattura tra Baghdad ed Erbil – esacerbata dalle dispute
irrisolte per i territori contesi (Kirkuk, ma non solo) e dalle tensioni
etniche e confessionali tra curdi, turcomanni e sciiti – sfociata nel
referendum sull’autonomia di Erbil nel settembre del 2017, poi bocciato
dai giudici iracheni. La crisi è momentaneamente rientrata, ma solo
perché il clan Barzani è stato “abbandonato” dagli Stati Uniti per non
compromettere del tutto i già burrascosi rapporti con la Turchia.
In Libia, nulla impedisce ai potenti
sponsor del feldmaresciallo libico con passaporto Usa (Egitto, Emirati
Arabi Uniti, Arabia Saudita, ma anche Francia e Russia in seconda
battuta) di avallare un referendum “alla Barzani” per
l’indipendenza della Cirenaica, una volta che si saranno calmate le
acque. A quel punto sarebbe impossibile ripristinare lo status quo ante:
la partizione della Libia diventerebbe ufficiale. Per la popolazione
libica potrebbe essere uno shock: molte famiglie di Tripoli hanno
parenti a Bengasi e viceversa. Eppure, è impensabile pensare oggi a una
Libia davvero unita, con un suo Esercito unitario: come può un ragazzo
di Misurata svolgere il servizio di Bengasi? Oggi semplicemente non può
farlo, perché la Libia è già di fatto divisa: la Cirenaica appannaggio
di Egitto, Emirati, Francia e Russia; la Tripolitania sostenuta da
Qatar, Turchia, Italia e Regno Unito; il Fezzan, con i suoi giacimenti,
resta un territorio esposto alle scorribande dei gruppi armati e dei
trafficanti.
Preso da: https://it.insideover.com/guerra/la-libia-corre-verso-la-partizione-sara-questa-la-soluzione-alla-guerra.html
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